giovedì 30 aprile 2015

NBT: AVENGERS: AGE OF ULTRON

Avengers: Age of Ultron è un film del 2015 scritto e diretto da Joss Whedon. Si farebbe prima a dire quali attori non comprende il cast invece di elencare tutti quelli compresi ma comunque gli interpreti principali sono: Robert Downey Jr., Chris Hemsworth, Mark Ruffalo, Chris Evans, Scarlett Johansson, Jeremy Renner, Samuel L. Jackson eccetera eccetera eccetera. Il film è stato prodotto dalla Marvel Studios e distribuito dalla Walt Disney Studios Motion Pictures ed è costato circa 280 milioni di dollari.

La trama in breve: Ultron un robot senziente creato da Tony Stark sfugge al controllo del suo creatore e minaccia di distruggere ogni forma di vita organica sul pianeta. Mettiamo subito le cose in chiaro: "Avengers: Age of Ultron" fallisce miseramente. Le mie aspettative per questo film in realtà erano molto basse ma ero andato a vederlo per curiosità dato che è il film supereroistico dell’anno e quindi mi aspettavo almeno di vedere un film gradevole. Tra l’altro avevo visto il primo The Avengers che pur non essendo memorabile era riuscito comunque a farmi passare due ore piacevoli e con questo sequel speravo di replicare, purtroppo non è stato così.

Si comincia subito con una scena d’azione con gli Avengers già assemblati per bene, a differenza del primo film in cui se non ricordo male nella parte iniziale le sequenze d’azione erano ridotte (si fa per dire) perché si doveva prima riunire la squadra, qui invece si parte da subito con una battaglia di gruppo e si vedono subito gli Avengers in formazione d’attacco che combattono tra le nevi di una cittadina dell’Europa dell’est. Si continua così per tutta la durata del film con molte lunghe scene d’azione frenetiche che però non lasciano il segno. Secondo me con meno scene d’azione ma collocate meglio e soprattutto realizzate meglio si sarebbe potuto raggiungere un livello di epicità maggiore, le battaglie sono sì convulse ma non mi sento di definirle spettacolari o epiche: sanno troppo di già visto.
Inoltre a mio parere le scene d’azione soffrono di una grave pecca: sono collocate in un setting sbagliato. Nel primo Avengers le scene di battaglia si svolgevano a New York quindi il setting era perfettamente adatto per un cinefumetto mentre in questo secondo capitolo le battaglie più importanti si svolgono in questa piccola città dell’Europa dell’est (nel film si parla di Europa dell'est ma in realtà le rispese si sono svolte in una cittadina della Val d'Aosta) , questo a mio avviso non è il luogo adatto dove ambientare un film di questo tipo: una città così piccina e insignificante è inadeguata per ospitare uno scontro tra titani com'è quello tra gli Avengers e i robot di Ultron. E’ anche vero che uno dei combattimenti è ambientato a Seul ma le parti più importanti del film sono in un paesotto della Val d'Aosta e questo toglie molto all'epicità complessiva.

Il regista di Age of Ultron è lo stesso del primo Avengers e mantiene lo steso stile registico che aveva usato nel primo film. Se parliamo della regia di questi due film è opportuno distinguere le scene d’azione dalle scene “statiche”. Le scene statiche (o stitiche?) sono girate in maniera triste con primi piani sulle facce dei personaggi e praticamente senza movimento di macchina, una regia degna delle migliore puntate di Tempesta d’amore . Nelle scene d’azione il film si risolleva con una regia molto più dinamica e tutto sommato adatta ad un film di questo tipo ma anche se queste parti sono realizzate molto meglio delle scene statiche dal punto di vista registico comunque non sono sufficientemente epiche e sanno di già visto.
Questo film è stato una vera delusione. Penso che ora lascerò perdere i cinecomics per lungo tempo. Incurante delle mie decisioni il calendario dei film supereroistici è già pronto e prevede da ora fino al 2019-2020 una marea di film. E’ da 15 anni che dobbiamo sorbirci film di supereroi tutti uguali a sé stessi e da qui al 2020 sembra non ci sia speranza di invertire la tendenza. Oramai dopo anni e anni di film fotocopia avremo pure il diritto di chiedere anche in questo filone cinematografico un po' di innovazione o no?

La prima volta che ho visto un cinefumetto è stato nel lontano 2002 e il film era  il primo Spider-Man della trilogia Sam Raimi e...WOW quello sì che era un film fantastico! Vi posso assicurare che mi sono esaltato da bambino vedendo le scene di Tobey Maguire vestito da Spider-Man che volteggia tra i grattaceli di New York, mi sono emozionato forse perché erano scene realizzate molto bene, forse perché erano scene che non si erano mai viste, forse perché ero un BAMBINO.
Ed ecco che abbiamo finalmente centrato il punto della questione. The Avengers: Age of Ultron  non ha saputo divertire me (un ventenne) ma lo scopo del film non era quello di far divertire i ventenni, a vent’anni penso che sia ora di smettere di guardare gente in costumino e calzamaglia che vola. Questi sono film che nascono e sono pensati prevalentemente per i bambini/preadolescenti/adolescenti (che poi ci siano persone di trent'anni che si esaltano per questi film è un'altra storia) e valutarli con troppa severità o con troppa cattiveria (Dove sono i movimenti della macchina da presa? La fotografia è mediocre! Sembra una punta di Tempesta d’amore LOL LOL) è sbagliato. E’ tempo che si capisca che ogni film va analizzato calandolo nel proprio contesto: non è possibile analizzare un cinefumetto con gli stessi metri di valutazione con cui si analizza un film di Stanley Kubrick. I difetti che si possono imputare ad un cinefumetto sono diversi dai difetti imputabili ad un film d’autore e questo troppo spesso lo si dimentica. Quando ho visto il film al cinema domenica scorsa  la sala era stracolma, durante la proiezione il pubblico si è entusiasmato e alla fine del film è partito un fragoroso applauso.
Gli autori di questo film non avevano intenzione di creare un film impegnato, sapevano che The Avengers: Age of Ultron non sarebbe diventato il nuovo Quarto potere, il loro obbiettivo era quello di far divertire e di intrattenere gli spettatori per due ore. Quindi VAFFANCULO! Se il pubblico in sala durante la proiezione si è divertito allora il film ha vinto.

Antonio Margheriti

martedì 28 aprile 2015

FLOP 5 CLASSICI DISNEY

Sfatiamo un mito ricorrente: non tutti i classici Disney sono dei capolavori, anzi, alcuni di questi sono dei veri e propri prodotti scadenti, privi di una trama interessante, di personaggi carismatici e talvolta realizzati qualitativamente male. Passiamo quindi all’analisi dei cinque classici più brutti in assoluto secondo me. Ovviamente tutti i pareri espressi sono personali, non oggettivi, per cui se il vostro film preferito compare in questa breve classifica o non siete d’accordo con i giudizi espressi non adiratevi, piuttosto dite la vostra con un commento qui sotto o sui social. Cominciamo…

 

5° POSIZIONE: LE AVVENTURE DI BIANCA E BERNIE (1977)
Se il seguito era entrato di diritto nella classifica dei classici sottovalutati, “Le Avventure di Bianca e Bernie” finisce direttamente nella flop 5. I due topini protagonisti sembrano a primo acchito mediamente simpatici, ma alla lunga dimostrano di non essere in grado di reggere l’intero film da soli e soprattutto Bianca diventa fastidiosa nel finale. Entrambi comunque statici, poco pronti e brillanti. Mancano decisamente di mordente, sarebbero stati discrete spalle comiche di un film più movimentato. Questa pellicola infatti soffre di una lentezza eccessiva che pesa sul giudizio complessivo; non riesce mai a coinvolgere lo spettatore fino in fondo e a tratti risulta addirittura soporifera. La cattiva di turno è troppo simile a Crudelia Demon della famosa Carica, solo più esagerata in alcuni aspetti e decisamente troppo sopra le righe per poter sembrare credibile nel contesto in cui è calata.
Anche tecnicamente il film lascia molto a desiderare: animazione scadente, regia banale e fotografia assente. Si salvano solo poche cose dal marasma generale: il gabbiano Orville, la sequenza iniziale con palese citazione all’ONU e l’atmosfera di fondo che si respira nella seconda parte della pellicola, cupa, malinconica, ben riuscita.



