martedì 30 maggio 2017

TWIN PEAKS 3 - EPISODI 3 & 4

Dopo una premier esaltante, Lynch sceglie di rallentare il corso degli eventi per focalizzarsi principalmente su un filone narrativo, quello che vede l’agente Cooper in giacca e cravatta tornare indietro al tempo reale per recuperare la sua identità. Nello spazio lasciato dalla singola trama si inserisce finalmente l’ironia caratteristica delle prime due stagioni, con i suoi toni sopra le righe, talvolta nonsense, talvolta kitsch.


Il terzo episodio si apre con un’appendice del viaggio onirico di Coop verso il mondo reale. Se nella puntata precedente avevamo visto l’agente dell’FBI materializzarsi per pochi frangenti all’interno della misteriosa scatola di vetro, qui possiamo seguire il suo effettivo ritorno nel mondo reale, la personificazione dello spirito. Questo momento cardine è anticipato da una sequenza che spinge molto sull’astrattismo surrealista del visionario regista: Cooper si ritrova in un luogo al limite del sogno e segue le indicazioni dei personaggi che incontra per entrare all’interno di un macchinario e tornare - senza scarpe - al mondo reale. Il protagonisti incrocia tre personaggi all’interno di questo spazio astratto: la donna cieca, il volto del maggiore Briggs e la donna sul divano. Per tutti e tre mancano probabilmente i mezzi per riuscire a raccapezzarsi nell’analisi degli eventi, ma il volto fluttuante del maggiore richiama un elemento ricorrente della serie: la rosa blu. Rosa blu che rimanda lo spettatore direttamene al film prequel del ’92 “Fuoco cammina con me” (FWWM). Nella pellicola in questione, l’elemento della rosa blu veniva solamente menzionato per muovere l’agente speciale Desmond a tornare sui suoi passi. Il significato specifico della rosa blu è ancora avvolto da un denso strato di mistero, ma appare palese rientri nel codice utilizzato dall’FBI. Immagino quindi che personaggi storici dell’associazione come Gordon e Albert possano svelare il mistero non appena si presenti l’occasione. 


Tornando alla comprensione degli avvenimenti nello spazio astratto, due dettagli hanno colpito la mia attenzione:  i rumori che anticipano la comparsa del “padrone” dell’area e l’orologio che segna le 2:53. I rumori sono palesemente quelli della scatola di vetro che si rimpicciolisce e si ingrandisce con un sistema meccanico. Non è chiaro quale collegamento ci sia tra la scatola a New York e il piano metafisico della donna cieca. Non è chiaro se l’essere apparso dopo Cooper nella scatola possa essere lo stesso di cui la donna sul divano teme l’arrivo. Questa versione proverebbe la teoria secondo cui quell’essere sia stato inviato da qualcuno al fine di fermare il ritorno di Cooper ne mondo reale. L’orologio invece ci indirizza verso una conclusione certa: il piano metafisico mostrato nei primi minuti del terzo episodio è la loggia nera per gli abitanti che parlano al contrario, ma non è la loggia nera per il tempo che scorre come sulla Terra. Si tratta a mia parere di un piano intermedio, adibito propriamente al ritorno della anime nel mondo reale attraverso l’apposito macchinario.


Attraverso il macchinario della personificazione, Coop si sarebbe dovuto riappropriare del suo corpo, quello posseduto da Bob per venticinque anni. In realtà le cose non vanno come previsto e l’anima di Coop finisce nel corpo di un terzo doppelganger, Dougie Jones, in Nevada, mentre l’anima di questo nuovo personaggio fa ritorno nella loggia nera per sgonfiarsi come un palloncino e rivelare la sua vera identità di essere farlocco, creato per uno scopo preciso. Questa pratica all’apparenza mistica coinvolge una sfera d’oro e soprattutto l’anello della loggia, che fa il suo ritorno sulla scena dopo essere brevemente apparso nel film FWWM. Il suo funzionamento, rispetto a quanto potevamo attenderci, sembra essere variato: se il pubblico aveva ricostruito le vicende dell’intricato film equiparando l’anello ad una sorta di talismano contro le possessioni demoniache, qui la situazione si complica. L’anello potrebbe essere allo stesso tempo lo strumento utilizzato per la creazione di un terzo doppelganger  o l’elemento attraverso cui è stato possibile deviare il ritorno dell’anima di Coop. In entrambi i casi le possibilità dell’oggetto si allargano a dismisura rispetto alle premesse. Io propendo più per la seconda ipotesi, la quale potrebbe in qualche modo spiegare la reazione di Mr C. al ritorno di Cooper. Lo scambio di corpi del terzo episodio riporta sullo schermo anche la garmonbozia, elemento inventato da Lynch per spiegare il comportamento degli enti della loggia e introdotto per la prima volta in FWWM.


Dopo il ritorno nel mondo reale, il personaggio di Cooper, sostituitosi a Dougie Jones, soffre il tempo passato fuori dal tempo e risente della durata della sua assenza. Pur rimanendo in contatto con Mike, Coop non riesce a collegare il momento presente con periodo passato nella loggia e finisce per aggirarsi come un automa per le vie del Nevada, non riuscendo ad interpretare i segnali della loggia nera e risultando estremamente ilare, anche se il finale con la storica tazza di caffè lasica intendere un rinsavimento. Dal momento della personificazione in poi la trama si focalizza soprattutto sul girovagare di Cooper, con una breve parentesi a Twin Peaks per mostrare vecchi (Bobby) e nuovi personaggi (il nuovo sceriffo, Waldo). Pochi indizi realmente necessari e una dose di fan service che non guasta.


