venerdì 28 ottobre 2016

DIGIMON ADVENTURE TRI - DETERMINAZIONE

Se Dragon Ball Super la stanno guardando in pochi, il ritorno dei primi digiprescelti è cosa da eletti visionari. Riprendiamo un attimo il filo del discorso per chi non avesse la più pallida idea di cosa sia Digimon Adventure Tri: dopo quindici anni dalla prima messa in onda della serie d’esordio incentrata sui mostri digitali, la Toei ha deciso di realizzare un seguito diretto delle avventure di Tai e compagni. Il problema fondamentale è però il formato di questa operazione un po’ commerciale, cioè la fruizione cinematografica. Quella che infatti si presenta come una comune serie ad episodi sui peggiori siti di pirataggio streaming, è in verità la riproposizione di quattro lungometraggi animati andati in scena nella sale nipponiche. O per meglio dire, che sono andati e andranno in scena nelle sale del sol levante, visto che l’ultimo capitolo - in italiano “Perdita” - è atteso per febbraio del nuovo anno. questa scelta alquanto infelice ha portato ad una dilatazione dei tempi deleteria per il ritmo di una serie animata che vive di scontri e trame lineari. Dopo aver visto il primo film, quindi i primi quattro episodi, quasi in contemporanea con il mondo, ho recuperato il secondo film solamente pochi giorni fa, sentendo inevitabilmente lo stacco temporale tra le due visioni. Le serie si dicono tali perché il collegamento tra le varie parti di cui sono composte richiama ad una visione unica e regalora, in modo da tenere a mente una continuità di spazio, tempo e azione. Davvero non riesco a spiegarmi il senso di una proposta del genere, che certamente da più tempo agli sviluppatori e agli animatori di lavorare con la giusta calma, ma, almeno nel civilizzato Occidente, questo format ha allontanato anche i fan di vecchia data dal glorioso ritorno dei nostri amati digimon.


Ma parliamo del secondo film, “Determinazione”. Dopo la riunione del primo capitolo, ci si sarebbe potuti aspettare più movimento da parte dei protagonisti e delle loro controparti digitali, ma così non è stato e i quattro episodi si sono succeduti nell’inutilità generale. Quando si prospettava un ritorno a Digiworld e un rinato conflitto tra digiprescelti e forze del male, gli sceneggiatori della Toei hanno pensato bene di sfruttare tre, e dico TRE, episodi dei quattro a disposizione per raccontare l’organizzazione di una festa scolastica. Hai centinaia di mostri con facoltà di digievolversi facendo emozionare grandi e piccini, hai un mondo parallelo al nostro ancora sconosciuto nelle sue dinamiche più profonde, hai le basi di una trama interessante con vecchie glorie e nuovi personaggi e scegli di focalizzarti sulla festa scolastica. Vediamo quindi Mimi e Meiko spendersi anima e corpo per trovare il vestito adatto, le stesse ragazze gestire un bar per la festa scolastica e - udite udite - i digimon protagonisti vincere un concorso per il miglior costume venendo scambiati per bambini travestiti. Tutto questo poco in appena settanta minuti. Un uso oculato del tempo. Soltanto del finale dell’ultimo episodio la situazione sembra finalmente incendiarsi con l’arrivo nostalgico del vecchio Ken e lo scontro nella distorsione digitale.
Facciamo però un passo indietro, perché qualcosa di salvabile nei primi tre episodi c’è. Si tratta della condizione di Joe, che prosegue e viene approfondita continuando quanto di buono fatto nel primo lungometraggio. Joe è l’unico del gruppo a dissociarsi dalla riunione per perseguire i suoi obiettivi professionali. Con un solo forte gesto, i creatori sono riusciti a mettere in dubbio l’immediatezza e la spontaneità dl rapporto tra creature e digiprescelti e a muovere una pesante critica al sistema nipponico, il quale porta all’estremo una meritocrazia lavorativa schiacciante che annulla il resto dell’individuo. Anche il rapporto tra Taichi e Yamato (che io continuerò a chiamare Tai e Matt), dopo lo scontro ideologico della fine del primo capitolo, è riuscito a svilupparsi in maniera intelligente, anche se la fine delle ostilità, segnata da un solo cenno col viso, mi è sembrata un ritorno all’età preadolescente della prima serie.

Rosemon, che non ci crede nessuno che questo è un "mostro digitale". Dai. Nessuno.

Vikemon


Tornando quindi allo scontro finale, devo dire che esso è riuscito a coinvolgermi come facevano le emozionanti battaglie tra i primi cari amici digitali. Le digievoluzioni di Zudomon e Lillimon in Vikemon e Rosemon mi sono sembrate un po’ forzate, anche se effettivamente anche i digiprescelti secondari richiedevano a gran voce un’ulteriore forma evolutiva. Se riuscissero a spiegare in maniera credibile il fatto che queste nuove evoluzioni siano state rese possibili dalla frattura digitale tutto assumerebbe un senso. Nel design ho preferito decisamente Vikemon a Rosemon, ormai destinata ad avvicinarsi ad una prosperosa ragazza umana piuttosto che al cactus antropomorfo che era Togemon. Il colpo di scena finale finalmente, dopo otto episodi, ricollega le trame presenti e spalanca le porte all’azione pura e agli scontri epici a colpi di bolle d’aria. Finalmente la storia si infittisce e la serie è chiamata a rivelarsi per le sue reali possibilità. Che sia un grande ritorno. Patamon in the way.

giovedì 27 ottobre 2016

FIVE BY FIVE #17

Cosa abbiamo scoperto in queste tre settimane:

Che Bob Dylan ha vinto il Nobel per la letteratura;
Che Baricco non sa scrivere;
Che a quanto pare un sacco di gente che ha vinto il Nobel non se lo meritava;
Che ad un sacco di gente interessano il Nobel e Bob Dylan;
Che a Bob Dylan non interessa molto del Nobel e forse nemmeno di Bob Dylan.

E già, è passato solo un mese. Ma il tempo e le notizie in quest’era di social senza olio di palma si inseguono e si susseguono senza permetterci di metterle veramente a fuoco. Succede anche per quanto riguarda la musica purtroppo (o per fortuna, alcune cose è meglio dimenticarle subito in effetti). Per evitare di perderci, facciamo un poco di ordine:



L’hip-hop negli ultimi tempi sta regalando un ventaglio più che mai variopinto di stili e generi diversi, spesso ad un ottimo livello. Che si peschi sulla West Coast, sulla East Coast, o tra le due, si trova sempre qualcosa che vale la pena ascoltare. È da poco uscito il nuovo album di Danny Brown e contiene un bel po’ di gran bei pezzi; uno in particolare catalizza subito l’attenzione già prima dell’ascolto, quando si scorrono le tracce per leggere i titoli. La traccia in questione è un triplo featuring – tecnicamente si chiama posse cut – con Kendrick Lamar, Ab-Soul ed Earl Sweatshirt. Da un quartetto del genere, che Danny Brown ha descritto con la sobrietà tpica dell’hip-hop “i quattro cavalieri dell’apocalisse”, ti aspetteresti o un brano pazzesco o una cafonata assurda. O fore entrambe.



Non sai mai che cosa giri nella testa dei Flaming Lips. Nel corso della loro trentennale carriera hanno sempre stupito i fan, rischiando ogni volta di allontanarli ma senza mai riuscirci davvero. Perché una volta che ti sei fatto trascinare nella loro geniale follia psichedelica è difficile distaccarsene. Perfino quando suonano una cover dei Pink Floyd in apertura di un live dei Jesus And Mary Chain, quando pubblicano un album spezzettato su cinque dischi e ti servono quindi cinque stereo per ascoltarlo, quando rifanno The Dark Side of The Moon (e daje co sti Pink Floyd) o quando decidono di pubblicare un album con Miley Cyrus. A gennaio 2017 arriva l’ennesimo capitolo di questa folle storia, si chiama Oczy Mlody e nonostante l’esauriente (?) spiegazione data in questo video non ho la pur minima idea di cosa aspettarmi. 