4° POSIZIONE: LA PRINCIPESSA E IL RANOCCHIO (2009)
La Disney ha seguito un percorso ben preciso nel suo sviluppo fatto di molti alti e qualche basso, ma tutto, se visto ai giorni nostri, è servito a far maturare alla casa di produzione una coscienza artistica che nel tempo ha favorito lo sviluppo di veri e propri capolavori. Possiamo dire che negli anni la Disney si è evoluta passando dalla fiaba della mela avvelenata a San Fransokyo. Ciò che ha sempre fratto luccicare gli occhi agli appassionati di film d’animazione come me è il continuo rinnovamento, la continua ricerca di nuove ambientazioni inesplorate e la crescita dei modelli dei personaggi del passato. Con la Disney nulla è statico, nulla è stantio, tutto cambia e, magari seguendo una strada lunga e tortuosa, migliora.
Tutta questa premessa per dire che “La Principessa e Il Ranocchio” è la manovra commerciale più sbagliata e deplorevole della storia della casa di produzione di Topolino. Tornare al passato solo per vendere nuovi giocattoli e aggiungere un nuovo membro al novero delle commercialissime principesse. Non funziona nulla: storia banale ma soprattutto già vista, personaggi statici e spinti dai soliti inflazionati propositi, classico finale buonista, canzoni fastidiose, noiose e inutili. Tutto sbagliato dal principio. Ci vuole originalità e genuinità per rimanere nel cuore dei bambini.
Salvabili solo le molte citazioni introdotte per poter arrivare anche ad un pubblico più navigato, il ranocchio (anche se poco originale) e qualche scena d’animazione classica in 2D.



3° POSIZIONE: TARON E LA PENTOLA MAGICA (1985)
Il periodo buio in tutti i sensi. Questa volta la Disney decide di virare verso toni dark e la scelta in sé sembrerebbe anche interessante: ambientazione medievale, draghi, castelli, scheletri, maledizioni, destino, predestinazione, duelli. Le premesse per invertire il trend e rivoluzionare l’animazione americana c’erano tutte, ma i produttori non avevano fatto i conti con gli sceneggiatori e gli animatori. La storia crolla in maniera banale dopo i primi minuti di tensione, i personaggi e i dialoghi sembrano scritti da un bambino di cinque anni, ancor prima che impari a scrivere. Riguardando il film anni dopo ho provato vergogna ogni volta che la ragazza imprigionata nel castello o il menestrello aprivano la bocca per dire una sciocchezza. L’unica cosa che si può fare in questi casi è prenderla sul ridere, anche se i toni del film non lo prevedono, perché altrimenti sarebbe da piangere per la tristezza che certi dialoghi fanno venire. La trama viene sfruttata molto male e la tensione che si sarebbe potuta accumulare rimane ipotetica a causa di un paio di scelte davvero infelici. L’animazione è pessima, una delle peggiori della Disney; a tratti sembra di essere tornati negli anni ’30 con Biancaneve che si muove palesemente e a fatica su uno fondo statico. In questo film ogni sfondo è poco curato e il distacco tra la parte disegnata e immobile e i personaggi animati è fastidioso e inaccettabile nel 1985. Un film brutto in senso generale che pecca in ogni aspetto, minimamente encomiabile solo la scelta dell’ambientazione gotica e dei toni tenebrosi.



2° POSIZIONE: BOLT - UN EROE A QUATTRO ZAMPE (2008)
Peggio di un film brutto c’è solo un film inutile. È questo il caso di Bolt, primo film in 3D per la Disney. Bolt non ha niente in particolare che non va, ma non ha neanche qualcosa che va, sta nel mezzo, nella mediocrità dell’inutilità. Ambientazione anonima (perfino quella de “La Carica dei 101-2 Macchia un Eroe a Londra” è più ispirata), personaggi stereotipati e per niente carismatici, storia nata insieme all’uomo millenni fa. Nessuna innovazione, nessun pregio. Sfruttamento sfacciato dell’immagine dei dolci cagnolini per ingraziarsi i pareri di un pubblico infantile che un giorno riguarderà e rivaluterà questo titolo. Tecnicamente non eccelso anche se superiore ai primi esperimenti di computer grafica animata degli anni 2000. Un’ora buttata nel mezzo.



1° POSIZIONE: DINOSAURI (2000)
Perché? Perché quest’abominio è stato inserito nel filone dei classici? Semplicemente orribile.
Primo tentativo della Disney di realizzare un lungometraggio animato esclusivamente in CGI. Le premesse per un classico “usuale” c’erano, anche se l’ambientazione giurassica era già stata sfruttata ampiamente nella saga de “La Valle Incantata”, ma ogni scelta registica e di sceneggiatura è stata sbagliata clamorosamente. Trama piatta, personaggi insulsi, doppiaggio italiano pessimo, scene soporifere ma soprattutto le scelte stilistiche, derivate dall’uso della computer grafica, inqualificabili. I dinosauri sembrano tutti uguali e assumo a tratti lo stesso colore del terreno, si fatica a distinguerli tra loro e a distinguerli con l’ambientazione circostante. Trama che riprende l’estinzione dei grandi rettili e la reinterpreta riuscendo a ricavarne solo una lunga ed estenuante marcia verso l’acqua in cui vengono buttati completamente a caso speranza, violenza, amore e amicizia. Uno dei protagonisti più anonimi di sempre, debole anche esteticamente. Fotografia inesistente se non nella scena dei meteoriti. Nulla di salvabile.

Un film che non augurerei a nessuno di vedere, nemmeno al mio peggior nemico. Inguardabile.


E voi cosa ne pensate? quali sono secondo voi i classici Disney peggiori di sempre? ditelo con un commento. A presto con la prima parte della classifica dei migliori. 

domenica 26 aprile 2015

RECENSIONI DELLA SETTIMANA 20-26 APRILE




FILM: ZODIAC (2007)
Bryan Singer conferma ancora una volta le proprie doti registiche confezionando un prodotto stilisticamente impeccabile. La sola sequenza iniziale, con movimenti di macchina classici ma ben realizzati, vale da sola il prezzo del biglietto. L’ambientazione anni ’60 è resa in maniera azzeccata attraverso una precisa cura del particolare, meno ispirata quella anni ’70, ma comunque accettabile. Le interpretazioni dei tre protagonisti sono discrete ma nulla più; se dovessi premiarne una sceglierei quella di Mark Hulk Ruffalo perché più convincente, anche se non supportata da un doppiaggio italiano all’altezza. Il vero problema del film è la lentezza: da un thriller-giallo-poliziesco ci si aspetterebbe una dose di adrenalina decisamente maggiore, invece, complice anche la lunghezza eccessiva della pellicola, i momenti di tensione risultano essere due o tre, nulla più. Per il resto è calma piatta, solo investigazione su investigazione. Ovviamente stiamo parlando di una scelta stilistica e registica, non di una mancanza del film. Singer ha voluto esplicitamente rifarsi ad un genere di cinema che si riprende i polizieschi degli anni in cui la pellicola è ambientata, quei polizieschi realizzati con poco budget e quindi privi di scene d’azione e inseguimenti al cardiopalma, ma fondati sui dialoghi, sul carisma dei personaggi e sulla scoperta progressiva di nuovi indizi. Tutto in verità è lineare, coerente e credibile, ma troppo lontano dalla frenetica realtà odierna per riuscire a coinvolgere appieno lo spettatore. Un film di nicchia, un film d’altri tempi. La pecca più grande rimane però il finale mozzato, una mancanza che abbassa inesorabilmente il livello del prodotto facendo sfociare nel nulla quella poca tensione che si era accumulata in due ore e mezza di visione. Iron Man sfruttato male. VOTO: 6.5