È con l’opera dell’FBI che la trama torna a galoppare verso uno sviluppo sempre più frastagliato che coinvolge anche Philip Jeffries, personaggio comparso nel film FWWM e interpretato dal compianto David Bowie. Gordon e Albert, accompagnati dall’avvenente agente Tamara, si dirigono in South Dakota dopo aver ricevuto la notizia del ritrovamento di Dale Cooper, ma l’incontro tra gli agenti e l’uomo posseduto da Bob lascia emergere tutte le perplessità dei federali, amplificate dall’incidente riguardante Philip. Se da una parte la narrazione sembra muoversi in maniera lineare, andando a ricostruire frammanti di questi venticinque anni passati senza Dale Cooper, il personaggio di Philip Jeffries continua a destare curiosità per le sue sparizioni e per il legame che sembra avere con la loggia. Il questo episodio di conclude quindi con Albert e Gordon intenzionati a ripartire per Twin Peaks per avere un colloquio con una donna misteriosa. Che sia la signora ceppo o potrebbe essere la donna vestita di rosso del film? Potrebbe trattarsi di un altro personaggio femminile storico della saga?



In questo doppio episodio Lynch torna ad un’impostazione più classica della serie senza però tralasciare le tonalità cupe e la maturità dell’operato del regista. Lynch è quello del ’91, ma allo stesso tempo ha evolutola sua estetica trascendentale verso lidi superiori.
Il merito di Twin Peaks 3 è continuare a stuzzicare la mente dello spettatore con rimandi precisi e scelte apparentemente fuori dalle logiche possibili. Per condurlo in una trama senza spiegazioni facili, per rendere tangibile un’esperienza metafisica. Il tutto coinvolge e porta lo spettatore a chiederne sempre di più. un episodio richiama subito quello successivo e più aumenta la complessità, più aumenta la gratificazione della comprensione personale. Interpretazione.

Alla prossima settimana. Hellooooooo!

mercoledì 24 maggio 2017

TWIN PEAKS 3 - EPISODI 1 & 2

La via che porta verso casa dopo un interminabile esilio durato venticinque anni potrà essere ripida, sconnessa, ma avrà sempre quell’odore caratteristico, lo stesso che ci aveva fatto innamorare dei luoghi natii. Per Lynch l’odore è quello dell’olio bruciato, il luogo natio la loggia nera.


Twin Peaks torna ad imporsi come prodotto reale della mente visionaria del suo autore, stavolta non costretto dal gusto comune e da logiche di produzione, ma libero semplicemente di esprimere la sua visione metafisica attraverso una forma oltretelevisiva. Il ritorno è dolce quanto amaro, segnato dalla tragica conclusione della seconda stagione che vedeva il corpo dell’agente Cooper posseduto dallo spirito malvagio di Bob. La narrazione riprende venticinque anni dopo, con l’escamotage di una lieve retrodatazione, per muoversi in maniera del tutto contraria al senso comune. Se altri revival famosi in questi ultimi anni hanno riaperto un capitolo chiuso con il classico espediente della presentazione delle storie presenti, Lynch sceglie di alterare il corso temporale e di presentare anticipatamente una galleria di personaggi e situazioni nuove, indubbiamente distanti dalla conclusione della seconda stagione. Il tempo ha cambiato anche i luoghi, i modi, i volti, ma non i tempi dell’azione, attraverso i quali Lynch ricostruisce un cordone ombelicale con la ricerca della loggia nera e chiude, al termine del secondo episodio, un cerchio di visioni che apre finalmente le porte al ritorno fisico dei protagonisti di Twin Peaks (fan service della scena al Bang Bang Bar). Con questa scelta narrativa, Lynch allarga a dismisura la sua narrazione, fortifica la trama e fonda delle basi solidissime per costruire una serie profonda, stratificata.


La serie si apre con l’immancabile gigante, a colloquio con Dale Cooper in una cupa atmosfera grigia. L’entità, come suo solito, si esprime attraverso tre indovinelli - celebri quelli del primo episodio della seconda stagione. I nuovi, che ci terranno svegli per notti, sono:

Remember 4-3-0

Richard and Linda

Two birds with one stone

Gli ultimi due in realtà potrebbero far parte del medesimo inciso (“Richard and Linda, Two birds with on estone”). Se il terzo indizio del gigante al momento lascia poco spazio alla speculazione, i primi due potrebbero già trovare una spiegazione.
Remember 4-3-0. Tre numeri, di sui due già comparsi nel corso delle prime due stagioni. Si tratta di due numeri legati al personaggio di Hawk, rappresentato spesso con una tessera del domino in mano, prima raffigurante tre punti, successivamente quattro. Inizialmente i fan avevano cercato di spiegare il cambiamento di numero legandolo alle uccisioni dell’agente di polizia, in quanto, effettivamente, il cambio coincide con un’uccisione compiuta dal personaggio. Non è chiaro però il riferimento allo zero, ma credo sia indubbio il legame tra questo indizio e Hawk, successivamente centrale in un paio di frangenti in questi primi episodi.


Richard and Linda potrebbero invece essere due personaggi all’interno della serie, o il riferimento voluto di Lynch a due artisti del folk internazionale, i quali divennero famosi negli anni ’70 per alcuni successi che richiamavano il tema delle luci: “I want to see the bright lights tonight”, “Shoot out the lights”. Il riferimento potrebbe essere calzante, alla luce dell’attenzione particolare che Lynch dimostra di avere per il posizionamento e per l’effettiva funzionalità delle fonti luminose, come ad esempio nella scena ormai classica dei fari dell’auto che illuminano il percorso o nelle sequenze ambientate a New York.


