martedì 30 ottobre 2018

CUCCARINI, MONTESANO E LA DISUMANITÀ DALL'ALTO


Dopo il gioco delle parti e un nuovo governo che punta costantemente ad abbassare l’asticella della dignità ideologica, iniziano a formarsi delle fazioni pubbliche. Non confondiamo: qui non si sta discutendo del ruolo dell’intellettuale nel panorama politico odierno, ma non dobbiamo sminuire un processo in atto che coinvolge figure considerate di spicco per l’orizzonte popolare italiano. Una svolta c’è stata: se prima il mondo dello spettacolo amava schierarsi con l’apertura e con la mondialità, tanto che ricordiamo maggiormente le poche eccezioni alla regola - leggi Buzzanca e Lauzi -, oggi è decaduto il timore di abbracciare un pensiero populista e per l’attuale governo gialloverde si sono spalancate le porte del consenso che conta.


Prima Lorella Cuccarini si è scoperta fine statista (perfino lei), poi Francesco DJ Facchinetti che inneggia alla ghigliottina più reazionaria e infine Enrico Montesano, storico personaggio pubblico di Sinistra che giustifica pensieri, parole, opere e omissioni del vicepremier Salvini. Non si tratta di giudizi assoluti che spostano l’opinione pubblica, né di autorevoli interventi utili a sbrogliare la matassa indefinita dell’attuale situazione economica italiana, ma le parole delle persone più in vista riescono nell’intento di normalizzare una linea di pensiero. Si tratta dello stesso processo inconscio che Salvini porta avanti attraverso le sue pagine social, quando tra una notizia fake sugli immigrati e un’assunzione di merito ingiustificata ci regala il suo volto rilassato a fine serata, posta foto della sua cena, si dice vicino ad un bambini rimasto senza amici. Se non ci fosse anche questo Salvini, probabilmente saremmo concordi nel parlare di un invasato. E invece Salvini è questo e quello, e quello serve abilmente a normalizzare questo. È un pensiero retrogrado, fascista, violento, pericoloso, razzista, sessista, ma viene da uno di loro che è uno di noi, allora tutto va bene. Il Ministro dell’Intero riesce ad essere contemporaneamente un leader dal pugno di ferro e un amabile genitore. Un esponente dell’upper class che la pensa come noi. 
Lo stesso processo mentale segue le dichiarazioni dei presunti vip di cui sopra, che mostrano come dall’alto della loro posizione privilegiata la faccia dell’Italia sia la stessa e sia quindi naturale, se non necessario, sposare una linea di pensiero reazionaria a tal punto. Quando invece la posizione di rilievo è sempre andata a braccetto con una visione estemporanea che potesse cogliere le reali necessità del paese, ed è dunque accettabile che la rabbia personale di una famiglia disagiata possa rivolgersi ad un pensiero populista, lo è meno quando il populismo viene invocato da chi ha avuto la possibilità di conoscere meglio il mondo. Perché la risposta resta NON il populismo, checché ne dicano i cugini brasiliani.


Enrico Montesano, nell’intervista rilasciata al programma “Confessioni” di Peter Gomez ha dichiarato riguardo l’integrazione culturale:

È bello dirlo a parole però mettiti vicino a uno che tutti i giorni cucina con l’aglio forte forte e ti entra dentro casa […] L’integrazione è molto bella a parole, poi nella pratica…

Ed è subito il 1980, ed è subito un mondo di barriere che l’umanità ha cercato, non senza difficoltà, di trasformare negli ultimi decenni. In questo caso specifico la discussione regredisce su un piano fuori tempo massimo, senza possibilità di ribattere rimanendo ancorati ad un presente universale. E per rispondere ad un gretto qualunquismo quale quello mostrato da Montesano bisognerebbe scendere ad un livello di umanità troppo inferiore rispetto a quello a cui potremmo ambire per una discussione pubblica.
Bisogna combattere la battaglia ideologica del progresso sociale anche per chi non ha i mezzi per affrontarla. Quindi è difficile colpevolizzare chi non potrebbe pensarla diversamente, perché ogni vita è una storia differente e alcune terminano per non lasciare alternative; ma è impossibile giustificare chi, dato un ventaglio di possibilità più ampio, reale, sceglie autonomamente di rinnegare un pensiero di umanità per normalizzare per sé e per gli altri una disumanità di fondo che sta lentamente corrodendo le nostre coscienze. Quello è razzismo, all’occorrenza fascismo, come quello mostrato dallo stesso Montesano in merito alla figura di Mussolini:

Pensi sia stato un uomo che ha voluto bene agli Italiani, che li voleva aiutare, ma ha una macchia indelebile troppo grave che sono le leggi razziali, su questo non lo perdono. Ed essersi alleato con un pazzo furioso che ha portato l’Italia in guerra. Sapeva benissimo che non eravamo in grado, voleva solo sedersi al tavolo della pace, pensando che Hitler avrebbe vinto.