FILM: I FRATELLI GRIMM E L’INCANTEVOLE STREGA (2005)
Terry Gilliam. Dicono di lui sia un regista visionario, un genio del cinema moderno, e a dirla tutti i suoi grandi film li ha girati (“Brazil” e “La Leggenda del Re Pescatore”), ma stavolta pecca di presunzione nella riproposizione romanzata della storia dei due fratelli tedeschi scrittori di fiabe per bambini. La trama sa di già visto e a tratti fa acqua ma tutto sommato è godibile nella sua semplicità e immediatezza, i protagonisti invece sono stati rielaborati in maniera interessante e più moderna, Il genio ribelle e il Joker riescono poi a caratterizzarli in maniera soddisfacente. I problemi sono da ricercarsi altrove: la comicità quasi sempre banale ad esempio non strappa mai neanche un sorriso abbozzato, sembra quasi diretta ad un pubblico infantile (quello delle fiabe dei Grimm appunto), ma alcune scene crude e le ambientazioni cupe allontanano i bambini dal prodotto. I personaggi secondari sono sempre eccessivi e macchiettistici e ciò risulta fastidioso alla lunga. La regia è monotona e stancante, Gilliam ripropone sempre le stesse inquadrature che potrebbero sembrare azzardate e innovative solo la prima volta che vengono realizzate, alla seconda cominciano a sembrare pesanti, alla terza il regista ha ormai definitivamente superato il limite. Variare e spaziare senza mai far sentire la propria mano sull’opera in maniera eccessiva. La fotografia inoltre ha degli sbalzi improvvisi e inspiegabili, per non parlare dell’uso della computer grafica, forse l’unico motivo di riso in tutto il film.
Gillian ci propone poi delle "finissime" citazioni alle fiabe classiche, come Raperonzolo e l’omino di marzapane, ma sono fatte in maniera così grezza e superficiale che riescono a diventare una pecca per il film anziché elevarne il livello. A tratti il restista sembra temporeggiare sulle inquadrature relativa alle citazioni, come a voler dire: “Ehi! Avete visto tutti, vero? Avete visto tutti che magistrale citazione che ho fatto?”. Irritante e presuntuoso. VOTO: 4.5



ALBUM: DEMON DAYS (2005)
La band virtuale più famosa al mondo si conferma con questo secondo lavoro in studio ancora più eclettico, ancora più coinvolgente. Stavolta Damon Albarn decide di puntare prevalentemente sull’elettronica applicata all’alternative rock classico dei Blur senza però trascurare influenze pop, hip-hop e rap. Il risultato di questa commistione è un disco complesso, musicalmente particolare e indubbiamente di qualità. Ogni brano dimostra di avere una linea di fondo che non viene mai stravolta del tutto, una sorta di coerenza musicale che contraddistingue l’opera in toto. I suoni non sono mai esasperati e ridondanti, ma sottili e ricercati anche se faticano a raggiungere un livello di introspezione tale da risultare diversi a seconda dell’ascoltatore. A tratti quest’album sembra non voler andare incontro all’acquirente, ma aspetta che sia questo a porsi nel giusto stato d’animo per poter gustare ciò che il prodotto ha da offrire. “Feel Good Inc.” funziona splendidamente perché è la più pop e accessibile delle canzoni presenti, ma anche “DARE” segue la stessa linea. I brani che invece colpiscono maggiormente un individuo ben disposto all’ascolto potrebbero essere “Kids With Guns”, “Dirty Harry” e “Damon Days”. Le collaborazioni sono quasi tutte valide e interessante, leggermente meno ispirate quelle legate al mondo dell’hip-hop.
 Un lavoro innovativo, coraggioso e non immediato. Un album di nicchia ben riuscito. VOTO: 8



ALBUM: TURISTI DELLA DEMOCRAZIA (2012)
Il panorama indie in Italia negli ultimi anni è decisamente in crescita. Sempre più gruppi, meno pop di quelli famosi, nel loro piccolo producono lavori molto validi e interessanti che purtroppo non riescono ad emergere e raggiungere la notorietà. È questo il caso de “Lo Stato Sociale” che con due album hanno ottenuto un successo notevole a livello nazionale. Oggi parliamo del primo, “Turisti della Democrazia” che già dalla copertina suggerisce l’irriverenza che caratterizza l’intero prodotto. Le sonorità spaziano dall’elettronica, al pop, all’indie rock rimanendo però sempre orecchiabili e accessibili a tutti. L’accessibilità è infatti uno dei punti cardini della musica del quintetto bolognese; l’obiettivo principale infatti è quello di far risaltare i testi, vera anima dell’album, e quindi l’aspetto musicale è sì curato, ma non vuole eccedere per rischiare di allontanare un determinato pubblico dal messaggio che ogni canzone porta con sé. Come detto i testi sono il veri protagonisti dell’opera; testi intelligenti, acuti, ironici e acidi che denunciano la politica italiana, le nuove tendenze giovanili, l’ipocrisia della classe media-borghese e in generale tutto il marcio che si nasconde nello stivale. Testi che aumentano il valore del prodotto e invitano a riflettere accompagnati da motivetti coinvolgenti. Una conferma che i luoghi comuni sulla mancanza di valore artistico oggi in Italia lasciano il tempo che trovano. VOTO: 8

sabato 25 aprile 2015

1992 - FINALE

La notizia migliore delle ultime due puntate è che “1992” è finalmente finito. Non mi aspettavo che il trend cambiasse e di fatto non è cambiato, anche se qualcosa di salvabile c’è, ad esempio la storia della decadenza della DC o la morte di Venturi (c’avevo preso la scorsa settimana, eh?), ma se questi vengono paragonati a tutto ciò che non funziona il bilancio è decisamente negativo. Sostanzialmente non ci si accorge che si tratta degli episodi conclusivi fino a quando mancano ormai pochi minuti e una canzone discretamente azzeccata comincia a sovrastare le parole dei personaggi che intanto si muovono e cercano di mettere più di una pezza su un finale abbozzato. La sequenza in sé non è cattiva, ma a parte la vicenda legata a Bettino Craxi e Di Pietro, le altre storie sembrano avere una conclusione insoddisfacente, in particolare quella di Bosco e della Castello.
Discreta anche la scelta di far riassumere Pastore nel pool di Tangentopoli per poter riallacciare un rapporto interessante con la realtà degli eventi di quell’anno.


Ecco, gli aspetti positivi sono finiti a mio parere, quindi proporrei di passare a quelli negativi.
Non credo di aver capito bene il rapporto tra Bibi e Leo Notte: perché si frequentano? Cos’hanno in comune? Stanno insieme o è un rapporto di amicizia o è un rapporto di interesse? Non si capisce. Il loro legame è giustificato unicamente dal seppellimento del cadavere di Venturi nella proprietà Mainaghi, per il resto sembra tutto forzato, irreale e di conseguenza fastidioso. Non viene poi fatta luce sul rapporto tra l’azienda della Falco e le organizzazioni mafiose milanesi; intendiamo alla fine che tutto emerga poi fragorosamente, ma la serie non indaga oltre sulla faccenda.
Pastore improvvisamente lascia perdere la sua battaglia personale contro il traffico di sangue e plasma infetti e decide di tornare sui suoi passi per contribuire attivamente all’inchiesta Mani Pulite. Ciò in parte funziona perché la fissazione del personaggio per la storia delle trasfusioni dannose stava diventando pesante e ripetitiva, ma abbandonarla così, da un momento all’altro, rischia di risultare controproducente.


La storia di Bosco e della Castello è forse la peggiore delle ultime due puntate. Una gravidanza da “Gli Occhi del Cuore” che allunga il brodo e tenta di approfondire ulteriormente due personaggi già ampiamente definiti quando ormai la fine è vicina e bisognerebbe tirare le somme piuttosto che aggiungere elementi. Un errore abbastanza grave degli sceneggiatori, errore banale. Una sottotrama che non porta a nulla di interessante se non alla separazione di due personaggi che per storie e personalità era evidente sarebbe avvenuta. Una sottotrama che almeno si può definire conclusa, non come quelle di Stefano Accorsi. Buio, non smetterò mai di dirlo, rappresenta in pieno tutta l’inutilità della serie: storie non concluse (come quella del vicino spacciatore), relazioni capate in aria e dialoghi imbarazzanti (tutti quelli con Bibi). Ma l’incontro con Silvio che tutti (si fa per dire) stavamo aspettando? La figlia showgirl? La relazione con la minorenne in Sardegna? Il rapporto con la Castello? L’assassinio di Venturi? Bah. Quanta futilità.


Anche stavolta a salvarsi è il solo Di Pietro che, con una scena in un bar in cui ordina due drink di fila, riesce a risultare credibile, ben caratterizzato e decisamente interessante.
Dopo dieci lunghi e strazianti episodi possiamo analizzare in la serie nel suo complesso. Sicuramente, se non si fosse chiamata “1992”, nessuno si sarebbe accorto dell’ambientazione vintage. Una fotografia curata ma a tratti irrealistica ed eccessiva allontana molto dall’idea di anni ’90 a cui siamo abituati e qualche canzone caratteristica o qualche riferimento sporadico non possono cambiare la cosa. Il comparto tecnico rimane comunque di livello medio-alto per il nostro paese. Peccato per la recitazione di alcuni personaggi decisamente non all’altezza. Un plauso ad Alessandro Roja e Guido Caprino, Messinese nelle vesti del deputato della Lega Nord, attori più che all’altezza, quasi sprecati.