Se le prime due stagioni di Twin Peaks avevano subito con il tempo un effetto albero, andando così a sviluppare sottotrame sempre più lontane tra loro, questa terza stagione sembra più orientata verso il modello ad imbuto, che vede differenti narrazioni ritrovare dei punti di contatto per poi effettivamente ricostruire un quadro unico, coerente e definito. In particolare spiccano tre filoni narrativi principali: l’omicidio della bibliotecaria di Buckhorne, il risveglio di Cooper nella loggia nera e la scatola di vetro. Se le ultime due sottotrame scoprono un legame profondo verso la fine del secondo episodio, l’omicidio di Ruth Davenport sembra seguire una tematica più immanente, sulla scia dello stile di Fargo, ma è anche il pretesto per portare sullo schermo il personaggio del Doppelganger di Dale Cooper, uscito dalla loggia nera nell’ultimo episodio della seconda stagione e probabilmente guidato ancora dallo spirito di Bob. Per venticinque anni Bob si sarebbe quindi aggirato tra gli umani con le sembianze dell’agente dell’FBI, ma qualcosa viene a reclamare il conto: è la loggia nera che chiede indietro il suo figlio più violento. Questo è probabilmente il motivo della presa di coscienza dello spirito di Coop, ancora rinchiuso nella loggia nera, che, aiutato da alcuni personaggi storici presenti come spiriti all’interno della loggia, tenta di sfuggire al piano metafisico prima che Bob vi faccia ritorno. Non è chiaro se lo sviluppo contorto della sua vicenda sia effettivamente il decorso naturale della scadenza dei venticinque anni o se la mediazione degli spiriti abbai contribuito ad infrangere le norme della loggia. Io propendo più per la seconda ipotesi e successivamente vi spiegherò le mie motivazioni, ma per farlo è necessario introdurre la scatola di vetro. Probabilmente l’elemento più enigmatico di questi primi due episodi, della teca in questione sappiamo che è uno strumento voluto da un magnate misterioso, che alcuni ragazzi sono stati assoldati per osservarla incessantemente e che uno di loro, prima di lasciare l’impiego, ha visto qualcosa entrare dall’oblò sulla città di New York. Al di là di una realizzazione tecnica degli interni meravigliosa, lo strumento assume un significato in seguito all’ultima sequenza riguardante il ritorno dell’originale Dale Cooper, il quale precipita nel pavimento della loggia e si ritrova a fluttuare al di fuori dell’oblò, per poi entrare nella teca e subire una serie di mutamenti meccanici prima di scomparire nuovamente. E su quello che accade dopo che vorrei concentrarmi, ossia sulla comparsa dello spirito nero che uccide brutalmente i due amanti. Una somiglianza anatomica con il “volto” dell’albero potrebbe legare l’essere alla loggia e quindi spiegare la natura dell’uscita di Coop dal piano metafisico. In questa teoria sperimentale, l’agente Cooper avrebbe infranto l’ordine della loggia riuscendo ad evadere e l’albero avrebbe assunto delle sembianze umanoidi per poter inseguire la pecorella smarrita. L’essere oscuro che appare nella teca potrebbe essere una personificazione reale dell’albero, concepita allo scopo di eliminare coloro che infrangono la legge della loggia. L’albero, come escrescenza autonoma del braccio di Mike, potrebbe essere puro male, una delle entità più influenti all’interno della loggia nera, in contrasto con Bob per la supremazia all’interno del piano metafisico o in combutta con più noto spirito maligno. In ogni caso avrebbe molte ragioni per inseguire il vero Dale Cooper, perché solo se Bob rientra nella loggia nera Dale può tornare alla realtà.


All’esterno del trittico narrativo sul quale si fondano queste due puntate, vengono presentate diverse situazioni apparentemente autonome, che nascondono dei collegamenti diretti con la trama principale che sembra essere quella legata al ritorno di Bob nella loggia nera. Tra le sottotrame più interessanti ricordiamo l’opera di Hawk, che potrebbe essere entrato nella loggia in salvaguardia della sua eredità.


Twin Peaks è tornato, Lynch è tornato e lo ha fatto con arte pura a servizio di una magnifica narrazione. Il momento nostalgico del ritorno dei protagonisti delle prime due stagioni c’è stato, ma è stato intelligentemente diluito nel corso dei primi due episodi per sfociare nell’ultima meravigliosa sequenza sulle note di “Shadows”.

“James is still cool,
He’s always been cool.”

Quello che gli autori hanno promesso di realizzare, quello che avevano da sempre rivendicato contro una chiusura anticipata si sta effettivamente concretizzando. E questa serie, oltre la dimensione televisiva che la lega alle due precedenti stagioni, si pone come summa definitiva dell’opera filosofica-artistica del maestro David Lynch. Se queste prime due puntate fossero un film, staremmo parlando della rivelazione cinematografica dell’anno, della mano più posata del cinema. Allora riconosciamo a Lynch la superiorità palese che ogni sua inquadratura esprime. Non tutti potranno seguirlo, in pochi potranno capirlo, nessuno potrà scalfirlo.