Nel gennaio scorso i Vampire Weekend sono tornati in studio per cominciare le registrazioni del nuovo album. Già di per sé questa è una bella notizia, perché i VW non solo non hanno mai fatto un flop fino ad ora, ma più invecchiano (musicalmente parlando. Si sa che, come d’altronde suggerisce il loro nome, rimarranno sempre fanciulli nell’aspetto) dicevo, più invecchiano, più la qualità della loro musica aumenta. In realtà con la canzone che vi propongo i VW non hanno a che fare, infatti Rostam Batmanglij ha lasciato la band prima dell’inizio delle registrazioni. Non è rimasto con le mani in mano e si è unito ad un altro “ex”: Hamilton Leithauser dei Walkmen. Questo tipo di collaborazioni non sempre funzionano, tantissimi cosiddetti supergruppi fanno musica decisamente poco super. Leithauser e Rostam sono una mezza eccezione: non si può dire che abbiano composto capolavori, ma delle belle canzoni sì. In A Black Out ne è l’esempio.
P.S. Al 99% la avete già sentita. Vediamo se vi ricordate dove.



Avete presente i Liquido? Quel gruppo tedesco di fine anni 90, rilasciò un singolo che ebbe un successo pazzesco e poi “puff”. Scomparsi. Una cosa simile successe ai Drive Shaft, ma quella volta c’era di mezzo un aereo e una certa isola. Esclusi però esempi – numerosi – come questi, spesso il fenomeno dei one-hit-wonder è più di natura economica che musicale. Vi ricordate Carly Rae Jepsen? Be’ ha smesso di aspettare che qualcuno la chiamasse e l’anno scorso ha publlicato un album inaspettatamente interessante, pur rimanendo nell’ambito del pop. In Italia ha avuto un riscontro pressoché nullo, semplicemente perché non siamo stati bombardati di videoclip su MTV Music (che manco esiste più). Che qui da noi vogliamo sempre essere un po’ imboccati, per quanto riguarda la musica nuova, diciamolo. Gli inglesi Glass Animal hanno avuto un destino simile: un primo album, ZABA, pubblicato nel 2014 che ebbe un grande successo in patria (la loro) nonostante fosse piuttosto modesto come lavoro. Quest’anno sono tornati con un nuovo album, How to Be A Human Being, di gran lunga migliore del predecessore, non raggiungendone però le vette di consenso. Peccato, perché è un disco pieno di buona musica e belle storie a tratti toccanti, come quella narrata nel singolo Youth.



Qui c’è poco da dire: dopo gli acclamatissimi primi due capitoli della saga l’arrivo di Run The Jewels 3 era nell’aria da un po’. E finalmente El-P e Killer Mike sono tornati, come sempre molto arrabbiati, con testi molto politici, sempre pieni di riferimenti – per noi dall’altra parte dell’Atlantico spesso oscuri – alla cultura pop degli States. Talk to Me è il primissimo singolo di questo tanto atteso terzo lavoro, quarto se consideriamo l’ardito esperimento Meow The Jewels, che promette di aggiungere un’altra perla hip-hop alla già ricca collana di questo 2016.


 Marsha Bronson

martedì 25 ottobre 2016

WAYWARD PINES 2 - COMMENTO FINALE

“È decisamente emblematico come l’episodio peggiore dell’intera serie coincida esattamente con l’epilogo.”
E ci risiamo. Passano gli anni ma non passa la speranza di vivere qualcosa di indimenticabile, un’esperienza come Lost. Ma poi bisogna fare i conti con la realtà, con i problemi di una serie mediocre e l’effettiva povertà di questa seconda stagione. Nonostante alcuni episodi ben riusciti, soprattutto nel momento in cui è stato introdotto il personaggio di Margareth, il finale di questa seconda stagione è il modo peggiore con cui poteva chiudersi l’intero spettacolino imbarazzante. Attendevamo da settimane uno scontro aperto tra le varie fazioni, aspettavamo con ansia che si svelassero i misteri più segreti delle aberrazioni e della loro organizzazione sottotraccia, invece tutto ciò che abbiamo ottenuto è una serie di consultazioni pedanti e inconcludenti che simulano l’attesa di qualcosa di ingestibile, ma che culminano in poche scene antiadrenaliniche e molte, troppe scelte sbagliate.


Jason era sembrato spacciato già dalla fine del nono episodio, ma gli sceneggiatori hanno deciso di trascinarlo in fin di vita per altri dieci minuti di spettacolo, giusto per allungare il brodo e mostrare Theo Yedlin infrangere il giuramento di Ippocrate. Come volevasi dimostrare, Jason muore in sala operatoria e la serie perde malamente un altro dei suoi protagonisti. A questo punto, senza che io riuscissi bene a comprenderne il motivo, Theo diventa padrone indiscusso della scena e comincia a decidere per il futuro di coloro che dovranno essere incapsulati. Ad un certo punto siede anche al tavolo delle trattative con CJ, il quale, senza fare una piega, gli riconosce la responsabilità e il potere di decidere per la razza umana. Dov’è la gerarchia nazista che vigeva alle spalle di Jason? Dov’è l’armata militare? Dov’è la prima generazione che, nel finale della prima stagione, aveva completamente capovolto gli esiti della rivolta di Matt Dillon? Perché CJ, l’uomo del tempo, colui che ha sempre agito all’ombra del potere portando avanti le proprie battaglie, cede così alle decisioni del medico appena scongelato? In questo modo crolla tutta la credibilità di una struttura militare e paramilitare che aveva tenuto soggiogata la popolazione per l’intera durata della serie. Non ricordavo buchi di trama così enormi da Flash Forward.


Intanto Margareth, che era morta nel precedente episodio, ma non era morta nel precedente episodio, raduna un’orda di aberrazioni pronte ad assalire la ridente cittadina di Wayward Pines per vendicare l’invasione del territorio e gli ultimi compagni uccisi da Jason. Tenete bene a mente che questo esercito è già ben attrezzato all’inizio dell’episodio. Nel mentre, in città si diffonde la notizia che le capsule non basteranno per tutti e gli esclusi cominciano a fomentare la rivolta. A questo punto le mie aspettative, fino a quel momento davvero rasenti allo zero, hanno cominciato a subire un lieve rialzamento: si prospettava l’atteso scontro tra le varie fazioni che avevo ipotizzato tempo fa. Poi Theo dà ascolto alle parole dell’ex moglie Rebecca, torna in città a prendere Xavier e il ragazzino gay (di cui effettivamente avevamo perso le tracce), viene attaccato da un paio di rivoltosi e Xavier colpisce con un proiettile una molotov che uno dei due era in procinto di lanciare, la molotov scoppia e i due assalitori rimangono uccisi. FINE DELLA RIVOLTA. Finisce così. Basta.
Intanto Margareth incita l’orda di aberrazioni che risponde con grida animalesche e Theo decide di sacrificarsi per il bene dell’umanità, ma viene sostituito da Kerry, che deve espiare la colpa di aver cercato di procreare un figlio col figlio. I nostri eroi scelgono di alsciare a CJ la scelta della destinazione temporale e si congelano.

Qualcuno ha detto terza stagione?

Intanto Margareth continua a gridare contro il suo esercito per spronarlo a combattere strenuamente contro il nemico invasore. Così vediamo Kerry attraversare il cancello degli inferi, Xavier e Rebecca darsi un appuntamento a lungo termine e CJ titubare un po’ sul da farsi, tra mogli fantasma e orizzonti di gloria. E la serie si conclude così. Senza lampi, senza azione, senza colpi di scena finali. Non ci sono stati i ritorni che attendevamo, non ci sono stati colpi di scena degni di nota che non fossero strascichi dell’episodio precedente. Non c’è stato lo scontro tra la popolazione di WP e gli Abby, che sono rimasti per l’intera puntata in attesa di un segnale da parte di Margareth, il che potrebbe assomigliare ad una serie incentrate sulla preparazione per un’importantissima partita di calcio senza che questa abbia mai luogo, per dirla alla Karim. E cosa resta degli abitanti rimasti fuori dal programma di congelamento della razza umana? Non ci è dato saperlo. l’unico elemento che avrebbe potuto creare una sorta di interesse nello spettatore viene bellamente omesso.