I veri problemi della serie però sono due: il nome troppo pesante che porta consapevolmente e la scrittura. Inizialmente la serie si era proposta come un affresco della situazione politico-economica italiana, un affresco duro e crudo, cattivo ma realistico. Niente di tutto ciò. “1992” perde dopo due episodi il contatto con la realtà dei fatti e l’attenzione si sposta sulla finzione, sulla fiction, perché checché se ne dica la scrittura dei personaggi e lo sviluppo della trama si discostano ben poco da quelli della fiction italiana. Se fosse stato un prodotto meno pretenzioso, ma più umile, se si fosse presentato fin dall’inizio senza la volontà di denunciare la situazione italiana dei primi anni Novanta, senza la volontà di stupire e di proporsi come nuovo punto di riferimento, sarebbe potuto essere discreto, quantomeno una delle migliori fiction italiane. Peccato che in un’analisi complessiva pesa molto anche come una serie si propone.
Indubbiamente scalinate sotto “Gomorra - la serie” e “Romanzo Criminale - la serie”, e quindi incomparabile con i migliori prodotti oltreoceano.


Le premesse per un prodotto di livello c’erano tutte e da parte mia le aspettative erano alte, forse troppo. Nessun alto, solo qualche picco medio che nella pochezza generale sembra più di quello che è. Peccato, potenzialità e risorse sprecate. Ora spero che Accorsi torni a gridare per la sua Giulia e la Falco a fare foto, Roja a produzioni più decenti e la miss a Uno Mattina.

Dimentichiamoci in fretta di una serie dimenticabile.

giovedì 23 aprile 2015

NBT: ARCADE FIRE

Buon pomeriggio gente! Superato il lungo momento di completo e assoluto panico derivato dalla notizia di essere stato prescelto per avere l’onore di scrivere su questo blog, ho deciso di buttarmimici… buttarmicici… di accettare la sfida. Cominciamo.


Conoscete gli Arcade Fire? No? Male! Continuate a leggere. Si? Bravi! Continuate a leggere.
È difficile definire uno stile musicale per una band eclettica come questa. Le sonorità variano da un album all’altro, ogni volta sintetizzando “vecchi” suoni e nuove influenze. Ciò che li caratterizza e li rende davvero unici è il loro suono. Sette (o più) musicisti polistrumentisti che creano una moltitudine di sfumature sonore spesso così diverse ma amalgamate insieme così bene tra loro che risulta difficile per chi ascolta scindere le varie componenti. È come ascoltare un unico flusso sonoro proveniente da un qualche magico strumento. Forse sto esagerando, o forse no. Quando la musica riesce a catturarti, a “muoverti dentro”, credo che chiunque l’abbia composta possa ritenersi soddisfatto. È qualcosa di metafisico, in un certo senso,  che va al di là della bravura tecnica che pure non manca all’eptetto(?) canadese.
Ora però bando a tutta questa filosofia, prendete un bel respiro profondo e tuffiamoci in questo “Ocean of Noise”.


Funeral. Due parole: uno dei migliori album d’esordio di sempre. Sono 8 parole, dite? Be’ fa lo stesso. Dopo i buonissimi risultati di critica dell’Ep eponimo, Win, Will e tutta la compagnia debuttano con un vero e proprio album. Se non avete mai ascoltato gli Arcade Fire (sciagura a voi!), questo è il punto di partenza perfetto. Funeral sintetizza alla perfezione tutto ciò che è il loro suono: barocco ma allo stesso tempo leggero e piacevolissimo all’ascolto. Ci sono tracce energiche (“Wake Up”, “Neighborhood #3”, “Rebellion (lies)”),  veri e propri muri sonori che investono e trascinano fino alla fine con quell’entusiasmo che pochi sanno dare alla propria musica; altre (“Haiti”) in cui si fa sentire la grande influenza della musica caraibica (Régine Chassagne, violinista, voce, ecc.ecc. della band nonché moglie di Win, è nata ad Haiti) e che riescono dolcemente a portare la mente in quei luoghi. Il tutto amalgamato alla perfezione.
Giusto per essere chiari, gli Arcade Fire sono stati “sponsorizzati” sia da David Bowie che da Chris Martin (che si contendono la bella scoperta), sono prodotti dalla Merge Records (la stessa dei Neutral Milk Hotel e degli Spoon) e Funeral compare praticamente in tutte le classifiche dei migliori album del decennio 2000/2010. Nella top 10. Insomma, ragazzi, sono da ascoltare. Punto.


Dopo ben tre anni (che diventeranno una pausa “canonica” tra i vari lavori) la band si riunisce in una chiesetta in Canada riarrangiata a studio di registrazione, e qualche mese dopo viene alla luce il loro secondo album: Neon Bible. È  un album che spiazza specialmente al primo ascolto, sia musicalmente che tematicamente, molto diverso dal precedente e proprio per questo forse più interessante e affascinante. Spiazza perché è sostanzialmente un album americano e, aggiungo, un album americano di una band canadese. La musica è fortemente influenzata dalla cultura stelle e strisce e dai suoi cantautori, uno su tutti Bruce Springsteen (ascoltate “(Antichrist Television Blues)” e ditemi se non starebbe benissimo in un album del Boss), e lo sono, in modo diverso, i testi. L’idea tematica di fondo è l’analogia tra l’Oceano e la Televisione, entrambi “enti” impossibili da controllare che risucchiano in maniera più o meno figurata l’individuo. Ciò che rende l’album a mio parere indimenticabile è però la poesia di alcune delle canzoni, e non parlo solo delle liriche, ma di tutto l’insieme. “My Body Is a Cage” e, soprattutto, “Ocean  of noise” più di tutte rappresentano quello che lo stesso Win Butler ha definito “il rumore di una notte nell’oceano”.


Bisogna però aspettare il 2011 per vedere riconosciuto il loro talento. La Recording Accademy ha un istante di lucidità e The Suburbs, terzo lavoro in studio dei canadesi, vince il Grammy come album dell’anno. Non gridate troppo presto al miracolo però. The Suburbs, pubblicato nel 2010 (ricordate i 3 anni?) è infatti il più accessibile tra tutti i lavori in studio della band. Le influenze esotiche sono minori, gli strumenti utilizzati più tradizionali, gli arrangiamenti meno sperimentali, in linea con lo spirito dell’album: un ritorno ideale all’infanzia e quindi alle origini (Win e Will sono cresciuti in periferia). Il risultato è in ogni caso ottimo: quasi un’ora di musica che fila piacevolmente tra pezzi più tranquilli (“Wasted Hours”, “Modern Man”) e pezzi più veloci (“Ready to Start”) o addirittura frenetici (“Month of May”). Poi ci sono veri e propri capolavori, due su tutti “City With no Children” e “We Used to Wait”.


Reflektor. L’ultima fatica dell’eptetto (lo so, lo so, non esiste questa parola ma mi piace troppo) è probabilmente il loro lavoro più inusuale. Frutto di un ritiro in un castello in Jamaica, è zeppo di influenze a prima vista inconciliabili tra loro. Da una parte, ancora una volta, la musica caraibica, in particolare haitiana, e a voler essere proprio pignoli la cosiddetta “Rara music” (musica popolare haitiana, suonata con trombe, campane e altri oggetti metallici), dall’altra la musica elettronica/new wave. Ciò che ne risulta, neanche a dirlo, è un altro stupendo album da tutti i punti di vista. La musica riporta ai primi anni ’80 (New Order, B-52) con quel tocco di esotico che rende tutto più intrigante, mentre le temtiche e i testi sono più cupi: amore e morte, esemplificati dal mito di Orfeo e Euridice, in qualche modo protagonisti del doppio album. Un insieme di componenti opposte che si completano nell’ennesimo bellissimo lavoro.

Che posso dire, il miglior gruppo del nuovo millennio? Be’ ditemelo voi.