Note sparse a margine:


Da un dialogo tra il doppelganger di Dale Cooper e la moglie del preside di Buckhorne veniamo a sapere che quest'ultima è stata guidata da uno spirito per un periodo indefinito. Lo spirito in questione potrebbe essere quello completamente nero che si intravede per pochi secondi nella cella accanto a quella del preside.
In ogni caso possiamo affermare che se muore il corpo che ospita uno spirito mentre questo vi alloggia, anche lo spirito subisce la stessa sorte.

Le entità che abitano la loggia sotto le sembianze di personaggi reali delle prime due stagioni (Laura e Leland Palmer) hanno probabilmente mantenuto una forma umana all'interno del piano metafisico, ma non possono esistere al di fuori di esso. La mancanza di un tempo causerebbe l'impossibilità della dipartita delle anime. La scena in cui Laura si mostra confusa sulla sua identità e successivamente svela la sua vera natura mistica togliendosi il volto mostra l'essenza globale a cui le anime appartengono quando vengono rinchiuse nella loggia e successivamente perdono i loro corpi umani. Un'entità unica che si manifesta con le forme degli spiriti rimasti rinchiusi nella loggia.


Catherine E. Coulson, l'attrice che interpreta la signora ceppo, è venuta a mancare nel settembre 2015 dopo una lunga malattia. La scene che la vedono protagonista in queste due puntate sono state girate proprio nel 2015, poco prima che morisse, prima ancora che Lynch iniziasse a girare la terza stagione. Lo stato di salute del personaggio era, all'epoca, probabilmente lo stato di salute della donna, ma la malattia non ha arginato la voglia di essere parte di questo storico progetto, e l'amicizia decennale con il regista ha fatto il resto. Questa storia mi ha convinto di due cose: Lynch ha sempre avuto in mente la sua creatura, non aveva bisogno d'altro che dei mezzi per realizzare la sua arte, e Twin Peaks vale più di cento Black Mirror.

domenica 21 maggio 2017

TWIN PEAKS 3 - HERE WE GO AGAIN!

Finalmente arriviamo a parlare di Twin Peaks, dopo due anni di blog, dopo decine e decine di articoli che rimandavano dalla madre delle serie tv. Perché molto spesso è impossibile parlare di intrattenimento televisivo senza tirare in ballo la madre delle serie tv. E finalmente arriviamo a parlarne in concomitanza con l’uscita della terza stagione evento, a distanza di ventisei anni dall’interruzione forzata dell’opera di Lynch e Frost. Nel ’91 infatti la serie venne chiusa in seguito ad un clamoroso calo d’ascolti, dovuto certamente all’imposizione della CBS di alcuni paletti narrativi ai due showrunner, i quali furono costretti a rivelare l’identità dell’assassino di Laura Palmer.


Lynch rimase particolarmente deluso dall’epilogo della sua creatura e in più occasioni, sia durante la messa in onda degli ultimi episodi della seconda stagione che a distanza di anni, ribadì che nella sua mente Twin Peaks si sarebbe dovuto arrampicare sempre attorno ad un ceppo forte come il mistero della morte di Laura. La CBS però non volle sentire ragioni e, forte del potere contrattuale, spinse Lynch a svelare il mistero dei misteri nel primo terzo della seconda stagione. Alla rivelazione seguì un pesante calo dell’intensità emotiva e narrativa della serie, che si trascino per alcuni episodi attraverso sottotrame slegate dagli eventi principali, talvolta al limite del ridicolo, fino all’arrivo del secondo grande filone, quello legato alla figura dello psicopatico Windom Earle. Attraverso l’introduzione di questo indimenticabile personaggio, Lynch riprese le fila del discorso metafisico che fin dall’inizio aveva sviluppato attraverso sogni, delitti e camere con le tende rosse alle pareti. fino ad arrivare all’epilogo della serie, perché a nulla era valsa una manciata di episodi di livello per far ricredere tutti coloro che avevano abbandonato la visione dopo il calo qualitativo. E quando fu comunicato ai due creatori che avrebbero dovuto chiudere lo show nel giro di pochi episodi, Lynch scelse di esagerare, di rincarare la dose e di mostrare finalmente la chiave del mistero, la loggia nera. In un finale onirico e meravigliosamente concluso, Lynch sfruttò anni di meditazione trascendentale per portare lo spettatore al cospetto del suo mondo, l’ideale che lo spinge da decenni a raccontare una realtà complessa, ancora incomprensibile ai più. E la serie si concluse con il più terribile dei cliffanger, l’agente Dale Cooper posseduto dallo spirito di Bob che ripete con una voce stridula: “Come sta Annie?” (“How’s  Annie?”).


Si chiudeva così,tra la tristezza e lo spiazzamento, l’esperienza televisiva più alta di sempre fino a quel momento. Perché Twin Peaks era stata una rivoluzione senza eguali, perché Lynch aveva cambiato per sempre i canoni dell’intrattenimento televisivo. Prima di Coop, gli episodi delle serie tv erano autoconclusivi, raramente tentavano di sviluppare una solida narrazione orizzontale. Prima di Bob e Mike il cinema risiedeva altrove e la serialità era riempita di espedienti semplici per momenti semplici. È solo grazie a Lynch se abbiamo potuto ammirare tutti i capolavori che la televisione ci ha proposto dal ’91 ad oggi: da X-Files a Lost, da Alias a Breaking Bad. Tutto il nostro sistema televisivo odierno ebbe origine nel 1990, nella cittadina di Twin Peaks. Ma, riviste al giorno d’oggi, le prime due stagioni del capolavoro di Lynch e Frost necessitano di essere contestualizzate perché, se la loro esperienza ha aperto le porte al futuro, il loro presente era ancora un ponte di collegamento tra un passato di serie B e un futuro radioso