Quindi da oggi diventa normale anche riscoprirsi fascisti oltre che razzisti?

martedì 16 ottobre 2018

TUTTI I PROBLEMI DI “A STAR IS BORN”


Partiamo un po’ da lontano: come io vado in sala.
Vorrei dire di essere un critico d’essai, vorrei dire di essere totalmente incorruttibile, vorrei essere una persona migliore anche, ma al momento non lo sono affatto. Il mio problema è che mi faccio convincere troppo facilmente: basta un trailer montato non dico bene, non dico discretamente, va bene anche se è montato da cani, l’importante è che ci sia una canzone in sottofondo che vada in crescendo e che esploda nel finale del trailer, proprio quando appare il titolo del film.


NB: meglio una canzone anni ’60 ’70 ’80. Ma in verità in verità vi dico: va bene anche la sigla dei Teletubbies, purché formenti.

NB: mia nonna - intorno all’anno 2000 - confondeva spesso i Teletubbies con i Talebani. Tinkie Winkie che tira giù le Torri Gemelle con un balletto dei suoi.


E quindi c’ho il fomento facile.
Ma torniamo al film di oggi: A star is born, esordio alla regia per il più amato dagli americani Bradley Cooper, che mette un cappello mezzo country, imbraccia una chitarra che palesemente non sa suonare e fa la parte del rocker/poeta maledetto. Al suo fianco Lady Gaga in un ruolo ritagliato su misura per lei che riprende in parte la sua storia personale.


A leggere la trama, sentire i pareri altrui, avevo pensato sarei andato al cinema più per dovere di affermato blogger che per il piacere della visione. Poi ho visto il trailer e mi si è aperto un mondo: quando Lady Gaga entra sulla chitarra di Bradley Cooper non c’è n’è per nessuno. E le immagini raccontano di due vite che si intrecciano con l’amore, le difficoltà, la musica.
Poi ho visto il trailer e mi sono fomentato e poi sono rimasto un po’ deluso. Perché non imparo mai?
A star is born è un film molto americano, molto classico che cerca di rimodernare la storia trita e ritrita dell’opera a cui si ispira, e ci riesce solo in parte. In generale l’esperienza della visione in sala tocca dei picchi notevoli, ma è minata alla base da una serie di problemi che presi singolarmente sembrano superabili, ma che visti nel complesso rovinano in parte l’intera opera.
Ad una regia sì classica, ma adatta al contesto e soprattutto ispirata nelle sequenze musicali, non corrisponde una sceneggiatura all’altezza e una storia stantia si dipana attraverso situazioni poco strutturate, personaggi non abbastanza approfonditi per poter sostenere un certo pathos e dei dialoghi scadenti. Non arriva mai ad essere un’opera di difficile comprensione, ma molti passaggi senza una specifica logica allontanano spesso lo spettatore dall’immersione nello schermo, e in un film che tenta - anche disperatamente - di coinvolgere emotivamente lo spettatore, un muro di piccole problematicità che si frappone durante la visione diventa un ostacolo insormontabile.
Come detto il film tenta in tutti i modi di parlare allo stomaco e al cuore dello spettatore, chiedendo una lacrima in cambio. Non è deprecabile una proposta del genere, si tratta di una scelta. Il problema emerge quando questa ricerca supera il muro della lacrima e sfonda il portone della stucchevolezza. A quel punto ciò che poteva apparire toccante diventa fastidioso e tornare indietro è sempre più difficile. L’esasperazione non sempre è reversibile.


Ad un contesto carico e poco fluido, data la rivedibile sceneggiatura, si aggiunge una durata spropositata che appesantisce ulteriormente la pellicola. Gli atti vengono diluiti in un arco temporale ampio e poco funzionale alla trasmissione delle emozioni più basiche. Arrivare in fondo senza staccare gli occhi dallo schermo è impresa impossibile. In alcuni frangenti anche i chicchi di mais non scoppiati in fondo al secchiello sembreranno più accattivanti.
Il problema della gestione dei tempi si lega direttamente ad un montaggio non all’altezza, che fallisce nel creare una continuità tra i vari momenti di vita di coppia che vengono mostrati. E quando un montaggio imperfetto incontra dei dialoghi poco ispirati si finisce spesso col domandarsi cosa stia realmente succedendo, perché i personaggi si comportino in un certo modo, come sono finito in questa sala dopo appena un trailer?