Davide Quercia

martedì 21 aprile 2015

1992 - Episodi 7 e 8

Ah l’inutilità di questa serie non ha limiti. La settima e l’ottava puntata non riescono ad invertire il fiction trend preso dalla serie. I personaggi continuano ad intrattenere rapporti poco interessanti, a compiere azioni poco interessanti per lo spettatore e a vivere della rendita maturata dai primi due discreti episodi; ma la fiducia a tempo è scaduta da un pezzo e si è portati a guardare “1992” solo per inerzia, per vedere come finiscono quelle poche cose interessanti imbastite in otto interminabili episodi.


Anche in queste puntate la parola d’ordine rimane la stessa: futilità. Perché quel personaggio compie tale azione? Perché si comporta in questo modo? Perché invece non ragiona e agisce di conseguenza così ci risparmiamo venti minuti di sottotrama inutile? Ormai ho smesso di farmi queste domande e ho aperto a questa serie il mio lato gossipparo italiano per potermi far coinvolgere almeno un minimo. A dire la verità però, a dispetto dei precedenti appuntamenti, questa settimana qualche aspetto positivo da sottolineare l’ho trovato, soprattutto nell’ottavo episodio, ad esempio l’aumento delle apparizioni del Cavaliere o la corruzione e i favoritismi parlamentari. Tutti temi noti, nessuna rivelazione o scandalo. Niente di tutto ciò, solo un minimo di realtà in mezzo a tanta fantasia poco interessante ed evitabile.


Tea Falco, alle prese con la corruzione dilagante e la malavita, si lascia convincere a tradire la fiducia del povero Pastore, ma in questo modo anche lei passa leggermente in secondo piano e ciò ci riempie di gioia, di luce nuova. Finalmente la nostre preghiere sono state ascoltate. Non capisco ancora però il rapporto forzatissimo tra la giovane Mainaghi e Leo Notte. Mah. Solo: perché? No. Non voglio saperlo.
Pastore continua le sue indagini in privato e arriva a coinvolgere anche Zeno Mainaghi, ex compagno di classe di Luca Molinari, che però gli tira il pacco e niente, Luca viene sospeso dal suo importantissimo lavoro come ufficiale giudiziario agli ordini di Di Pietro. L’unico elemento che lo legava alla realtà è stato eliminato in fretta e furia. Ora il personaggio interpretato da un Diele sempre amorfo risulta privo di qualunque elemento d’interesse per chi come me cercava una serie scandalo, una serie-inchiesta. Ora non gli rimane che incastrare la sua ex e ritenere finalmente realizzata la vendetta che va cercando dal primo episodio. Tutto prevedibile, tutto noioso.


Bosco parte e finisce bene con la sua personalissima crociata contro i proiettili all’uranio impoverito. Emerge la corruzione del parlamento dell’esercito opposta alla cruda realtà dei fatti. Non tutto quello che ci viene raccontato dai mass media è vero, troppe cose vengono filtrate dalle lobby di potere e questo è il caso della proposta di legge del parlamentare leghista che, stroncata sul nascere da interessi maggiori, mai vedrà la luce e mai giungerà alle orecchie dei comuni cittadini. Purtroppo in mezzo a due momenti buoni del personaggio c’è Veronica Castello, insopportabile e totalmente inutile. Il suo ruolo nella serie è solamente quello di sfruttare uomini di potere per ottenere la notorietà e Bosco è purtroppo capitato sulla sua strada. Una narrazione ripetitiva. Un personaggio che non si evolve mai in otto puntate. Funzionale solo perché interpretato da un’ex miss che probabilmente ha firmato per comparire almeno due volte nuda in ogni episodio. Deve essere così se no non si spiega l’evoluzione che la Leone ha subito (o non subito).
Notte. Sempre lui. Sempre l’emblema. Sottotrame inutili a gogò tra cui quella della figlia show girl, quella con la Mainaghi e quella con la Castello. Ottime potenzialità sfruttate male. Nutro ancora un minimo di speranza nelle storia principale legata alla figura di Silvio, anche se il finale è scontato. Tutti sanno che alla fine Leo incontrerà Berlusconi e lo convincerà a “scendere in campo” per la gioia di tutti gli Italiani. Azzardo che secondo me il ventennio successivo non sarà tutto rose e fiori. Ah si, ma la sottotrama legata al rapporto sessuale con la quindicenne in Sardegna? L’hanno aperta per lasciarla aperta o la chiuderanno a tradimento quando nessuno se lo aspetta e Notte finirà davvero al buio di una prigione? Aspettiamo.


Il Dandi funziona, è al centro dell’azione nonostante compaia ben poco in questi episodi. Ottimo caratterista, uno dei pochi che non si perde nella futilità generale. Tuttavia il miglior personaggio di tutta la serie è indubbiamente Antonio Di Pietro: sempre ovviamente coinvolto in prima persona nelle vicende più interessanti, forte, carismatico, astuto e storicamente accettabile, ma al contempo umano, fragile e spaventato. Ottima caratterizzazione. Probabilmente è il fatto di essere protagonisti che rovina i personaggi.


Cosa aspettarsi quando si aspetta? Cosa aspettarsi dunque dalle ultime due puntate? Personalmente mi aspetto che il cerchio si chiuda e che vengano risolte tutte le sottotrame aperte nel tempo. Mi aspetto che Notte convinca Silvio, che Bosco venga cacciato dal parlamento, che la Mainaghina finisca in carcere e Venturi venga direttamente ucciso, che Pastore ottenga vendetta e che Di Pietro incastri Bettino (scontatissima). E la Castello? Beh la Castello può fare quel che vuole che tanto non interessa a nessuno, anche se non credo che le scene di nudo diminuiranno proprio alla fine.

Ciò che poteva essere e invece non è finalmente finisce. “Dai Dai Dai”.

lunedì 20 aprile 2015

TOP 5 CLASSICI DISNEY SOTTOVALUTATI

Mentre stilavo la classifica dei migliori classici Disney all time ho notato che alcuni di questi hanno ottenuto nel tempo valutazioni discrete, o talvolta appena sufficienti, che però, a mio parere, non rispecchiano il vero valore dei titoli in questione. Per questo motivo, e per aumentare l’hype relativo alla prima parte della classifica principale, ho deciso di stilare una top 5 dei classici più sottovalutati.



5° POSIZIONE: BASIL L’INVESTIGATOPO (1986)
Il periodo nero della Disney. Se vale il detto “non è tutto oro quel che luccica”, vale anche l’opposto. Come non si potrebbe provare interesse e simpatia per un topo che vive sotto l’alloggio 221B di Baker Street a Londra? La traslazione delle storie di Sherlock in un universo parallelo popolato da topi antropomorfi è davvero ben riuscita. Basil rappresenta il primo vero giallo animato per la casa di produzione americana che riesce a mantenere nella trasposizione cinematografica lo spirito tipico delle opere di Arthur Conan Doyle. Basil estremamente intelligente, ma poco sensibile (almeno apparentemente) ed eccessivamente sicuro dei suoi mezzi, Rattigan cattivo d’eccezione che riprende la genialità meschina e subdola del famoso professor Moriarty.
Trama purtroppo a tratti troppo semplificata e sbrigativa; comparto tecnico sottotono. Tre scene però sostengono tutto il film: il rapimento traumatico dell’inventore all’inizio, la fuga di Basil e Topson dall’ingegnosa trappola e l’indimenticabile duello finale tra il protagonista e un Rattigan indemoniato e traumatizzante (per noi poveri bimbi) sul Big Ben che sovrasta l’intera città di Londra.
Film purtroppo sottovalutato. Non bisogna fare di tutta l’erba un fascio.



4° POSIZIONE: ATLANTIS - L’IMPERO PERDUTO (2001)
Miti e Leggende. La vita dell’uomo è da sempre resa più interessante da storie fantastiche e dense di mistero. Quando queste incontrano l’animazione classica americana nasce Atlantis. Il protagonista, con il sogno del nonno esploratore negli occhi, parte alla scoperta della città sottomarina accompagnato da un gruppo di personaggi sui generis la cui caratterizzazione troppo spesso eccede nella caricatura e l’eccessiva densità di dettagli toglie loro l’aria di macchiette che avrebbero dovuto avere secondo il progetto del film. Milo invece è perfetto, caparbio e insicuro, intelligente e ingenuo, uno dei migliori personaggi Disney di sempre. 
La trama ruota attorno al voltagabbana del gruppo di esploratori che accompagnano il giovane protagonista. Chi sono gli amici? Chi sono i nemici? “Pocahontas”, “La Strada Per El Dorado” e i romanzi di Jules Verne vengono mescolati per creare un’ambientazione evocativa e surreale che rende il film vecchio ma nuovo, innovativo solo in parte. Le scene legate a Kida sono meravigliosamente vive e visivamente fantastiche. Interessante la mitologia della popolazione di Atlantide. Da vedere e rivedere lo scontro finale con i protagonisti positivi a bordo di moto-pesci steampunk.