Le basi delle prime due stagioni di Twin Peaks sono le stesse da cui le serie successive hanno avuto la capacità di distaccarsi. Per questo l’opera di Lynch è spesso catalogata sotto molti generi, dalla commedia all’horror, dal dramma al grottesco, per arrivare alla telenovela. Era un’altra televisione, un altro intrattenimento. E allora i creatori non mancarono di aggiungere gli elementi del giallo classico, gli intrecci amorosi e i rapporti di potere oltre la novità del sovrannaturale. Ed è proprio questa complessità a rappresentare il più grande punto interrogativo in attesa della terza stagione. Perché la televisione ha fatto passi da gigante in questi ventisei anni e Lynch si trova ora nella difficile posizione di mediatore tra una brusca attualizzazione delle modalità della sua creatura e l’improponibile riproposizione delle medesime dinamiche del ’91, che all’epoca avevano fatto la fortuna della serie, ne erano state il tratto distintivo. Ci saranno caratteri da trasportare e altri da abbandonare, ci sarà da rivoluzionare un format passato senza scontentare i fan storici della serie cult per eccellenza.


E oltre a tutto ciò, Lynch sarà anche chiamato a dare una risposta agli infiniti quesiti lasciati in sospeso con la conclusione affrettata della seconda stagione, per arrivare finalmente a fare luce sulla natura delle logge, sulla modalità delle possessioni e forse anche sulla sua visione del mondo. O forse no. Forse non è questo che vogliamo, forse è proprio il mistero alimentato in questi ventisei anni ad aver innalzato ulteriormente la serie da capolavoro ad essere mitologico della televisione. Forse qualcosa sarà svelato, ma tra altri ventisei anni parleremo ancora di ciò che il maestro non ci avrà detto, di quello che avrà tenuto per sé, anche nell’ultimo tassello di un puzzle irripetibile.
Twin Peaks, here we go again!




Approfitto dell’occasione per ricordarvi che da martedì 23 inizia la serie di commenti di Twin Peaks episodio per episodio, cercando di analizzare insieme i simboli in cui ci imbatteremo, tentando di arrivare alla conclusione di tutto prima dello stesso Lynch. Per approfondire il mito, in acque profonde.

martedì 16 maggio 2017

KING ARTHUR E IL MESE DELLE DELUSIONI

Guy Ritchie ci riprova senza successo. Il suo stile personale fatto di montaggio frenetico, rallenty e musiche tendenti al mondo celtico stavolta non è riuscito propiziare il ritorno di un mostro sacro della letteratura anglofona. Le premesse di una sequenza d’apertura meravigliosa vengono disattese da una scrittura infantile e da una narrazione che non tiene conto degli spazi che lo stile eclettico del regista richiede.


La trama di “King Arthur - il potere della spada” non spicca certamente per originalità e vorrebbe imporsi al grande pubblico proprio cavalcando le modalità dell’autore inglese, ossia sovrapponendo diversi piani temporali per produrre una storia semplice, ma complessa. Il problema è che, a differenza dei due Sherlock Holmes, King Arthur non rispetta i requisiti necessari di unità d’azione e di tempo che lo stile di Ritchie richiede per non sembrare sopra le righe, ma solo normalmente sfrontato. Uno sviluppo della trama, diluito nel corso di un tempo della storia decisamente maggiore, costringe l’autore di “Snatch” a ricorrere ad una sere di topoi della sua produzione in più occasioni, talvolta riuscendo ad intrattenere magnificamente, talvolta risultando fuori luogo. La sequenza in cui Art cresce nei bassifondi di Londinum è un perfetto esempio della prima situazione, quella dell’addestramento disumano per padroneggiare Excalibur lo è in senso opposto.


Altro enorme problema del film è la giustificazione degli eventi e delle scelte del protagonista, le quali sono spesso il frutto di una maturazione avvenuta in appena due minuti di montaggio frenetico. La scelta di proporre un Artù alternativo, cresciuto nei bassifondi e abituato a comportarsi da capobanda di una cricca di delinquenti, da una parte ha dato una nuova caratterizzazione ad una figura letterario lontana dal nostro gusto odierno, dall’altra ha però rese necessarie nuove motivazioni che muovessero le azioni dell’erede al trono. Queste motivazioni vengono fornite in maniera del tutto innaturale, spinte da un gruppo di rivoluzionari anonimi e mal introdotti nella narrazione. Emblematica per la pochezza delle giustificazioni del caso è la scena dell’incontro tra Art e la dama del lago, che lo spinge a tornare per l’ennesima volta sui suoi passi e ad accettare il compito che il fato sembra avere in serbo per lui.


I personaggi secondari inoltre - ad eccezione del villain interpretato da Jude Law - appaiono piatti e il film, che in partenza sembra voler dare uno spazio maggiore ai compagni del protagonista e agli oppositori della corona, si riduce ad essere un’opera Artucentrica, in cui ogni personaggio agisce in funzione del protagonista e non sembra avere una dimensione ulteriore in grado di risaltare al di sopra di una trama banale e scontata, indirizzata fin dal primo secondo allo scontro finale. Ad essere problematico però è anche lo scontro finale, come la maggior parte dei duelli che riempiono il film a partire dal momento in cui Art riesce a dominare il potere di Excalibur. Da quel momento in poi, l’opera di Ritchie sembra virare volontariamente verso un gusto videoludico piuttosto che cinematografico, esaltato dai rallenty, dalla computergrafica e dalla fotografica che si scurisce nelle scene di lotta. Quando gli occhi del protagonista diventano azzurri, il linguaggio cinematografico, la costruzione dell’immagine lasciano il posto ad un combattimento da action arena.