Altra cosa - adesso trattata in maniera un po’ così, blanda: come valuto i film.
Dopo anni di film divorati ed autorevole esperienza millantata, mi sto avvicinando sempre più ad un approccio che cerca di prendere il meglio da ogni pellicola. Anche quando questo meglio punta sempre a nascondersi sotto quintali di inutilità.
E questo A star is born un meglio ce l’ha eccome:le interpretazioni dei protagonisti sono molto valide, la regia riesce a portarci davvero sul palco, riesce a trasmettere il brivido dello spettacolo e le difficoltà di Jackson Maine, e poi ci sono le canzoni. O meglio, i momenti musicali, quelli sì toccanti e profondi. Lady Gaga e Bradley Cooper interagisco in perfetta armonia per intercettare le emozioni che il resto della pellicola parlata non riesce neanche a sfiorare.


A star is born, capolavoro moderno annunciato, purtroppo fallisce nel suo non essere affatto un capolavoro, ma semplicemente un film discreto falcidiato da problemi basilari. Eppure il marketing sfrenato con il quale il film è saltato agli onori della cronaca saprà ricompensare la prima fatica di Bradley Cooper con qualche nomination ai premi più famosi, e magari anche qualche statuetta. Dopotutto chi non ama Bradley Cooper, chi non si scioglie di fronte alla potenza vocale di una Lady Gaga versione brutto anatroccolo. Qualcuno sarà in grado di sorvolare sul cinema claudicante di quest’opera per prenderne solo il marketing. È la legge del mercato. È il 2018.

lunedì 15 ottobre 2018

IDLES – RESISTERE NEL/AL 2018

Partiamo da una premessa: parlare di politica – o anche “solo” di attualità – con la musica è complicato.



Prendiamo gli anni ‘70 e ‘80, gli anni in cui si può individuare forse l’epoca d’oro del cantautorato italiano  politicamente impegnato. Guccini, De Andrè, per citare banalmente i più celebri. Ora, nel 2018 ciò che rimane nel pubblico – oltre alla memoria – di quelle canzoni è ben poco. Più che altro una tendenza latente, da parte della generazione dei nostri genitori – ho 23 anni – a considerare buona la musica che porta con sé un significato in qualche modo “alto” in contrapposizione alla musica “leggera”. Al punto che a volte in alcuni si nota quasi un certo imbarazzo nell’ascoltare quelle che in altri momenti avrebbero definito canzonette, e un ingarbugliarsi in improbabili ragionamenti per mostrarne il senso profondo, come a volersi giustificare. Insomma, c’è una certa tendenza nostrana a valutare la musica basandosi sull’”impegno”.
D’altra parte però quando *inserire nome di una band o un artista* prende posizione su una vicenda durante un suo concerto o in altra occasione si trova accerchiato dall’orda virtuale degli italianissimi fatevigliaffarivostri-sti capitanati dal guru Rita Pavone.
  


(Nota di mezzo: mentre scrivo penso che ci sarebbero una miriade di diramazioni che questo discorso potrebbe intraprendere, tutte interessanti. Il punk italiano, l’hip hop italiano, Salmo, Iosonouncane; ma anche l’ingenuità da parte di alcuni, un certo anti-intellettualismo da parte di altri, la sovra-interpretazione di alcune opere e altre parole con prefissi interessanti. Ma di tutto questo non parlerò oggi.)

La verità è che il nodo gordiano dell’impegno politico nella musica non è mai stato sciolto. Il risultato di questo groviglio di contraddizioni sono canzoni rivolte a nessuno, che mettono d’accordo tutti e musicalmente oscene. Tipo Non mi avete fatto niente, ecco. Ve la ricordate, ve? Ma non si può dare troppa colpa ai due ragazzetti perché ripeto, mettere la politica in musica è complicato.
I più cinici direbbero che il motivo per cui da noi è complicato è che siamo la terra del “chi si fa i cazzi suoi campa cent’anni” e che moriremo tutti democristiani. E probabilmente avrebbero ragione.
Questo da noi. E altrove?