3° POSIZIONE: BIANCA E BERNIE NELLA TERRA DEI CANGURI (1990)
Raramente la Disney inserisce i sequel dei classici nella stessa sezione, ma l’eccezione fatta per “The Rescuers Down Under” è ben giustificata. Se il primo capitolo era stato un flop sia commerciale che qualitativo e aveva ammorbato una generazione di bambini con una lentezza soporifera e con dei personaggi piatti e noiosi, il secondo rilancia l’intero franchise riprendendo i pochi elementi positivi e affiancandone a questi altri molto validi e interessanti. L’Australia funziona perfettamente come ambientazione per un film incentrato sull’azione, la storia avventurosa coinvolge ed appassiona e il cattivo memorabile ricorda per atteggiamenti e minacciosità quello che sarebbe poi stato Clayton per Tarzan qualche anno dopo. Bianca e Bernie confermano di essere personaggi simpatici, ma di non saper reggere un intero film da soli; per questo vengono affiancati da Cody, ragazzo locale che vive a contatto con la natura e che i due topini dovranno salvare dal malvagio bracconiere. L’avventura è però la vera protagonista della pellicola. Si respira un’aria fresca, nuova e libera immersi nella natura unica ed inimitabile presente in Oceania. Buone le musiche. Standing ovation per la scena del volo sull’aquila. Spettacolo.



2° POSIZIONE: LILO E STITCH (2002)
Agli inizi degli anni 2000 la Disney era in una fase di cambiamento e rischiava di sfornare prodotti di transizione ambientati in location già viste e quindi poco ispirati. Rischiava di ripetersi cercando di forzare la mano su filoni già ampiamente sfruttati. Il nuovo studio situato in Florida, precisamente ad Orlando, dimostrò invece che la vena creativa di Topolino e soci era tutt’altro che esaurita fondendo il filone fantascientifico, mai davvero sfruttato a fondo dal vecchio Walt, e le Hawaii. Connubio quantomeno bizzarro che, a dispetto della aspettative, funziona soprattutto grazie ad un’ambientazione fresca e accattivante, a disegni sporchi e folkloristici e a musiche perfette tra cui Elvis e l’indimenticabile “He Mele No Lilo”. Sfondi ad acquarello che sembrano quadri di Gauguin.
I personaggi, sia gli umani che gli alieni, ispirano simpatia a prima vista, sono ben caratterizzati e subito riconoscibili. Tra questi però spicca la dolcissima e problematica Lilo. Stitch è fantastico e sarebbe perfetto se non fosse per il marketing sfrenato che è stato creato attorno alla sua figura e che ha in parte oscurato la bellezza del film stesso. 
Finale più maturo di quanto ci si potrebbe aspettare; rapporto Lilo-Nani commovente, toccante e realistico. Un plauso enorme alla serie tv animata tratta dal film.



1° POSIZIONE: IL PIANETA DEL TESORO (2002)
Rivisitazione in chiave steampunk-futuristica de “L’Isola del Tesoro” di Stevenson. Il giovane Jim Hawkins trova una sfera dorata contenente la mappa per il tesoro di Flynn e decide di salpare alla volta del Pianeta indicato dalla mappa stessa. Jimbo personaggio perfetto, con gli stessi pregi di Milo di “Atlantis”, ma con l’aggiunta di incertezza e insoddisfazione che immortalano realisticamente le difficoltà dell’adolescenza; quel momento della vita che tutti passano in cui ci si sente fuoriposto, inadeguati rispetto al mondo che ci circonda. Long John Silver enigmatico, accattivante e, a dispetto dell’aspetto fisico, molto realistico come personaggio. L’allontanamento dal mondo reale ha permesso di ottenere in maniera inaspettata il risultato opposto, ossia il realismo nelle azioni, nei pensieri e nei comportamenti dei protagonisti. 
Lo spazio sconfinato fa da sfondo alle avventure di questo improbabile equipaggio. L’ambientazione risulta accattivante, ispirata e perfettamente amalgamata con lo spirito e la trama dell’opera letteraria a cui si rifà la pellicola. Lo spazioporto sulla Luna e la traslazione dall’ “Isola” al “Pianeta” sono due perle che risplendono in una sceneggiatura già ottima. Musiche azzeccate (“Ci Sono Anch’Io”, cantata in Italiano da Max Pezzali). Rispetto della trama e dello stile avventuroso di Stevenson; sarà un piacere per gli appassionati del libro scoprire come sono stati riadattati molti particolari del libro. Finale coinvolgente, frenetico ed entusiasmante. Un ottimo classico che merita più rispetto e attenzione rispetto a quelli che ha attualmente. 

domenica 19 aprile 2015

RECENSIONI DELLA SETTIMANA 13-18 APRILE


ALBUM: LORENZO 2015 CC (2015)
Lorenzo, come il buon vino, migliora invecchiando. Viene confermata la tendenza già sentita in “Ora” ad affiancare una componente elettronica al pop classico del Jovanotti nazionale. In realtà sotto una facciata molto semplice e immediata si nasconde una moltitudine di generi e sottogeneri, influenze varie, esotiche e particolari: rap, pop-rap, hip-hop, funky, pop-rock, world music.  Il cantautore toscano si conferma dunque uno dei migliori artisti pop italiani degli ultimi quindici anni, se non il migliore, sfornando un nuovo album nel quale il 60% delle canzoni potrebbe diventare singoli da adesso all’uscita del prossimo lavoro. Tutto è molto semplice, viscerale, immediato e comprensibile. Messaggi e metafore arrivano all’orecchio (molto) e al cuore (meno) di tutti. “Gli Immortali” ottima ballata, orecchiabile, “Tutto Acceso” spicca tra le altre. Il livello complessivo è alto, per questo risulta difficile riuscire a citare una canzone piuttosto che un’altra, dipende dai gusti personali. “Lorenzo 2015 CC” non è però esente da difetti. La lunghezza dell’album infatti potrebbe anche rivelasi un’arma a doppio taglio. A mio parere il livello del secondo CD è inferiore a quello del primo e la mancanza dell’effettiva necessità di un doppio album fa pesare ancora di più alcuni brani discreti ma non al livello della maggior parte degli altri. La mancanza inoltre di pezzi più lenti e riflessivi come erano stati “Ora”, “L’Elemento Umano Della Macchina” e “Quando Sarò Vecchio” per l’album precedente si fa sentire eccome. Altro punto a sfavore di Lorenzo Cherubini in questo lavoro è l’assenza di una presa di posizione: quando un’artista raggiunge una tale popolarità ha la possibilità di esprimere le proprie idee senza la preoccupazione che queste possano fargli perdere il seguito di cui gode. In questo album mancano idee forti che diano un’impronta intelligente e acuta al prodotto. “La Mia Ragazza È Magica…” ci sta una, massimo due volte, poi basta. Alziamo un po’ i contenuti senza paura di pestare i piedi. Un gradino e mezzo sotto il lavoro precedente ma comunque un lavoro molto buono.  VOTO: 8



ALBUM: Random Access Memories (2013)
Non esce spesso un loro album, ma quando esce si fa sentire eccome. A detta di molte testate specialistiche, tra cui “Rolling Stones”, uno dei migliori album del 2013, “Random Access Memories” conferma appieno le enormi potenzialità del duo elettronico francese. Questa volta Guy e Thomas mostano un’invidiabile predisposizione alla sperimentazione musicale inserendo nello stesso lavoro tendenze diverse che portano l’album ad avvicinarsi a sempre più ad un genere nuovo, definibile electro-atmosphere, caratterizzato da brani-esperimento sempre riusciti tra cui “Giorgio By Moroder” e la meravigliosa “Touch”. Gli altri pezzi però non sono da meno; spiccano infatti le popolari e trascinanti “Get Lucky”, “Give Life Back To Music” e “Lose Yourself To Dance”. Le ultime canzoni dell’album sono invece più soft, da tenere come sottofondo dello scorrere dei pensieri.
Un prodotto pop, per tutti, ma contemporaneamente personale, per pochi. Daft Punk che si conformano e si migliorano esplorando ogni volta nuovi continenti. Ottimi i camei. Da avere nella propria collezione personale. VOTO: 9