Toby Jones che "Chissà come ci sono finito in questo obbrobrio"

C’è poco altro di cui parlare perché poco altro ha rappresentato questa seconda stagione, che non è riuscita in nessun modo a ricalcare le orme dell’accettabile ma controversa prima. Le avventure di Theo, Rebecca e Jason sono state inconcludenti, noiose, prive di mistero e soprattutto inutili. Tutto ciò che è successo nell’ultimo episodio poteva tranquillamente essere messo in atto solo un paio di puntate e ci saremmo risparmiati un’agonia terribile. Il modo in cui sono stati trattati poi i personaggi che avevano retto la prima stagione è aberrante, morti uno dopo l’altro per questione probabilmente esterne alla produzione della serie, immagino avessero altri impegni improrogabili, anche se, rispetto a WP 2 anche la capatina mattutina al bagno può essere considerata un impegno improrogabile. Tutto ciò che non volevamo fosse è stato, e mi dispiace per coloro che ci hanno creduto e per coloro che hanno prestato il loro volto affinché questo abominio avesse una parvenza di credibilità, uno su tutti Toby Jones. Una serie da buttare in toto, senza elementi positivi che mitighino la tristezza di aver perso e tempo e speranze.

Il logo. L'unica cosa salvabile in questo scempio

Ma prima dei titoli di coda viene mostrato un neonato umano mentre piange in braccio ad un Abby. Questo potrebbe voler dire l’intenzione di produrre una terza stagione, ma l’errore l’ho già commesso una volta, dando fiducia alla seconda stagione. Non accadrà di nuovo.

COMMENTI WAYWARD PINES. FINE. PUNTO.

sabato 22 ottobre 2016

IO VADO, TU SEGUIMI

Poggiò i libri sgualciti sul tavolo e si sedette cercando l’invisibilità. Come ogni tardo pomeriggio, si ritrovava a studiare nell’affollata biblioteca, aspettando la sera e la laurea. Placando la fame con gli avanzi della dispensa. Aprì il libro, cercò la pagina giusta e cominciò a leggere distrattamente di ciò che non gli interessava e non l’avrebbe interessato. La giornata stava volgendo alla solita occlusiva conclusione, quando alzò distrattamente lo sguardo tra un nome altisonante e una definizione presuntuosa e li vide. Vide i suoi occhi splendenti tra gli occhi degli altri che non splendevano mai come i suoi. Vide i suoi capelli accesi, rossi e distinti, divisi da una dea e ramati uno ad uno con grazia. Vide le sue guance, arrossate dal calore dell’aula, riempite da una costellazione di lentiggini che la coloravano in modo singolare, unico. Vide la sua espressione corrucciata, intenta com’era a comprendere chissà quale pensiero proibitivo, avvolta com’era nel suo studio, nei suoi pensieri, nella chioma che le incoronava dolcemente l’anima docile. La vide e un’espressione si fermò sulle labbra e sugli occhi del ragazzo, a metà tra lo stupore e la magia del tempo che scorre al contrario.
La ragazza distolse lo sguardo dagli studi e i due si incrociarono per qualche attimo, uno scambio impercettibile. Le guance di lei si colorarono di un rosso più accesso, l’espressione di lui sfociò definitivamente in un sorriso, e il tempo si fermò.


Si sarebbero incontrati, conosciuti e amati. Avrebbero trovato nell’altra persona ciò che da sempre avevano atteso invano. Si sarebbero rivisti qualche sera dopo al cinema, a vedere quel film complesso; ma del film non sarebbe interessato a nessuno. Si sarebbero baciati una notte, sotto le stelle e il freddo mite di autunno leggero. Sarebbero andati a mangiare fuori, in un locale modesto ma caldo, e lui l’avrebbe fatta accomodare, e lei sarebbe arrossita, imbarazzata e lusingata. Avrebbero riso, pianto insieme, sofferto. Insieme. avrebbero visitato luoghi già visti con altri occhi, avrebbero visitato nuovi luoghi, con l’amore per la scoperta negli occhi e il futuro nella borsa. Avrebbero nuotato per ore, cercando di risalire il fiume e raggiungere le cascate. Avrebbero messo da parte i bui delle loro anime per risplendere insieme. sarebbero andati avanti nonostante tutto puntasse a sud, avrebbero resistito alle intemperie. Lui avrebbe regalato a lei infiniti sorrisi, lei gli avrebbe dato in cambio la gioia di vivere il mondo, che prima era stato con loro, ora era solo loro. Avrebbero piantato le radici di un albero imponente ed elegante, come un padre che accoglie a braccia aperte le difficoltà del figlio. Sarebbero rimasti insieme per sempre. O forse no.
Si sarebbero potuti incontrare, conoscere ed amare. Avrebbero potuto trovare nell’altra persona ciò che da sempre avevano atteso invano. Avrebbero potuto rinascere a vita nuova. Avrebbero potuto passare interi pomeriggi ad ammirare il matrimonio delle nuvole e il vento, le forme in movimento di una vita immobile. Avrebbero potuto condividere una parte del loro cuore per resistere alla morte. Avrebbero potuto terminare una giornata con i piedi nell’acqua salata e la testa nel loro nuovo mondo, nato per restare. Avrebbero potuto passare anniversari ad amarsi nella loro nuova casa, senza molte parole. Si sarebbero potuti aprire l’un l’altro per scoprire di essere simili nella storia di due vite dissimili. Sarebbero potuti rimanere insieme per sempre, ma così non è stato. O forse si.
Il tempo riprese a scorre quasi come prima e l’espressione di stupore fanciullesco del ragazzo si tramutò in sconforto quando vide il posto dove era seduta la ragazza vuoto. La cercò con gli occhi, non poteva essere sfuggita in un così breve lasso di tempo. La cerco tra le sagome che popolavano quella vuota biblioteca. La cercò con la speranza e la trovò, coperta da una giacca solitaria, mentre si allontanava verso l’uscita. Sul volto del ragazzo scese una goccia di sudore che pareva una lacrima, e la schiena gli si rizzò per poi incurvarsi nell’anonimato. Tornò nel nido sicuro. Nel suo guscio spesso rivide le immagini del momento dell’amore e se ne innamorò. Sul suo viso scese una lacrima, non una goccia di sudore, perché era arrivato il momento.
La sua mano timida le sfiorò la spalla proprio alle soglie dell’uscio. Fuori cominciava a scendere una foschia umida insieme alla sera buia, ma le luci si rinvigorivano nel pallore del crepuscolo della mezza stagione. I rumori si estraniarono e comparve una scintilla nello sguardo nascosto di lei, lei di spalle.

“Ciao”.

domenica 16 ottobre 2016

SERIE DI CUI NON PARLERÒ: LOVE

Netflix è sinonimo di qualità, ma qualità non è sinonimo di buona riuscita, o almeno non sempre.
Love è una serie che si muove nel quotidiano delle vite dei due protagonisti, e vorrebbe narrare in maniera realistica le dinamiche della nascita dell’amore tra due individui molto diversi tra loro. Gus è un ragazzo impacciato, perennemente fuoriposto. Non segue le mode, non frequenta i posti più quotati e vive le sue giornate nella periferia, rischiando poco, sporgendosi poco. Mickey è invece una sfacciata ragazza del ventunesimo secolo: un po’ depressa, un po’ infelice, un po’ distaccata dalle sue coetanee più in vista, un po’ frustrata dalle situazioni che le sono sfuggite di mano. Due personaggi diversi, sì, ma accomunati dalla stessa estrazione sociale, quella degli emarginati dalla comunità fondata sull’esibizione e sull’esibizionismo. Sboccerà l’amore tra i due, ma sarà qualcosa di indefinitamente spigoloso, lontano dalle correnti comuni e distante dalle concezioni moderne di relazione fissa.