“King Arthur - il potere della spada” potrebbe anche piacere a chi non è in cerca della logica ferrea, a chi si accontenta di vedere trasposto sullo schermo un videogioco a tratti esilarante. Ma quando il regista di “Lock and Stock”, di “Rock’n’rolla”, di “Sherlock Holmes” e soprattutto di “Snatch” si limita ad un lavoro quasi passabile non posso che dissentire dagli esiti. Un lavoro di Ritchie privo della vena istrionica, della verve, della violenza e dell’intelligenza di Ritchie non può considerarsi un’opera riuscita.


Il flop di Guy Ritchie non è l’unico film in uscita questo maggio ad avermi lasciato con l’amaro in bocca all’uscita della sala. Anche “Alien: Covenant” diretto dal maestro Ridley Scott non era riuscito a risollevare le sorti della nuova tetralogia sugli xenomorfi. Un mese dunque ricco di aspettative disattese e povero di emozioni sorprendenti. Un mese che potrebbe chiudersi con un ulteriore colpo al cuore nel caso in cui il vecchio Jack Sparrow non riesca a rimettersi in sesto a dovere nella fuga contro l’ottimo Salazar.
Qual è il comune denominatore di King Arthur e di Alien? Credo che la lente d’ingrandimento vada posta sul rapporto tra queste grandi produzioni popolari e il pubblico stesso, che spinge sempre più verso una logica spicciola, traina verso il basso il collettivo e si appaga di un gusto poco cinematografico, più vicino alla serializzazione televisiva almalgamata con il mondo videoludico. In entrambi i casi, forme lontane dalle possibilità di un’espressione artistica, che producono un immediato appagamento, il quale però non si traduce in un’emozione duratura, ma termina nell’attimo della visione. Il tutto guidato dalla logica dell’approvazione popolare, che può arrivare attraverso i ricavi, ma che funziona benissimo come deterrente per future produzioni legate al brand.
Blade Runner”, dello stesso Ridley Scott aveva prodotto appena cinque milioni di dollari di utile. “Donnie Darko” fu bollato come fantascienza di serie b, intricata e mal realizzata. I critici stroncarono “Fight Club” di Fincher, prima che il pubblico si rendesse conto della portata rivoluzionaria dell’opera. “Il grande Lebowski” fu ritenuto vuoto e insensato. “Quarto potere” fu un flop clamoroso alla sua uscita nelle sale americane. E potrei proseguire ad oltranza.



Il cinema è idea su schermo, immagine in movimento che cerca di rendere comunicabile la fantasia dell’autore. E un prodotto nato per soddisfare altri, incastrato in una forma mutilata, sta perdendo lentamente il senso della settima arte. Ciò che conta è l’idea che sta alla base e il gusto con la quale viene resa sullo schermo. Tutto il resto fa volume.

venerdì 12 maggio 2017

E ALLA FINE ARRIVA ALIEN: COVENANT

Cosa sarebbe dovuto essere “Alien: Covenant”?
Prometheus” aveva lasciato i fan più accaniti con l’amaro in bocca per non aver rispettato le premesse del ritorno del maestro Scott alla regia. Il film del 2012 era stato una grande sorpresa, sia in positivo che in negativo. Un ottimo ma imperfetto film di fantascienza spaziale che non rispettava i cardini della saga di Alien. Con il primo prequel, Ridley Scott aveva cercato di ampliare lo spettro di competenza di un brand realmente limitato in termini di sviluppo narrativo, riuscendoci solo in parte.
“Alien: Covenant” si propone come continuatore della narrazione intrapresa con il suo prequel, ma al contempo come reale predecessore delle avventure del primo film del 1979; un film di Alien insomma, quindi caratterizzato dai classici cliché della saga degli xenomorfi, con un’attenzione particolare allo sviluppo delle vicende.


La storia riprende undici anni dopo la partenza di Elizabeth Shaw e David dalla luna LV-233, teatro delle vicende di “Prometheus”. Stavolta i protagonisti del terrore spaziale sono i membri dell’equipaggio della nave Covenant, che, mentre viaggiano verso Origae-6 al fine di colonizzarlo, si imbattono in una richiesta d’aiuto proveniente da un pianeta vicino. L’equipaggio sceglie di atterrare sul posto per verificare l’origine del segnale, ma qualcosa ha intaccato l’ecosistema del pianeta, sterminando la popolazione autoctona. Tornare sulla nave sarà un’impresa ardua.
Come il più classico degli Alien della quadrilogia originale, anche “Covenant” si costruisce su un crescendo di azione e suspance, incentrato sulla presenza dapprima minima, poi sempre più massiccia degli xenomorfi, che ridurranno immancabilmente il numero dei membri dell’equipaggio. E se la scelta di tornare alla struttura tipica dei film della saga, dopo la parentesi “Prometheus”, potrebbe portare i fan a gioire ancor prima di entrare in sala, “Alien: Covenant” non si cura minimamente di nascondere i suoi enormi difetti. L’esperienza del nuovo film di Scott è segnata infatti da enormi problemi che minano pesantemente la sua riuscita. Primo fra tutti il ritmo: lento, scialbo, altalenante, incapace di ricreare i climax di “Alien” e “Aliens”. Nella prima ora di film - escluso un interessante prologo che collega “Covenant” al suo prequel - Scott non mostra altro che la vita all’intero della nave spaziale, senza però riuscire a dare una caratterizzazione interessante ai vari membri del’equipaggio, che si limitano a intrattenere rapporti statici e stereotipati, senza che la trama decolli. E questa pesantezza ingiustificata delle prima metà del film si fa sentire eccome in sala, spegnendo in poco tempo l’interesse verso l’intero progetto.