ALBUM: Oracular Spectacular (2007)
Altro duo elettronico, altro album imperdibile. I Management (MGMT) debuttano così, senza pretese e con molta voglia di stupire nel panorama neopsichedelico, sottogenere dell’elettronica. I singoli estratti risultano tutti freschi, allegri e immediati, “Kids” però surclassa gli altri con una melodia indimenticabile e un testo enigmatico. “Electric Feel” più ballabile e spensierata. La vera chicca nascosta è però “Weekend Wars” che conferma le capacità dei due ragazzi americani; un brano musicalmente non scontato. Testi intelligenti e mai banali, musiche di livello alto per il loro genere. Bella scoperta. VOTO: 8.5



FILM: Oxford Murders (2008)
Quando “Il Signore degli Anelli” incontra “Harry Potter”, quando “Frodo” incontra “Olivander” nasce un giallo-thriller spagnolo che si propone come novità nel suo genere introducendo la variabile matematica-scientifica alla risoluzione di casi di omicidio. In realtà l’ostentata particolarità tanto nuova e innovativa non è (“Numb3rs”), e tolta quella il film risulta piatto, banale e tecnicamente rivedibile. Manca la cura per i dettagli che dovrebbe caratterizzare opere di questo tipo e manca una caratterizzazione dei personaggi degna di essere definita tale. Elijah Wood intrattiene rapporti irreali e fastidiosi con due ragazze diverse che si rivelano essere solo forzature fini a giustificare una parte della trama. Alcune scene, come quella dello scienziato impazzito e mutilato, sono sì “bizzarre” e caratteristiche, ma nel complesso si rivelano inutili e fini a se stesse. Il finale sembra voler giustificare le azioni di un assassino con la tipica frase “Le responsabilità sono da dividersi tra tutti noi”. Banale. Pochi spunti degni di interesse. Evitabile. VOTO: 5



FILM: Cruel Intentions (1999)

Riadattamento in chiave moderna de “Le Liaisons dangereuse” da parte del semisconosciuto Roger Kumble. Questa volta il romanzo di Choderlos de Laclos viene ambientato nella Manhattan di fine degli anni ’90. I protagonisti sono dei ragazzi stanchi delle solite relazioni a cui sono abituati e decisi a spingersi oltre. Questo sarà solo l’incipit di una serie di inganni, baci saffici e relazioni incestuose. La trama in partenza alternativa e interessante si affloscia con il prosieguo del film. Le reazioni degli attori diventano sempre meno credibili, stereotipate e hollywoodiane. La spontaneità è pressoché assente in questa pellicola, tutti sembrano recitare una parte di cui però nessuno è convinto. Il finale riprende il libro in maniera banale e buonista, riproponendo la classica morale sentimentale. Un prodotto che poteva essere maturo e sfruttare bene le fonti letterarie immortali a cui si ispira e invece si presenta superficiale, anonimo e destinato ad un pubblico più giovane che si lascia convincere da un paio di scene di sesso molto censurate. Discreta Buffy per l’interpretazione stereotipata ma convincete della sorellastra del protagonista. Colonna sonora non originale che salva un minimo la situazione. “Bitter Sweet Symphony”. VOTO: 5.5

giovedì 16 aprile 2015

NBT: MALINCONIA

Esistono pochi sentimenti potenti come la Malinconia, e altrettanto pochi sono quelli carichi di poesia come la stessa. Basti pensare all’enorme numero di poeti, scrittori e registi che hanno affrontato questo tema e le opere d’arte che (spesso) ne sono scaturite; stiamo parlando d’altronde di un qualcosa che può accompagnare grandi parti della nostra esistenza, un senso di profonda tristezza che almeno una volta ha colpito ciascuno di noi, per motivi sempre diversi. Ci sono individui malinconici di natura, altri che in alcuni frangenti si sentono inadeguati, altri ancora che non trovando il mondo là fuori conforme a quello che sentono dentro si chiudono in sé stessi, angosciati e terribilmente rassegnati. Ma la malinconia non scaturisce solo da questioni così grandi, può sorgere anche da una semplice delusione d’amore, da una lite con qualcuno caro o da un amicizia interrotta. 


Spesso questo tipo di sentimento viaggia parallelamente ad una grandissima nostalgia, di cosa non lo sappiamo nemmeno noi; semplicemente ci terrorizza pensare che i migliori momenti della nostra vita possano essere già passati, che nulla sarà bello come è stato in precedenza. Ed è proprio questo pesante senso d’angoscia che numerosissimi artisti sono riusciti a tramutare in musica, dando vita a piccole opere d’arte rispecchianti tutti queste terribili sensazioni; sono sicuro che ognuno di voi ha in mente vari titoli, tutte tracce che vi hanno accompagnato nei momenti più bui. Io ora vorrei proporvene cinque, cinque canzoni a cui sono particolarmente attaccato e che sono sicuro possano piacere anche a voi. 


SENTENCED – NO ONE THERE (2002)
No One There è una delle tracce più cupe e malinconiche che io abbia mai avuto la fortuna di ascoltare, e non per nulla è anche una delle canzoni più belle mai scritte. I finlandesi Sentenced hanno con questo pezzo costruito la gemma più nera della loro discografia, una traccia che lascia addosso un senso di rassegnazione gigantesco, una spaventosa angoscia nei confronti della vita e della solitudine. “When the wind blows to my heart, it shivers me one last time, as I reach out in the dark, no one there...” Difficile resistere alla magia di questi versi, difficile resistere alla magia di questa canzone.


GHOST BRIGADE – INTO THE BLACK LIGHT (2009)
Esistono gruppi apparentemente sconosciuti che in realtà sono capaci di sfornare pezzi che rasentano il capolavoro. I Ghost Brigade sono uno di questi gruppi: molto simili per stile ai Sentenced, anche loro provengono dalla fredda Finlandia e praticano un doom metal caratterizzato da atmosfere mistiche e cupe. La canzone in questione, Into The Black Light, è tratta dal loro secondo album, Isolation Songs , ed alla stessa maniera della canzone precedente questo pezzo ha la capacità di penetrare il nostro animo, trasudando malinconia e desolazione e possedendo un finale a dir poco maestoso. Into The Black Light non lascia spazio ad alcuna speranza, ad alcun raggio di luce, se non a quella nera. “I have waited all my life, for someone to get me out of here, I never knew the view from the edge of the world would look like this”.


BLACK SABBATH – SOLITUDE (1971)
Solitude rappresenta una delle canzoni più singolari che i Black Sabbath abbiano scritto. La sua aura mistica, il cantato morbido e malinconico di Ozzy Osbourne e le dolci sei corde di Iommi costruiscono una splendida caricatura di un animo solitario ed errante, alla ricerca disperata di una qualsiasi forma di felicità, che quasi certamente non arriverà mai. “Il mondo è un luogo solitario” dice il testo “sei da solo”; rassegnato, solo e pieno di angoscia, l’unico sollievo che il protagonista trova sta nel sedersi a casa e pensare. Tuttavia proprio questo fatto lo porta alla sconvolgente realizzazione che tutto ciò che gli rimane di certo sono solo memorie, solo pensieri, fatto che lo riempie di nostalgia. Solitude è un pezzo storico tanto quanto il gruppo che l’ha creato, non perdetevi l’opportunità di ascoltarlo. “My future is shrouded in dark wilderness, sunshine is far away, clouds linger on, everything I possessed, now they are gone”.


BURZUM – DET SOM ENGANG VAR (1994)
L’oscurità fatta a musica, la depressione e l’odio verso questo mondo tutto racchiuso in una magica, terribile e lunghissima canzone. Quello che Varg Vikernes (unico membro del progetto Burzum) ha realizzato è forse il suo pezzo migliore, quello che meglio rappresenta il suo animo perverso e disturbato. “Det Som Engang Var” significa letteralmente “Ciò che una volta era”, ed infatti il breve testo rispecchia macabramente le sensazioni di nostalgia, la perdita di ogni speranza, di ogni amore e di ogni gioia. La fantasia di ogni ascoltatore genererà le immagini che preferisce, ma di certo non saranno immagini di felicità o di qualsivoglia momento gioioso; perché Det Som Engang Var rappresenta una discesa nel Maelström più oscuro che il mondo della musica abbia mai visto, una caduta libera negli abissi più profondi del nostro animo. La canzone più oscura che io riesca ad immaginare. “Vi døde ikke...Vi har aldri levd” (“Non siamo morti... Non abbiamo mai vissuto”).