Alla luce delle premesse, Love poteva essere un’altra bella sorpresa targata Netflix, ma alla fine dell’ottavo capitolo - di dieci - ho deciso che non avrei portato a termine la serie. Il problema è molto semplice: pur riuscendo a centrare il clima e il realismo, Love non ha in sé la vis comica per riuscire a intrattenere. La scelta di puntare tutto sul realismo della relazione ha portato ad un’esagerazione delle dinamiche che volevano allontanarsi dai canoni televisivi e cinematografici. In questo modo però anche i tempi comici hanno perso di valore, producendo soltanto una serie di situazioni disdicevoli, allungate e boriose, caratterizzate unicamente da dialoghi inconcludenti. Questa politica seriale è stata portata avanti in particolar modo attraverso il personaggio di Gus che, con la sua inevitabile inappropriatezza, riesca a risultare imbarazzante in ogni situazione. Ogni contesto, battuta, dialogo con un personaggio secondario è un ottimo pretesto per scatenare nello spettatore e nello stesso protagonista un senso di assoluto imbarazzo. Proviamo realmente vergogna per ciò che Gus fa e dice, vorremmo essere con lui per evitare il peggio e fermarlo prima che smarrisca la faccia, e con essa la dignità; ma ciò non è possibile e ci troviamo inevitabilmente invischiati in un processo per cui la vergogna diventa quasi la nostra. Nulla da dire sulla costruzione di questi frangenti, se non che non riescono mai a scatenare ilarità. Ci si guarda attorno in uno stato confusionale cercando di capire se siamo noi a non aver colto la battuta, se siamo noi a reagire su tempi comici sbagliati e obsoleti, o se sia la serie a mancare evidentemente in questa sua componente, che suppongo sia quantomeno fondamentale se si parla di una serie comedy.
A lungo andare queste situazione scabrose diventano fastidiose e a tratti insopportabili. Si è spinti a guardare non per le emozioni che lo spettacolo riesce a trasmettere, ma solamente per cercare di capire dove gli sceneggiatori vogliano andare a parare con una trama che mostra comunque pochi guizzi. Diventa una noiosa agonia scoprire cosa si celi nel futuro dei due innamorati emarginati.
Eppure la serie era partita con il piglio giusto, un episodio davvero ben riuscito nel quale venivano presentati i personaggi in situazioni probabilmente più caricaturali. In contesti simili, le loro qualità imbarazzati parevano meglio inserite nel tessuto complessivo e lo spettatore poteva ridere di una festa di vicinato finita male o di un triangolo incestuoso. Ma da quel momento in poi la serie ha sparato molti colpi a salve, come la questione della cena per farli conoscere e la serata magica. Elementi che in questo mood generale non hanno fatto altro che allontanare l’interesse comune.

Non tutte le serie Netflix escono col buco.

giovedì 13 ottobre 2016

WAYWARD PINES 2 - COMMENTO EPISODIO 9

Con questo nono episodio alcuni filoni narrativi cominciano a giungere ad una conclusione. Si tirano le somme sugli eventi descritti, si cercano di riallacciare i rapporti tra la prima interessante stagione, la seconda confusionaria e il passato dal quale tutto ha avuto origine. È proprio dal passato che arriva il più importante colpo di scena di questa seconda stagione, ovvero la parentela stretta, e quindi l’incesto, che si cela dietro il rapporto tra Jason e Kerry. Il twist è, come detto, d’effetto: prende, coinvolge e lascia per qualche attimo interdetti; ma allo stesso tempo dimostra ancora una volta le scarse abilità di scrittura degli sceneggiatori. Fino a quel momento infatti il punto chiave della situazione era stato il futuro imminente della popolazione di Wayward Pines, costretta al ricongelamento a causa della minaccia degli Abby. Il problema però sorgeva in merito alla mancanza di capsule sufficienti a garantire un sonno tranquillo a tutta la popolazione. La questione era stata portata avanti con un certo raziocinio, producendo uno scontro ideologico vivissimo tra l’etica del bene comune e la scelta del bene individuale. Tutto ruotava attorno alla figura di Kerry, legata sentimentalmente al despota incaricato di censire la popolazione, ma contemporaneamente inadatta a riprodursi e quindi considerata un peso morto da una società in necessaria espansione. Tutto è ruotato attorno a lei fino al successivo colpo di scena, quello della maternità, che, con le sue conseguenze, ha totalmente distrutto il dilemma etico. La creazione e la devastazione di uno spunto narrativo intelligente in così breve tempo sottolinea ancora una volta lo spreco di capacità che questa serie rappresenta.


I collegamenti col passato, stavolta gestiti in maniera accettabile, sono però passati da una forzatura nel ritmo della puntata. Se nel precedente episodio eravamo stati lasciati sul più bello, quando si prospettava uno scontro aperto tra le tre fazioni, la scelta di concentrarsi nuovamente su Pilcher attraverso l’espediente del flashback ha inevitabilmente gravato sul ritmo delle azioni dei protagonisti nel futuro. Gli Abby sono stati accantonati per lunghi tratti, la popolazione ha dimenticato inspiegabilmente di avere gli strumenti necessari a rivoltarsi contro le autorità e l’intera narrazione futura ha cominciato ad assumere una direzione lenta e prevedibile. Sembra quasi che gli eventi si siano quasi fermati per un’intera puntata, per lasciare allo spettatore la possibilità di assimilare le notizie provenienti dal passato. Un’altra serie che negli ultimi tempi ha fatto un uso discutibile dei flashback è Stranger Things, capolavoro di Netflix in salsa anni ’80. Nel caso di quest’ultima, i flashback, importanti e significativi a livello di trama per lo sviluppo presente dei personaggi, sono stati dilazionati e hanno sempre rappresentato un punto attivo della trama, un movimento ritmicamente in linea con gli eventi presenti. In Wayward Pines ciò non accade, e ogni flashback è sinonimo di momento morto, talvolta anche inutile ai fini di una conclusione delle vicende.
La morte di Jason è avvenuta in circostanze casuali e per niente credibili. Non è ben chiaro come sia possibile che una coppia arrivi allo scontro fisico pochi attimi dopo l’ammissione del loro amore. Possiamo in qualche modo giustificare una tensione di fondo per i nervi a fior di pelle causati da un lato dalla mancanza di capsule sufficienti, e dall’altro dall’avanzata degli Abby, ma ciò che accade è improbabile per dinamiche e tempistiche. Sulla scia di Game of Thrones e delle nuove serie tv che non sarebbero all’altezza senza un giusto quantitativo di defunti illustri, Wayward Pines ha cercato la strada dell’empatizzazione emotiva, fallendo miseramente per l’incapacità di gestire le morti. La morte è un momento sacro nella televisione, è il momento di massimo pathos, è il momento in cui un personaggio al quale siamo affezionati esce definitivamente di scena. In questa seconda stagione invece la morte è stata solamente utilizzata come cesura rispetto ai personaggi chiave della prima stagione e come colpo di scena. Le premesse però non hanno retto rispetto agli eventi, e Wayward Pines ha eliminato se stessa insieme ai suoi personaggi, lasciando visibile una scarna struttura di fondo che non può resistere senza il sostegno dei volti noti.


Con la morte di Jason si aprono alcune vie percorribili, non tutte battute ma molte rischiose. Da quello che ci viene mostrato non riusciamo a dire con certezza se Kerry sia rimasta ferita gravemente dallo scontro con l’amore della sua vita (in tutti i sensi). Appare intrigante la posizione di Theo e di CJ, ultimi due elementi dotati di un minimo di leadership. Se anche Kerry dovesse ristabilirsi dallo scontro, credo che la sua posizione possa combaciare con quella del dottor Yedlin, almeno rifacendoci alla fiducia con cui avvenivano i dialoghi tra i due personaggi. Restare dunque o lasciare tutto e incontrarci tra cent’anni? Cosa sarà della popolazione prima dell’arrivo dell’apocalisse?

lunedì 10 ottobre 2016

WAYWARD PINES 2 - COMMENTO EPISODIO 8

Tempo fa vidi l’intervista di Zerocalcare da Cattelan. In tale intervista scherzosa e scanzonata vi era anche una domanda relativa alle serie tv viste dal fumettista. Solo ora ricollego le parole di Zero a Wayward Pines. Egli distingue le serie in tre categorie: quelle scadenti, quelle scritte meglio ma che si lasciano guardare in sottofondo e quelle impegnative. Con questo ottavo episodio, Wayward Pines ha definitivamente deciso di associarsi alla categoria delle serie da guardare in sottofondo. È possibile fare ciò solo quando tutto ciò che avviene sullo schermo e al di là dello schermo viene spiegato da una voce narrante o dai personaggi stessi. La voce esterna, che all’inizio di ogni episodio fa un rapido recap, poteva già essere un presagio (di morte), ma è con la scena di Jason accanto al letto di morte di Megan: per rendere la serie perfettamente in linea col modello “laguardomentremangioeaggiornolahomedifacebook”, il despota mette da parte la logica comune per rivolgere un discorso banale e stereotipato alla mentore defunta e uccisa dall’Abby donna. Una tristezza inenarrabile.