Altro enorme problema del film è, come già accennato, la caratterizzazione dei personaggi dell’equipaggio, i quali si presentano, probabilmente al pari dei protagonisti di “Alien - la clonazione”, come i meno interessanti dell’intero franchise. Non riescono a raggiungere un livello accettabile e si stabilizzano su un modello stereotipato, improponibile per il 2017, per un film costato oltre 100 milioni di dollari. Inoltre non subiscono alcuno sviluppo, nonostante la pellicola si apra con la tragica scomparsa del comandante - evento traumatico che, in teoria, avrebbe dovuto smuovere le coscienze di parte dell’equipaggio verso una nuova consapevolezza. I protagonisti della prima scena, sono gli stessi del sessantesimo minuti, che sono gli stessi dell’ultima scena, almeno per quelli che restano in vita, perché la maggior parte di loro finisce per essere solamente carne da macello nella minestra splatter-horror. E questa caratterizzazione fallace non aiuta lo sviluppo piatto e prevedibile di una storia già vista, narrata con sciatteria, che ritrova solo nei riferimenti a “Prometheus” in suo senso d’esistere. Una narrazione che si muove grazie a forzature, eventi improponibili e scelte dei protagonisti totalmente campate in aria, per poi culminare in un finale scontato, antiadrenalinico.
Il collegamento diretto con “Prometheus”, ventilato ma non confermato prima dell’uscita del film, funge da motore dell’opera, soprattutto per quanto riguarda un determinato personaggio chiave, ma è proprio questa stessa scelta di sceneggiatura a rendere vana l’attesa degli sviluppi del viaggio di Elizabeth Shaw, la cui storia alla ricerca dell’origine della vita viene interrotta sul nascere e gettata nel cestino dell’indifferenziata. Un film, “Covenant”, che avrebbe dovuto risollevare il prequel per esaltare il sequel, ma che termina il prequel per affossare i sequel.


Cosa è realmente “Alien: Covenant”?
Scott non è rimasto indifferente in questi ultimi cinque anni alle critiche ricevute per l’esperimento di “Prometheus” e il peso della necessita di riportare un progetto sulle sue orme originali si fa sentire eccome. L’autore storico della saga ha voluto proseguire la sua esperienza innovativa, mescolandola al contempo con i cardini del mostro sacro. Il risultato è un’opera mezzana che viene ridimensionata in modo impensabile dalla sua stessa duplicità d’intenti. Non è un seguito soddisfacente di “Prometheus”, non è un Alien. Scott ha tentato di mantenere un registro alto, maturo nella realizzazione di un film che aveva bisogno di un’altra atmosfera e di un’altra regia per avere una possibilità di riuscita, sulla base di una sceneggiatura a tratti imbarazzante. Coesistono quindi i campi larghi e le vallate del film del 2012 con la fotografia, la luce e i cunicoli - presenti quasi unicamente nelle scene finali a bordo della nave madre - della prima quadrilogia. Coesistono senza il minimo senso del gusto, senza la reale necessità della pellicola che questi due mondi si incontrassero.
Ideologicamente vale quanto detto per la realizzazione tecnica: Scott amplia ulteriormente la sua visione, toccando temi religiosi, filosofici, antropologici, ma fermandosi sempre prima di raggiungere un grado di approfondimento interessante, al largo dei bastioni di Orione, limitato della sua stessa creatura, lo xenomorfo, che richiede tutt’altro trattamento per essere valorizzato all’intero di una pellicola.


“Alien: Covenant” è un film realizzato con una certa cura tecnica, una certa fotografia. È un’opera che lascia intendere l’amore che il suo autore prova per la saga di cui fa parte e per il mondo della fantascienza in generale. È una pellicola ricca di riferimenti al brand: richiami visivi e citazioni nello svolgimento dell’azione. MA “Alien: Covenant” non è un film riuscito, tutt’altro. Fallisce nei suoi intenti e crolla sotto i colpi delle aspettative che quel titolo genera. Non è ciò che aspettavamo e non è ciò che avevamo messo in preventivo dopo “Prometheus”; è molto meno. Scivola lentamente verso l’oblio e non dimostra meriti particolari per essere ricordato. Un’enorme delusione.
 
L'unica nota lieta


Quest’analisi arriva a coronamento di un percorso che ci ha portato cronologicamente dal 1979 ad oggi, ripercorrendo la storia e lo sviluppo di una saga storica del cinema. Sei ha apprezzato questa recensione potrebbero piacerti anche:


mercoledì 10 maggio 2017

ASPETTANDO COVENANT: PROMETHEUS

Ampliare la mitologia, la lore di una serie cult era sulla carta un’operazione complessa. Il primo Alien, a differenza dei suoi seguiti, aveva in se la carica creativa per poter sostenere un’evoluzione del prodotto, non solo in termini di action copia e incolla. Ma lo sviluppo circolare, rispetto a quello lineare, presenta certamente molte più insidie e spesso tende a virare verso l’assurdo, se realizzato con poca cognizione di causa. Su queste basi, Lindelof e Spaihts, in collaborazione con Ridley Scott, hanno cercato di dare credibilità ad una storia che potesse fungere da giustificazione per alcuni elementi insoluti del primo film della quadrilogia, diretto nel 1979 dallo stesso Scott.