NINE INCH NAILS – HURT (1994)
Probabilmente tutti conoscete la versione di questa canzone realizzata da Johnny Cash, ma forse in molti meno sapete che la versione originale è dei Nine Inch Nails, gruppo industrial americano capitanato da Trent Reznor, che a mio modestissimo parere è uno dei migliori songwriter degli ultimi trent’anni. La traccia è l’ultima del loro disco capolavoro, The Downward Spiral, un manifesto di rabbia antisociale e di profonda introversione; l’album racconta la lenta discesa nella pazzia e nella disperazione di un uomo che non riuscendo a conformarsi trova come ultimo e unico sollievo il suicidio. Le frustrazioni dell’individuo medio, la vita in un contesto meccanico e malsano che trascinano il protagonista in un abisso; Hurt sono le sue ultime parole, dove vediamo questo personaggio lanciare un ultimo disperato segnale di speranza, poco prima di uccidersi: “If I could start again, a million miles away, I would keep myself, I would find a way”. L’ultimo barlume di luce poco prima della più profonda oscurità.


Cinque canzoni sono poche, pochissime, ce ne sarebbero migliaia da analizzare e su cui discutere. Io ho cercato di estrapolare quelle che trovo le più caratteristiche e che hanno soprattutto accompagnato me durante la mia vita; credo che la musica sia una parte importante nella crescita di una persona, soprattutto nei momenti in cui sentiamo il disperato bisogno di aggrapparci a qualcosa.

Spero di non avervi tediato con eccessive divagazioni, alla prossima.

Cristiano Chignola

mercoledì 15 aprile 2015

TOP 15 CLASSICI DISNEY PARTE 2


10° POSIZIONE: LA SPADA NELLA ROCCIA (1963)
Ultimo classico uscito nelle sale prima della morte di Walt, penultimo realizzato sotto la sua supervisione. La Disney incontra l’epica cavalleresca attraverso la trasposizione cinematografica dell’omonimo romanzo del 1938. Il risultato è un film caratterizzato soprattutto da un’atmosfera ispiratissima che rimanda in maniera perfetta al mondo medievale. Architetture, giochi, giostre, cavalieri, maghi, dame e scudieri. Lo spirito è lo stesso che contraddistingue opere osannate come “La Morte di Artù” di Sir Thomas Malory, ma anche altre minori e sottovalutate come “I Cavalieri della Tavola Rotonda” di Mino Milani. Associata a questa componente storico - letteraria risalta la dissacrante comicità, talvolta surreale, che pervade ogni scena. Personaggi nati come spalle comiche, come mago Merlino e il gufo Anacleto, sono diventati poi i cardini della pellicola. Le musiche dei fratelli Sherman, per la prima volta a lavoro con la Disney, si armonizzano perfettamente con l’ambientazione catapultando lo spettatore in un mondo antico e nuovo, magico e fantastico. Epica ed esilarante la scena del duello tra Merlino e Maga Magò. Forse solo la narrazione risulta un gradino sotto tutte le altre componenti del film. Uno dei classici più ispirati.


9° POSIZIONE: LA BELLA E LA BESTIA (1991)
Finalmente l’Academy si accorge della validità assoluta dei prodotti Disney successivi a “La Sirenetta” e decide di candidare “La Bella e La Bestia” come miglior film agli Oscar; scelta quanto mai azzeccata.
In alcune meccaniche strutturali la pellicola si rivela rivoluzionaria: l’amore viene posto al centro della narrazione e non più sullo sfondo, usato solo come espediente narrativo banale o happy ending, l’eroe invece nasce come antieroe e l’aspetto bestialmente ripugnante lo porta a comportarsi come tale per buona parte del film. Il punto a favore più significativo è però l’atmosfera tardo barocca che si respira soprattutto nelle scene ambientate nel castello, quella del ballo su tutte.
La cura del dettaglio è maniacale e denota il livello elevatissimo che i classici hanno raggiunto durante il “Rinascimento Disney”. Musiche che fanno dimenticare la natura cartoonesca del film. Spalle comiche ben realizzate e decisamente divertenti. Grande classico da Oscar.


8° POSIZIONE: RALPH SPACCATUTTO (2012)
"Senzadubbiamente" il miglior classico degli ultimi dieci anni. Finalmente la Disney si evolve, smette di guardare e di ispirarsi ad un passato statico e per certi versi inflazionato e comincia a sfruttare il mondo che ci circonda, la tecnologia, e ciò funziona egregiamente. Protagonista del film è infatti il mondo video ludico che ha accompagnato l’infanzia e l’adolescenza delle ultime due generazioni. La casa di produzione, guidata dal quasi infallibile John Lasseter, scopre un citazionismo esagerato e sempre bilanciato fino a quel momento sconosciuto. Piccole chicche per pochi e camei popolari per molti. La creazione di un universo informatico interno al nostro nel quale i personaggi dei videogiochi conducono una vita simile alla nostra è un colpo di genio che ricorda parzialmente sia Toy Story (creato e diretto dallo stesso Lasseter, “coincidenze? Io non credo”) e Tron. Ogni dettaglio è studiato e introdotto nella trama in maniera encomiabile. “Ralph Spaccatutto” però non è solo questo; il citazionismo è sorretto da una trama solida e interessante che riprende a tratti Dumbo nella gestione della disabilità della dolcissima Vanellope. Finale a sorpresa che raggiunge picchi di suspance ed epicità inimmaginabili. Protagonista e villain tra i migliori mai visti in un film d’animazione. Evoluzione perfetta.


7° POSIZIONE: FANTASIA (1940)
Unica pellicola in live action presente in classifica. Esperimento coraggioso della Disney che chiama Stokovski a dirigere otto meravigliosi pezzi di classica, riprende alcune bozze di corti su cui aveva lavorato in precedenza e dà vita ad un capolavoro. Musiche alte, solenni, pure, evocative, eseguite da un’orchestra di Philadelphia in stato di grazia si fondono a corti tipici della casa di produzione californiana in maniera perfetta. Tutti i corti presi singolarmente rappresentano delle perle rare, ormai classici dell’animazione, ma, se considerati all’interno del film, tra questi spiccano nettamente l’intramontabile "Apprendista Stregone” (dal cui concept è stata tratta e rielaborata l’omonima pellicola del 2010 con Nicholas Cage) e “Una Notte Sul Monte Calvo” con le musiche di Modest Musorgskij, decisamente il mio preferito.
Un esperimento innovativo che ha portato alla nascita di un ibrido, un prodotto a metà tra lirica e animazione, un capolavoro senza tempo che andrebbe esposto in un museo. Opera d’Arte, Arte visiva pura.


6° POSIZIONE: TARZAN (1999)
Alla fine degli anni ’90 e ormai al tramonto del “Rinascimento Disney” si vola nella foresta pluviale africana per scoprire Tarzan: adattamento cinematografico animato della serie di racconti “Tarzan of the Apes”.  Rivoluzione tecnica nella realizzazione di opere d’animazione attraverso l’introduzione della computer grafica. Film che ruota attorno al concetto di diverso: l’invito è quello a superare le apparenza per scoprire che in fondo gli elementi in comune sono più delle differenze, la Natura è uguale per tutti. Altro tema fondante è infatti quello della Natura e del rispetto per questa. Molto interessante anche lo sviluppo della storia legata al rapporto tra tra il protagonista e i genitori adottivi. Personaggi ben caratterizzati e graficamente accattivanti, comicità dosata in maniera intelligente, trama già vista ma pur sempre funzionale, senza tempo. Un plauso al villain Clayton che, seppur presentatoci senza mostrare passato e aspirazioni del personaggio, risulta scaltro e minaccioso, perfido e accattivante.
Le musiche di Phil Collins, che ha voluto cantare anche l’ottima versione italiana dei pezzi principali per l’edizione nostrana, suggellano il capolavoro. Indimenticabili la scena del time skip (“Son of Man”) e quella del confronto tra Tarzan e la madre Kala. "You'll Be in My Heart" un gradino sopra le altre. Poesia, avventura, amore, Natura. Tutto.