E mentre il giovane leader medita vendetta contro le aberrazioni, la situazione globale si appiattisce sulle differenze di genere e sulle categorie consuete di bene e male. Le possibilità di dare vita a personaggio tridimensionali, combattuti al loro interno, ha lasciato posto alla caratterizzazione dei libri per bambini in cui i cattivi hanno su di loro tutte le colpe perché hanno peccato in origine e i buoni invece vengono assolti da tutte le loro colpe dopo la rivelazione dell’origine dei mali. Nel 2016 siamo abituati a ben altro, siamo figli di John Locke e Walter White, due meravigliosi esempi del livello di profondità che hanno raggiunto i personaggi delle serie tv al giorno d’oggi. Provare ancora a far generare ogni male dall’invasione di un territorio avvenuta decenni prima e credere di poter far derivare l’intera caratterizzazione morale dei personaggi da questo elemento di trama è ormai storia passata. Wayward Pines 2 era già superata prima di cominciare, se le premesse alla rivolta sono queste. Nel nuovo quadro generale gli Abby hanno dalla loro la ragione di aver agito per secondi e gli uomini le colpe delle generazioni precedenti, che come sempre ricadono sui posteri. Troppo facile, troppo scontato.


Rimane invece interessante la scelta di ampliare e rendere vivo il contesto distopico in cui gli scongelati si sono ritrovati. Ancora una volta, con la scusa dell’armamento della popolazione civile, abbiamo assistito a tensioni e scontri diretti tra le varie fazioni che compongono una società fallita negli intenti e nei risultati. Come dice Yedlin “Questa città non funziona!”, e non funziona proprio per la sua vicinanza ai peggiori regimi del Secolo Breve. Momenti interessanti che sono stati però diluiti troppo nel corso della seconda stagione, risultando meno trainanti di come sarebbero potuti essere.

Sostanzialmente questo terzultimo episodio potrebbe essere riassunto in una forsennata caccia alle streghe che non ha dato gli esiti sperati. Margareth ha messo in scacco decine di soldati armati ed è riuscita a raggiungere i suoi, venendo però ferita. Come sia arrivata in città rimane ancora un mistero, quello che è certo è lo scontro aperto che si prospetta all’orizzonte. Come anticipato nei precedenti capitoli, vedo tre fronti distinti, a meno che non cambino alcune dinamiche interne alla città: gli Abby, i rivoltosi e l’esercito. L’anima ribelle dei costretti alla crioconservazione non è sopita affatto e presto esploderà nuovamente, in attesa del ritorno di Ben. Il ritorno di Ben rappresenta sempre più una possibilità concreta, dopo che è stata svelata la vera natura delle aberrazioni, in realtà pacifiche e riservate, a differenza di quanto ci era stato mostrato per due generazioni. Ben potrebbe essere stato catturato e posto in una buca profonda, oppure potrebbe essere stato accolto nella comunità dei nuovi umani in ogni caso vedo difficile un totale distacco tra il finale della prima e quello della seconda stagione. Qualcosa tornerà dal passato, altrimenti sarà un flop senza precedenti.

sabato 8 ottobre 2016

WOODY ALLEN, IL PIANO JAZZ DELLA VITA E LA MORTE

Le parole per descrivere questo personaggio unico sono finite da tempo immemore. Il percorso che porta alla leggenda necessita di un tempo di assimilazione delle conflittualità per poter restituire un artista coerente; per quelli che riescono ad entrare nel modus pensandi di Woody questo processo ha già avuto inizio da tempo. Queste persone riescono a vedere nel piccolo e nevrotico Newyorkese allo stesso tempo l’uomo e il mito che un giorno sarà chiaro a tutti.


L’ultima non-fatica di Allen è Café Society, opera agrodolce che ci porta nell’America degli anni trenta, abbracciando contemporaneamente la poetica New York e la teatrale e sfarzosa Hollywood. Jesse Eisenberg è Bobby, giovane ebreo dell’Ovest in cerca di nuove possibilità nella terra del cinema, dei divi e delle feste agghindate. Kristen Steward è invece Vonnie, affascinante segretaria dello zio del protagonista. L’incontro tra i due porterà alla passione amorosa e ai progetti di vita, ma non sempre la donna giusta rimane fino alla fine della festa. Non sempre la donna giusta resta.
Con Café Society, Allen prosegue il suo mosaico di una civiltà in continuo movimento, ingabbiata dai fuochi dell’amore e della razionalità. Tutto si gioca su questi due piani tangenti e intangibili. I protagonisti dell’opera tentano di far valere le loro speranze e aspirazioni al di sopra dello scorrimento del fiume della vita, ma restare asciutti risulta impossibile, e allora ci si veste di ciò che si trova sulla riva. Si rubano le movenze di chi galleggia e si resiste. Si vince, talvolta per fortuna, talvolta per caso, ma cosa resta del sogno che ci aveva mossi all’azione? Allen indaga questo complesso rapporto tra realtà differenti che finiscono sempre per trasportare gli individui al di là dei loro lidi, portandosi via anche i valori, e con loro i veri protagonisti. Il Bobby che ritroviamo dopo il salto temporale ha ormai adottato un abbigliamento che non gli apparteneva, quando sognava di sopravvivere d’amore a Greenwich Village. La prima giacca con cui si presenta a Hollywood è di un triste e spento marrone, l’ultima con cui festeggia il capodanno dell’anno più triste è di uno splendente e candido bianco. Tutto ciò che ci circonda è in movimento, viviamo a cavallo delle sfere personali di miliardi di individui, e molto spesso le sfere più adiacenti allo nostra rientrano nel nostro universo per effetto di una fagocitazione insaziabile. Così facendo non siamo più protagonisti indiscussi delle scelte che reggono il timone della nostra barchetta nel fiume tempestoso. Un giorno ci rendiamo conto di essere arrivati dove non credevamo, e forse non volevamo. Dal Marrone allo splendore: dove è finito Bobby? È probabilmente rimasto nella bettola messicana, luogo di infiniti sguardi incondizionati. È questo infatti l’unico modo per sopravvivere in una società mascherata che vive di posizioni sfarzose, nomi altisonanti e bicchieri di champagne, mantenere attiva una realtà sognante. Mantenere viva la possibiltà di attraversare il paese con la mente per ricongiungersi con chi avremmo voluto essere, le giornate di sole che avremmo voluto trascorrere in riva all’Oceano, le cenette romantiche a lume di candela e respiro di vino. Non è una consolazione, ma lo scarto reale che ci tiene incollati alla nostra vera vita, che scorre lenta e silenziosa dietro il frastuono degli spari e dei flash.


Il finale lascia con l’amaro in bocca. Un gusto che permane ancora, perché quello di Allen è ancora un crudo realismo vestito da armonioso allestimento. Sulle note finali, con sguardo sognante, ci rendiamo conto di aver sacrificato qualcosa per arrivare fin qui. Ma per chi? Forse per continuare a galleggiare e non andare a fondo nel fiume senza fine, che a volte ci stringe le caviglie come sabbie mobili e ci ruba il pensiero.


Il fiume è senza fine, ma ahimè le anime che lo compongono un giorno lasceranno il posto ad anime nuove. La morte è presente anche in questo film, come in molti altri capolavori del maestro dell’ipocondria. La falce segue attenta le vicende e non manca di colpire. Il discorso sul paradiso degli ebrei è una riflessione da non sottovalutare, che ridà un altro significato ad alcuni momenti di decadenza pura dell’opera. Cosa abbiamo concluso, cosa sarebbe stato giusto. Cosa ha senso se tutto ha fine certa? Ogni anno Woody Allen ci riprova, e aggiunge qualcosa al suo meraviglioso affresco. Ogni nuovo film di Woody Allen potrebbe essere l’ultima pietra miliare di un’immensa carriera, e quindi, ogni volta che guardo un suo film, so che manca una pellicola in meno all’ultima opera, e questo mi rattrista. Ancora rido per un gruppo di gangster che risolve le questioni di vicinato nel cemento, ma rido a due facce. La falce del metacinema pesa.
Grazie ancora una volta e sempre, Woody.

venerdì 7 ottobre 2016

FIVE BY FIVE #16

Ri-benvenuti in questa piccola piccola rubrica gentilmente ospitata su questo Blog, rubrica che con oggi arriva alla sua sedicesima puntata. Almeno credo, non do troppa importanza ai numeri. Eppure dovrei, che sono importanti: per esempio è appena uscito l’album numero dodici dei Green Day, che potrebbe essere una gran bella notizia se non fosse per altri tre numerini, Uno!, Dos! e Tre!. Al quatro tentativo non ci casco. Se però è successo il miracolo e Revolution Radio – questo il titolo dell’album – è perfino meglio di American Idiot allora ditelo, o scrivetelo che rimedio. Nel frattempo vi consiglio come al solito cinque pezzi novi novi che potreste esservi persi nel vorticoso turbine settembrino.  