A settembre è uscito il secondo album degli IDLES, Joy as an Act of Resistance. Più spigoloso, più sfaccettato, più aggressivo perfino, del suo predecessore Brutalism – uscito appena un anno fa – è balzato dritto tra gli album recenti più interessanti. “Idle” significa “insofferente”, “accidioso”, ma la band di Joe Talbot fa tutto meno che stare con le mani in mano: nel disco si toccano freneticamente i temi più vari, dalla mascolinità all’omofobia passando per la brexit e l’immigrazione. Niente che non sia già stato sviscerato da altre band, vero, ma c’è qualcosa di più.
Due cose in particolare portano Joy as an Act of Resistance ad un livello più alto rispetto al resto della musica di questo 2018: la prima è l’accordo tra le parti. Tutto l’album è un manifesto, un invito alla coesione –

He's made of bones, he's made of blood
He's made of flesh, he's made of love
He's made of you, he's made of me
Unity!

– e allo scontro –

I'll sing at fascists 'til my head comes off
I am Dennis Skinner's molotov;

quando il testo è più criptico e sembra nasconderlo la musica lo rende palese, che sia nel ritornello di Danny Nedelko o nel crescendo finale di Colossus. Una compattezza stilistica e di significato totale, che in pochi album si ritrova. La seconda cosa è il prendere posizione. Né coesione totale, né scontro totale: gli IDLES tracciano una linea. Che è qualcosa di impopolare a dire il vero, ai tempi dei presunti superamenti vari di destra e sinistra e dei “Non sono d’accordo con quello che dici, ma darei la vita perché tu lo possa dire”.
In definitiva Joy as an Act of Resistance è squisitamente – in tutti i sensi – punk. È il punk che rispolvera gli stivali e si aggiusta le spille. È il punk che cessa di essere stereotipo, che acquista la dignità che hanno le cose quando rappresentano, quindi uniscono. È il punk che può urlare, sputare idee nude e pulsanti come un bambino appena uscito dall’utero. 
La musica degli IDLES al contempo domanda e risponde alla necessita di fare politica e lo fa ripartendo dalla base, data per scontata fino a ieri.

E questo è altrove. Da noi?

mercoledì 10 ottobre 2018

ROMOLO + GIULY = IL POTERE DELLE IDEE

Romolo + Giuly - la guerra mondiale italiana è la serie rivelazione di questo inizio autunno. Fin dal primo trailer la serie targata Fox e Wildside mi aveva incuriosito per una certa cripticità: a metà tra la critica di costume e una parodia molto pop, molto nostrana. E le premesse sono state rispettate in pieno, nel bene e nel male.


Romolo + Giuly è in grado di abbracciare diverse forme di comicità - dalla più bassa alla satira, passando per la nuova comicità del web - e di fonderle in un contesto tutto italiano. Si va dal recupero di personaggi storici della cultura pop, come Mastrota o Umberto Smaila, fino al boss camorrista interpretato da Fortunato Cerlino che ironizza sul personaggio da lui stesso impersonato in Gomorra - la serie rifacendosi alla celebre parodia dei The Jackal. Si toccano anche vette notevoli di nonsnese; per fare un esempio: Mastrota sta tramando contro la centralità di Roma nella società italiana e invita Don Alfonso a recarsi a Milano per organizzare un colpo di stato. Il boss mafioso lo raggiunge durante le riprese di una televendita di materassi e si scopre che il luogo in cui si riunisce la setta segreta di Mastrota si trova sotto gli studi di registrazione e vi si può accedere solo sollevando un materasso e scendendo la scalinata nascosta sotto di esso.

Don Alfonso

Romolo + Giuly è sì una storia d’amore, come suggerisce il titolo citazionistico, e una metafora satirica dell’attuale eterno scontro tra nord e sud, ma è anche e soprattutto un grande contenitore per le idee comiche più disparate che gli autori hanno saputo trovare. Sono le idee comiche la vera fonte di sostentamento della serie, il motivo che spinge lo spettatore ad attendere con trepidazione l’episodio successivo. In questo calderone multiforme, insieme a citazioni più o meno velate e una grande attenzione ai dettagli, è presente anche una dose massiccia di comicità gretta, spesso tendente al trash gratuito, soprattutto quando si tratta dello scontro tra Roma nord e Roma sud. Se state quindi cercando qualcosa di raffinato e intellettualmente elevato, potreste avere da ridire su Romolo + Giuly; se invece siete aperti a confrontarvi anche con una forma di comicità che potrebbe non appartenervi, ma siete incuriositi dalle idee che stanno dietro una serie così istrionica, allora Romolo + Giuly potrebbe essere manna dal cielo per voi.