Ben quattro anni hanno aspettato i Dirty Projectors per fare nuovamente capolino dal luogo magico da cui provengono. Dopo l’abbandono di Angel Deradoorian ci sarà quindi un seguito agli ottimi Swing Lo Magellan e Bitte Orca, giusto per citare  gli ultimi e probabilmente più celebri loro album. Da un primo ascolto di Keep Your Name però, pare che davvero il nome sia tra le poche cose, se non l’unica, rimaste dei “vecchi” Projectors: mancano i riff di chitarra alla Steve Howe, mancano i continui cambi di ritmo, manca quella la complessità, quell’intreccio di voci tipico dei loro lavori. Di fatto Keep Your Name è un pezzo hip-hop e l’unica labile traccia del passato sono le classiche percussioni gommose udibili di tanto in tanto (oltre ad un loop di piano preso in prestito da Impregnable Question, come qualcuno ha fatto notare). Forse i fan di lunga data storceranno un poco il naso ma per quanto riguarda il sottoscritto Keep Your Name è un gran bel pezzo e fa ben sperare per questa inedita versione della band statunitense.



Capito a Berlino qualche settimana fa e ovviamente non manco di fare una tappa a Kreuzberg per osservare da vicino la fauna hypster nel suo habitat naturale: i ristoranti vegani (ossimoro?). Nel pieno della mia deriva psicogeografica la mia attenzione viene catturata da un gigantesco murales che occupa tutta la facciata di un palazzo. È davvero immenso, anche perché per qualche oscura ragione i palazzi a Berlino non hanno le finestre sui lati, quindi lo spazio per dipingerci è notevole. Su l’intera parete campeggia quindi un numero, 715, un testo piuttosto criptico, ma soprattutto l’altrettanto criptica copertina del nuovo album dei Bon Iver. La trovata pubblicitaria è geniale, ma a dirla tutta non era poi così necessario un tale dispendio di energia (e vernice): ogni album della band di Justin Vernon è di per sé un evento, considerando che tra una pubblicazione e l’altra passano ere geologiche. Su 22, A Million si potrebbero fare un mucchio di considerazioni, ma mi limito a parlare di uno dei pezzi secondo me migliori dell’album: 33 “GOD”  sintetizza al meglio lo spirito che permea l’intero l’album, la sua anima comunque ancora folk, la sua veste elettronica e tuttavia mai fredda o asettica e i frutti raccolti dopo i vari flirt con l’hip-hop.



Hanno cambiato nome ma la sostanza è rimasta quella ermetica, misteriosa e celatamente violenta – in una parola post-punk – di prima. I Preoccupations (f.k.a. Viet Cong) sono tornati con un album eponimo che per molti versi sembra il fratello del precedente. Nello specifico Memory potrebbe essere la “sorella” di Death data la durata simile (10/11 minuti) ma le somiglianze si fermano qua. Se nella sorella maggiore Matt Flegel cantava praticamente per tutta la durata del pezzo, accompagnato da schitarrate aggressive in un crescendo caotico, nella nuova si contano poche, indecifrabili righe, una linea di basso preponderante, drum-machine e una lunghissima coda strumentale, quasi ambient, che data la posizione centrale della canzone (è la quarta traccia) spezza letteralmente l’intero album in due metà. 



In quel di Los Angeles sono ormai lontani i tempi del punk hardcore o del glam-rock che ne facevano nel bene e nel male un punto di riferimento della musica d’oltreoceano e non solo. Non è blasfemo dire che oggi la Città degli angeli non ha più una “forma” definita, almeno dal punto di vista della musica. Non è quindi così strano che una delle novità più interessanti di quelle parti non mantenga nessun legame con la tradizione. Cherry Glazerr è il progetto – inizialmente solista, poi evolutosi in vera e propria band – di Clementine Creevy e il loro nuovo singolo sembra attingere dalla scena rock britannica di una decina di anni fa (Arctic Monkeys e compagnia per capirci) piuttosto che dalla scena autoctona. Il potente riff di chitarra in particolare ricorda quello di The Fallen dei Franz Ferdinand, come mi è stato fatto notare. Al di là delle influenze che si possono o meno trovare, Told You I’d Be With The Guys è una bella canzone e questa ragazza è da tenere d’occhio.



Per chi non li conoscesse, i BADBADNOTGOOD sono un gruppo jazz canadese. Dire jazz in realtà è piuttosto riduttivo, in realtà non disdegnano affatto incursioni in altri generi. Quest’anno hanno pubblicato un nuovo album, ma soprattutto hanno messo lo zampino in una caterva di altri dischi, con risultati è sempre ottimi. L’ultima manina l’anno offerta all’esordiente Mick Jenkins – di cui è appena uscito l’album The Healing Component – nel singolo Drowning. La canzone e il video sono già di per sé densi di significato, soprattutto se contestualizzati nell’America di questi ultimi mesi – difficile rimanere indifferenti a quell’ “I can’t breath” ripetuto più e più volte – e l’andatura flemmatica della linea di basso che accompagna tutti i sei minuti del pezzo cla perfettamente l’ascoltatore nella parte, ti inonda i polmoni fin davvero ad affogare, schiacciato dalla realtà che la voce calda del giovane rapper ti posa placidamente nel piatto.

Marsha Bronson

mercoledì 5 ottobre 2016

SERIE DI CUI NON PARLERÒ: MASTER OF NONE

Fino a poco tempo fa, per me Aziz Ansari era il medico svogliato di Scrubs, quello che faceva penare Cox per le sue capacità sprecate a causa dell’innata pigrizia. Solo qualche settimana fa, grazie al mio abbonamento-sanguisuga a Netflix, ho potuto scoprire il vero volto del comedian statunitense, che ha avuto la brillante idea di ricalcare le orme dell’irresistibile Louie e di proporre una serie TV originale Netflix in cui egli impersona una sorta di sua controparte televisiva. Dev Shah infatti non è altro che una versione romanzata dello stesso Ansari, e ciò lo si nota da alcuni punti di contatto notevoli tra le due figure, che vanno a creare i veri e propri pilastri su cui si regge la serie. Per questo, eliminando ogni sorta di espediente narrativo creato ad hoc per Dev, rimane il vero Aziz, con le sue manie, le sue preoccupazioni, le sue radici e le sue ambizioni. Ed è proprio questa veridicità di fondo a dare quel tocco di autorialità che caratterizza la serie e porta a pensare che il vero Master of None del titolo non sia tanto Dev, quanto Aziz, quanto una generazione schiacciata dalla globalizzazione e dalle aspettative, dalla convenzione sociale e da un futuro in regressione.



La serie si struttura saldamente attorno al protagonista, tanto da tralasciare spesso i personaggi principali, ma tutto è funzionale alla traduzione televisiva del fumo grigio e viola che ispira i creatori della serie. Attraverso Dev veniamo trasportati con molta leggerezza ed eleganza nella New York dei giorni nostri, e ci ritroviamo a seguire le vicende professionali e personali di un giovane aspirante attore. I temi principali di questa prima stagione dello show sono legati principalmente alla realizzazione dell’autore nell’ambiente spesso ostico in cui si trova. Discriminazioni, sciacalli, feste al sapore di nulla e ancora discriminazioni. Nel complesso, la prima stagione potrebbe essere presa come uno spaccato della vita di un semplice trentenne in una città che comprime. Il punto più alto della prima stagione, almeno a mio parere, è l’episodio in cui ripercorriamo medi di relazione con Rachel, la ragazza del preservativo bucato nella prima sequenza del primo episodio. In trenta minuti riusciamo a scorgere la passione, l’amore incondizionato, l’arrivo della routine, la fine delle emozioni travolgenti e ancora l’amore. Il perfetto bilanciamento di questi momenti produce un grande spettacolo per il piccolo schermo, e conferma ancora le incredibili capacità di scrittura del duo Ansari-Yang, senza le quali Master of None sarebbe un’altra sitcom, l’ennesima. E invece Master of None non è una Sitcom, è qualcosa di più dal punto di vista intellettuale, ma non qualcosa di meno da quello comico. La comicità di Ansari è irriverente, sfacciata, scorretta e comunque perfettamente allineata con la natura dello show, che rimane critica e intelligente. In questo ha pesato molto l’attività di stand-up comedian dello stesso autore, il quale ha travasato il suo estro per plasmare una commistione di elementi poco innovativi e dare vita a qualcosa di unico.

Le puntate di Master of None scorrono senza che ci si accorga del tempo che passa; lasciano lo spettatore incollato allo schermo. Sono divertenti, leggere e scanzonate, ma trasmettono anche qualcosa di indefinitamente oppressivo . È il disagio che si prova ad immedesimarsi in una generazione schiacciata dal mondo, quelli che stanno vivendo cambiamenti epocali senza una preparazione adatta, e si sentono a loro agio solo quando si sentono persi nel caos che li circonda. Perché, se per far piangere non c’è bisogno di piangere, riflettere non è l’unica via per generare riflessione, ma un sorriso nasconde il mondo.

martedì 4 ottobre 2016

FUOCOAMMARE, O L’ESSERE AL DI SOPRA DI ALTRI

Con imperdonabile ritardo ho recuperato uno dei film italiani più discussi dell’ultima stagione cinematografica. Fuocoammare non è un film, non è un documentario. È uno schiaffo, e una carezza. È la cruda realtà che sta oltre le coste e gli sbarchi, ed è la storia di un bambino innocente, che si muove nella sua isola, vive in maniera semplice la sua età e ci dimostra le ipocrisie che si celano dietro l’abito delle occasioni importanti che stiamo indossando. Noi che continuiamo a curarci di noi.


Rosi mostra visi segnati, voci rotte dal pianto, volti senza speranza. I viaggiatori della morte che tentano il salto nel vuoto sono ragazzi della mia età, bambini, donne, anziani. Uomini che hanno visto la fine nel mare e sono scampati ad essa, ma non alla vita che comunque ha vinto. Non sono tutti Siriani, non tutti scappano dalla guerra. Ma sono tutti uomini che hanno attraversato l’Africa per cercare una via di vita. Quanti sono i Siriani nel numero complessivo dei migranti non mi interessa, se una persona, bianca, nera o gialla che sia, ha avuto il coraggio di affrontare, o si è sentita costretta a guardare così da vicino la morte, essa non merita la gogna mediatica a cui sono costrette le persone che arrivano nel nostro paese. Non meritavano la morte coloro che ancora giacciono sul fondo del Mediterraneo o nella comodità di una bara senza vista. Ci troviamo di fronte ad una tragedia umanitaria e le nostre preoccupazioni sono altre, sono economiche, sono secondarie al cuore del problema. Esiste una criticità nella gestione di coloro che cercano salvezza, è innegabile, ma la criticità nasce e si alimenta anche di un’incapacità tipicamente nostrana.


A volte credo che tutto nasca da noi. Da una paura più sporca di quella del diverso, una paura inconfessabile. È la paura di essere inferiori. Abbiamo un tremendo bisogno di essere superiori, perché solo così ci sentiamo bene con noi e con la nostra ristretta comunità plutocentrica. Viviamo nella costante ricerca di un avanzamento nella nostra ideale scala sociale, che si compone di falsi miti, velleità e mancanze nascoste. Ma spesso la scala mondiale non è quella che ci prefiguriamo in mente, e mentre il globo gira, non siamo in grado di dare una spinta al nostro avatar, che perde di visibilità, si incaglia sul fondo della mediocrità. Rimane dunque la soluzione più semplice: se non posso elevarmi al di sopra di qualcuno, per poter dire anch’io di guardare gli altri dall’alto, posso sempre cercare di affossare i più deboli. Posso cercare di evitare con tutte le mie forze che una popolazione universalmente meno considerata raggiunga uno status sociale comparabile al mio. Posso scavare con un’infida pala sotto i piedi di chi barcollando muore. I paesi più poveri dell’Africa, la Siria, l’Afghanistan e tutti i luoghi da cui in questo momento emigrano persone in difficoltà sono diventati per noi, gente perbene, lo slancio sociale per superare il limite dell’ultimo gradino della scala. Oltre il quale c’è il fango, misto a lacrime di sangue nel quale abbiamo relegato un mondo inferiore e dal quale non deve uscire nessuno.


Se prendete una persona e la chiudete in una stanza senza pareti, con il soffitto molto alto, non riuscirete a dirne con esattezza la statura. Non saprete dire se tale individuo sia alto o basso o nella norma. Mettendo invece al suo fianco una secondo individuo, potrete dire molto di più sulle stature dei due. Il mondo non ha finestre, né muri, e noi siamo ricchi perché qualcun altro è povero. Ed è bene che le disparità rimangano tali, per preservare la natura privilegiata di una parte di noi.


Ci troviamo di fronte ad una tragedia umanitaria e stiamo attenti alla carta e al metallo che emette suoni soavi nelle nostre tasche. Abbiamo creduto di difendere i valori, i diritti dei pensionati nostrani, quando stavamo nominando diversamente il razzismo e il classismo. Se quei migranti non fossero stati neri, sporchi e affamati, cosa sarebbe cambiato?



Fuocoammare è questo: una sequenza di toccanti immagini vere che ci mostrano la realtà mortifera che sta dietro discorsi di partito, questioni pecuniarie e oltranzismo interessato. Perché si può essere solo contro di loro, a quanto pare. Ma Fuocoammare è anche una metafora, e sta a voi interpretarla: potreste vederci la fine dell’umanità nella traversata del mare che si fa rosso, oppure potreste scorgere un manipolo di delinquenti pronti a portare disordine e povertà diffusa nel paese che invaderanno. A voi l’interpretazione del “Film strappalacrime della Rai”, perché la realtà è un punto di vista.

lunedì 3 ottobre 2016

WAYWARD PINES 2 - COMMENTO EPISODIO 7

La scelta di dedicare sostanzialmente un intero episodio a Christopher James è stata in sé ambivalente: da una parte è stato concesso il giusto spazio ad un personaggio che aveva attirato l’attenzione incondizionata del pubblico fin dalla sua prima apparizione, dall’altra invece la scelta di lasciare così tanto spazio ad un flashback nelle ultime puntate di quella che si prospetta essere l’ultima stagione ha ancora una volta prodotto un fastidioso rallentamento del ritmo. CJ è quindi l’uomo della provvidenza, svegliatosi centinaia di anni nel corso del grande inverno per controllare che tutto si svolgesse secondo i piani di Pilcher. E tutto si è svolto secondo i piani di Pilcher? Decisamente no. Dal flashback spezzettato veniamo a conoscenza di due cose: la mutazione genetica non è stata graduale come ci si poteva aspettare dagli indizi disseminati nel corso di due stagioni e il vate ha edificato il suo vittoriale su un cimitero indiano. O era tibetano? Sta di fatto che tutta la trama è crollata nel momento esatto in cui gli sceneggiatori hanno scelto di rivelare che il vero motivo dell’aggressività degli Abby nei confronti degli umani è causata dall’invasione territoriale. Siamo passati dalle violente bestie umanoidi ai placidi animali di quartiere. Una conclusione troppo stereotipata, troppo posticcia, troppo banale per poter davvero essere la causa scatenante di un’epopea durata venti episodi. In tutto questo perché CJ non ha mai espresso il suo parere contrario alla nuova comunità ma ha continuato ad occuparsi della raccolta di viveri come se niente fosse? Ancora una volta questa seconda stagione si mostra tronca di qualcosa.