Dal punto di vita satirico invece la serie, dopo un pilota velatamente impegnato e alcuni richiami in corso d’opera, arriva solo nel finale ad affrontare la questione meridionale, l’avanzata dei partiti populisti e la contraddizione di fondo che spinge gli italiani a nascondersi dietro un dito per non affrontare le falle di un sistema notoriamente bacato. Anche in questo frangente Romolo + Giuly coglie nel segno e tocca una critica sociale simile, seppur inferiore a quella proposta dall’intramontabile Boris.


Non stiamo certo parlando di un capolavoro: l’alternanza tra diversi registri comici e la futilità di alcuni momenti tendono troppo spesso a creare alti e bassi evidenti all’interno della stessa puntata. Ma con il giusto atteggiamento è possibile “setacciare” dalla serie alcuni momenti nuovi, freschi ed estremamente ilari per la televisione italiana. Non posso spoilerarvi nulla, né della trama né delle singole gag, altrimenti rischierei di rovinarvi il piacere della scoperta dell’idea, che a tratti supera anche la vis comica del momento preso singolarmente. Posso solo dirvi che nella tana della setta di Mastrota è lo stesso Mastrota col suo pollicione instagrammabile a segnare le ore. L’idea più ricercata si trova anche nei dettagli nascosti.


La chiusa aperta dà l’appuntamento alla seconda stagione, che, per superare alcuni inciampi della prima, dovrà certamente alzare la posta e realizzare premesse e promesse, magari distanziandosi maggiormente da una comicità più televisiva, più anni 2000 per lanciarsi verso un compendio generale della risata.

martedì 9 ottobre 2018

VENOM È UN DISASTRO?



E potremmo anche chiuderla qui.
Sipario e col simbionte simpatico ci rivediamo alla flop 10 2018 di Natale.
Ma visto che ci siamo spendiamo qualche parola in più su un film nato male, morto peggio. Tutti hanno già detto tanto sul Venom di casa Sony. Ricapitolando:

- è un film vecchio di almeno 15 anni
- sarebbe stato un film brutto anche 15 anni fa
- comparto tecnico a tratti audace, a tratti imbarazzante
- Tom Hardy fuori ruolo
- Tom Hardy doppiato (male - molto male) dal Joker di Leadger. UOT?
- sceneggiatura infantile da film su Italia 1 la domenica pomeriggio, che le cose succedono a caso proprio
- sviluppo dei personaggi inesistente
- ehi, ma Venom è il buono?
- ah, ma era una commedia. E ditelo prima, no?



Ora, una cosa che nessuno ha detto finora. E a me piace dire le cose che gli altri blogger-vlogger-youtuber non hanno ancora detto. Anche se si tratta di fregnacce.

La fenomenologia del supereroe. Parliamone.

*Eh lo so. Abbiamo parlato tutto veloceefrenetico finora, ma ora ci sta lo spiegone. E vi dovete sorbire lo spiegone, non c’è niente da fare*

Il supereroe, l’oltreuomo rappresenta la possibilità di un individuo di andare al di là delle proprie possibilità mantenendo un filo diretto con la sua controparte “normale”. In particolare nei film di origini - è fondamentale per il supereroe protagonista provare a superarsi in tutina aderentissima per poi tornare su se stesso e migliorarsi, o quantomeno modificare la situazione di partenza.
Ora, Venom - dall’alto della sua vetusta classicità - non fa eccezione e la prima parte del film è incentrata proprio sulla situazione amorosa, personale e professionale di Eddie Brock. Eddie Brock; Venum arriva dopo: hanno proprio impiegato tempo ed energie a definire una situazione per poi riproporla praticamente identica. Poteva essere quindi potenzialmente interessante seguire lo sviluppo della vita privata del protagonista in seguito all’incontro del simbionte, ma così non è stato.
Il film è monco di troppi elementi perché venga restituito un quadro complessivo e il finale non rappresenta alcun punto di svolta per un protagonista piatto e insulso. Nessuno sviluppo, nessuna crescita, nessun confronto, eccezion fatta per una mezza estorsione sventata ai danni di una commerciante. Hanno cercato di creare un film di taglio supereroistico senza la fenomenologia del supereroe. E non ne è uscito niente di buono.