Intanto, mentre nel passato si svelavano i motivi traballanti del futuro, proseguiva nel presente la ricerca di Yedlin sull’Abby femmina, rivelatasi essere la mente del gruppo e l’unico esemplare in grado di interagire con gli esseri umani. Ma si tratta davvero dell’unica? Cosa si cela dietro i cerchi nel grano sulla mano oltre al segno di riconoscimento della leadership? Credo che si tratti della natura propria delle femmine della specie, le quali hanno l’intelligenza per governare sui maschi. Una struttura societaria basilare simile a quella degli alveari. Potrebbe esserci una donna per ogni gruppo organizzato. Rimane un velo di mistero sul piano dell’Abby femmina, che si è fatta catturare appositamente e probabilmente trama vendetta contro l’intera razza umana, senza fare distinzioni tra innocenti e colpevoli degli squilibri nel suo branco. Alla luce delle sue capacità intellettive, credo sia in grado di abbassare le difese elettriche delle mura e favorire l’ingresso nella città di un esercito di aberrazioni. Tutto quindi conduce ad uno scontro finale armato che chiuderà definitivamente il ciclo, magari con lo sterminio delle forze armate e la migrazione in un territorio vergine per i superstiti.
Ciò che mi sfugge è la sorte avversa della squadra di ricognizione, ridottasi ad un’unità dopo anni di viaggio. Essa ha subito gli attacchi degli Abby, ma quali Abby? Se le mutazioni attaccano solamente coloro che invadono il loro territorio in maniera continuativa, e se diamo per buona l’esistenza di innumerevoli gruppi o branchi di bestie, ognuna associata ad uno specifico territorio, cosa hanno fatto i componenti della squadra per scatenare le ire degli altri popoli animali? Oppure gli Abby sono dotati di una struttura in scala globale e Margareth è il capo di tutte le mutazioni?


Ciò che appare chiara è comunque la natura frammentata di questa serie, che non riesce quasi mai a dimostrarsi un corpo unico, ma va a tentativi, tastando nel buio possibili sviluppi e andando quasi sempre a pescare sfortunatamente il peggiore, il più scontato e banale. Rimane inoltre sempre ben impressa nella mente dello spettatore la struttura misteriosa che caratterizzava gli esordi della serie, gli albori gloriosi del figlio di Twin Peaks. Oggi quei ricordi sono bistrattati, allontanati e reclusi. Gli sceneggiatori hanno scelto fin da subito di tagliare i ponti con il passato e di produrre un prodotto nuovo, qualcosa che avesse pochi richiami al passato e che potesse essere fruibile a tutti, anche a coloro che non hanno visto la prima stagione. A questo servono le brevi spiegazioni all’inizio delle puntate. a questo servono le morti improvvisate e imbarazzanti delle chiavi di volta della rivolta finale della prima stagione. Wayward Pines 1 non è Wayward Pines 2. O meglio: Wayward Pines 2 non è Wayward Pines, ma un altro prodotto poco curato, stereotipato ambientato in un futuro post apocalittico. Facciamocene una ragione.

L’unico colpo di scena finale che potrebbe rimescolare le carte un’ultima volta sarebbe il ritorno del figliol prodigo. Chissà.

domenica 2 ottobre 2016

DOWN - SECONDO GIORNO - PARTE 1

SECONDO GIORNO

Rinvengo. Il Sole è tornato a farmi compagnia. La gamba mi duole di meno ma vene e arterie continuano a pulsare incessantemente. La macchia viola si espande. Non so se recupererò mai la gamba, ora l’unico pensiero è uscire da qui, ma sapere come sono finito quaggiù aiuterebbe. Come? Chi?
Mantengo la calma e mi trascino verso una zona d’ombra poco distante data dall’inclinazione solare. Ogni spostamento in queste condizioni sembra un’agonizzante fine. Stringo i denti, sento una brezza. L’aria è più fresca, respirabile. Ne prendo a pieni polmoni. Deve essere mattina.
Con la testa finalmente all’ombra riesco a ritrovare una sorta di lucidità e mi fermo a pensare. Ricordo l’ufficio a serata inoltrata, la porta d’uscita, il saluto sfuggente di un passante, delle voci confuse, una ragazza si agita nel tipico fumo dei tombini nei vicoli newyorkesi, una musica orecchiabile permea l’area, ma è soffusa. Probabilmente viene da un locale vicino. La scala antincendio scende e comincia a vibrare rumorosamente, due uomini. Vedo distintamente due uomini e due maschere. Comincio a ricordare quelle maschere di terrore. Un fumo si addensa per prendere sembianze canine, antropomorfo con un sinistro sorriso maligno, il naso largo, le narici spaziose, gli occhi. Occhi malvagi, occhi rossi, il diavolo sembra possederlo.
Qualcosa mi distrae dai miei pensieri. È un insetto, si sente in lontananza. Un grillo, credo. Un suono familiare mi smuove qualcosa dentro e una lacrima scende involontariamente e dopo aver segnato il mio viso precipita seguendo la gravità fino a toccare terra. Quella terra che mi circonda, mi rinchiude e mi asfissia; quella terra sotto la quale un giorno tornerò o forse già sto tornando. Tutti muoiono, tutti hanno i giorni contati, ma sento che i miei si possono contare sulle dita di una mano. Sento freddo, un brivido lungo la schiena. Una goccia di sudore gelido ricalca il percorso della lacrima. È vicina.


Mi porto la mano al volto per asciugare il sudore ma l’allontano immediatamente. È sporca, lercia. Il pungente odore acre del vomito è ancora presente. Mi calmo e respiro. Il cuore torna a fare il suo senza esagerare. Continuo a ricordare.
Ricordo una seconda maschera, meno minacciosa ma non meno inquietante. Un clown con i denti aguzzi mi fissa. La mia mente si riempie di palloncini fino a diventarne satura. Ci sono tutti i colori del creato che coprono il buio della paura. Cominciano poi a scoppiare uno dopo l’altro, sempre con maggior frequenza, finché non ne rimane uno, uno soltanto. Un palloncino rosso svolazza libero. È rosso. Vedo tutto rosso. Rosso sangue, vedo solo sangue. Sembra che però il sangue non sia mio. È vecchio, raggrumito, viene da un passato più remoto. Non c’era sangue in quel vicolo che io ricordi, solo violenza. E il sangue? Di chi è quel sangue? Mi sforzo di ricordare. Non so. Non riesco a capire. La mia mente mi supera e divaga. Associazioni mentali autonome che non Capisco. Vedo una pala. Questa è reale. Vedo davvero una pala, si trova appena fuori la buca, piantata nel terreno. Vedo in realtà solo il manico, potrebbe essere un palo, una mazza, ma voglio credere che sia una pala. Voglio convincermi. Se quello strumento fosse qui al mio fianco sarei un uomo libero, libero di riversare le mie paure in un movimento meccanico volto a creare una via d’uscita da questo mondo oppressivo, da questo dannato inferno. Spero che sia una pala. La speranza è ancora con me. Non sono più solo come credevo. In questa situazione mi rallegro di poco. Un pezzo di legno di natura sconosciuta mi ricorda il vento, l’estate sui covoni. I baci innocenti. Un sorriso nasce e cresce sul mio viso. Mi stupisco. All’inferno sorrido. Poi il sorriso muore. Qualcuno muore prima di me quindi.

La lucidità ormai riacquistata mi porta a guardarmi attorno. Mi accorgo solo ora di essere completamente nudo. Il mio corpo a contatto con la Madre. Mi accorgo solo ora che non urino da giorni. Lo stimolo sopito sotto strati di angoscia e terrore esce allo scoperto in un attimo di tranquillità e mi conferma che non mi svuoto da molto, troppo. Mi ruoto leggermente sulla gamba dolorate e mi libero. Il dolore aumenta, ma la soddisfazione di una vescica libera è maggiore. Sospiro e chiudo gli occhi. Vorrei provare ad alzarmi ma la botta alla testa, lo scombussolamento e forse un po’ di temperatura mi trattengono dal farlo. Poggio la testa sulla parete rocciosa e umida. Una formica rossa esce e sembra salutarmi. Ricambio. La solitudine in un mondo saturo di volti è dura da sopportare. Mi fermo a fissare il cielo. Non è mai stato così azzurro. Sembra il Pacifico nei miei sogni. Forse non ho mai guardato il cielo davvero, o almeno non l’ho mai fatto in questo modo. Quel colore infinito, puro e misterioso per me rappresenta ora la libertà. Anelo all’azzurro del cielo. Intanto il sole si è spostato. L’ombra sta diminuendo. Devono essere le undici, credo. Mi assopisco.