*Fine dello spiegone. E lo vedete che non era poi così difficile*

Per il resto risatine in sala, cose buttate sullo schermo, due simbionti identici. Venom è solamente brutture gratuite e cadute di stile. E la flop 10 piano piano inizia a prendere forma. Bene così.

martedì 2 ottobre 2018

BOJACK HORSEMAN 5 - BARBITURICI E MOLESTIE


La differenza tra Bojack e le altre serie tv animate che hanno ottenuto un discreto successo negli ultimi anni è che la creatura ammiraglia di Netflix non si lascia condizionare dalla sua natura animata, non degenera, non ne subisce i canoni, ma sfrutta appieno le potenzialità del mezzo espressivo di cui dispone per arrivare con la creatività dove altre serie dramedy adulte non possono neanche osare. Detto ciò, il piacere della visione, la meraviglia che ancora - dopo cinque stagioni - Bojack Horseman riesce a suscitare sta proprio nel modo in cui vengono rese le idee. La narrazione in sé non spicca per originalità, basti pensare al finale più scontato possibile che chiude la quinta fatica di Netflix, ma la messa in scena buca lo schermo e alcune trovate geniali lasciano a bocca aperta per interi episodi.


Bojack Horseman 5 prosegue una discesa ripida nell’abisso dell’animo umano, senza però trascurare un’attualità cinematografica e non che ha coinvolto - se non travolto - il mondo di Hollywood. Il personaggio di Henry Fondle, tra le righe dei simpatici siparietti che tende a creare suo malgrado, ha proprio la funzione di trovare un punto di contatto tra la serie e lo scandalo molestie scoppiato attorno alla figura di Harvey Weinstein e non solo. Lo stesso vale per Vance Waggoner, che spinge addirittura Bojack tra le braccia del movimento #metoo. In entrambi i casi la serie ironizza sapientemente sulla reazione di un’opinione pubblica schizofrenica piuttosto che sui fatti reali che stanno dietro fenomeni di questo tipo. L’immagine che ne risulta è sbilanciata e tristemente realistica, quasi che gli eventi rappresentino una parte trascurabile della faccenda.


Le trame che coinvolgono i personaggi principali vengono portate avanti allargando lo spettro narrativo e arrivando quasi ad escludere il protagonista dalla scena per interi episodi, per favorire la focalizzazione su una particolare storia. Episodi come il secondo, che vede Diane fuggire dalla sofferenza del divorzio, prende Bojack e ne fa strumento, mezzo di una riflessione adulta e stilisticamente perfetta. Lo stesso si può dire per l’episodio otto, dedicato alle ragazze di Mr. Peanutbutter. Lo sviluppo della serie verso una narrazione policentrica rappresenta un salto di qualità notevole che allunga di molto la longevità del prodotto e tende a riprodurre una costruzione più realistica della vita e delle situazioni umane.


La quinta mantiene in parte anche i difetti delle precedenti stagioni, a partire da una distribuzione altalenante degli eventi topici che rende irrimediabilmente alcuni episodi troppo vuoti per essere considerati insieme ad altri carichi di riflessioni, pathos e momenti memorabili. Alcuni personaggi inoltre non riescono a sostenere il peso della grandezza della serie e, se alcuni dei protagonisti - come Diane o Mr. Peanutbutter - si sono costruiti nel tempo una profondità all’inizio inimmaginabile, altri come Todd sono finiti per diventare semplici macchiette comiche, lontani dalla realtà di Hollywood e troppo schiavi della comicità di Hollywoo.


Una menzione particolare va fatta per l’episodio sei -Free Churro - che spacca a metà la stagione e in parte anche la storia della serialità animata. È il corrispettivo per l’animazione di ciò che ha rappresentato l’ottava parte del ritorno di Twin Peaks: un tentativo audace di andare al di là del mezzo. Lynch ha cambiato ancora una volta la storia del piccolo schermo. Bojack Horseman promette di fare lo stesso con un monologo amaro e disulluso, reale, di venticinque minuti in cui il protagonista fa i conti con se stesso e con il complesso rapporto con la madre, sullo sfondo di una riflessione più ampia sul gioco dell’apparire. Quando il tono da stand-up incontra una soggettività fin troppo umana perché possiamo ancora credere si tratti di una serie animata con gatti, cani e cavalli antropomorfi.


La quinta stagione di Bojack Horseman non è ancora il capolavoro definitivo ma si avvicina sempre più ad esserlo. Appare lampante come si tratti di una serie che non arriverà a trascinarsi troppo presto per la varietà e la genialità delle idee che ancora ne reggono la struttura. È un piacere per la mente confrontarsi con queste forme creative, un piacere doloroso per il cuore.