Quest’operazione è andata però a scavare troppo a fondo nella costruzione di una storia plausibile, generando un prodotto a tratti magniloquente e presuntuoso, che non si limita allo scioglimento di alcuni nodi centrali nella mitologia di Alien, ma rincara la dose, andando a coinvolgere i temi cardini della ricerca infinita umana: fede, scienza, evoluzione. E il risultato è un film che deraglia troppo spesso dalle aspettative dei fan più accaniti per approfondire un tema specifico, magari eccessivamente lontano dallo spirito e dalle esigenze che un “prequel” di Alien necessitava. Ma è la parola “prequel” a riportarci alla considerazione di fondo sugli intenti di quest’opera: l’obiettivo di Scott era andare a rinfoltire i presupposti di uno sviluppo nel mentre dello sciorinamento di altri dubbi decennali. E in questo senso la pellicola ha perfettamente centrato il bersaglio, garantendo nuova linfa alle produzioni future che avranno il coraggio di trattare il mostro sacro dello xenomorfo. La presunzione di fondo però resta, e non basta una direzione ben delineata nel finale dell’opera a giustificare una serie di forzature non indifferente. Proprio in queste forzature, al di là della mancanza degli alien, si celano le critiche più pesanti rivolte dai fan storici della saga all’opera di Scott. Spesso i presupposti che guidano le azioni dei personaggi sono campati in aria e le loro interazioni non riescono a restituire la grandezza che i campi lunghi e lunghissimi dell’abile mano di Scott vorrebbero infondere nell’opera. Alcuni buchi di trama minano l’efficacia della narrazione, pur senza alterarne il perfetto ritmo. In particolar modo il personaggio di David, androide interpretato magistralmente da Michael Fassbender, riassume alla perfezione questi due aspetti della pellicola. Da una parte lascia godere lo spettatore per il doppio gioco che intrattiene fin dall’inizio con i protagonisti ignari, dall’altra è l’espediente narrativo che porta avanti la trama in una maniera poco credibile, come volesse agire da costante deus ex machina. In particolare, il momento centrale in cui somministra il liquido nero al dottor Holloway, che sarà poi l’inizio di una serie di sfortunati eventi (totalmente casuali e imprevisti) che porterà alla nascita del primo alien, non ha una base logica così solida da giustificare ciò che ne consegue.


La casualità di alcune situazioni è uno dei punti deboli più evidenti della pellicola, che tenta di arrampicarsi sugli specchi di fronte ad una ricostruzione che non regge: gli originali, o gli “Ingegneri”, sono una razza superiore in grado si spostarsi a piacimento per l’universo ben prima della comparsa dell’uomo sulla Terra. Questa civiltà, in uno slancio di onnipotenza, crea artificialmente un siero nero in grado di mutare istantaneamente la vita biologica; tale siero ha un effetto mortifico sugli stessi creatori. Un Ingegnere viene scelto per sacrificarsi e generare la vita sulla Terra mediante l’assunzione del siero. Nasce l’uomo, dotato dello stesso DNA degli Ingegneri, e fin dalle sue prime aggregazioni primitive si spende per lasciare una testimonianza della presenza e dell’opera di civilizzazione degli Ingegneri, testimonianza che poi sarà la chiave per l’approvazione della missione Prometheus. Gli originali intanto perfezionano lo sviluppo dell’arma biologica, ma nel farlo la situazione gli sfugge di mano e alcune colonie, adibite appositamente alla ricerca sul siero, vengono sterminate dalle creature mutate attraverso lo stesso materiale. Una volta decifrate le scritture poi gli uomini individuano il pianeta indicato e lo raggiungono, con lo scopo di rispondere ad alcuni quesiti esistenziali. Un androide, costruito per regolare la situazione per conto di un magnate, sperimenta il siero ritrovato in una cripta su un uomo, il quale ha un rapporto sessuale con una donna sterile prima di manifestare i sintomi del disgregamento cellulare che lo porterà alla morte. Cresce nella donna sterile il feto di una piovra, che lei prontamente rimuove a poche ore dal “concepimento”. Il feto alieno abortito però continua a crescere e attacca un Ingegnere verso la fine del film, comportandosi proprio come un facehugger gigante. Questa catena di eventi porta alla fuoriuscita dall’addome dell’Ingegnere di uno xenomorfo primordiale.


Una serie di forzature che lascia aperte due questioni: lo scopo della creazione della vita sulla Terra e l’immagine dell’alien nella cripta. Perché gli Ingegneri hanno creato la vita sulla terra? Perché il siero ha effetti così differenti a seconda dell’essere con cui entra in contatto e perché tali differenze riescono casualmente a portare la pellicola al punto focale della questione? Perché sono tornati sulla Terra a civilizzare l’uomo delle caverne? Perché, dall’altezza delle loro possibilità tecnologiche, hanno lasciato che fosse l’uomo a trovare il pianeta su cui si svolgono gli eventi e anziché prelevare semplicemente gli uomini necessari ai loro esperimenti? Questa serie di domande potrebbe minare, a mio parere, l’intaccabilità delle basi di “Prometheus”. Una volta entrati nella cripta degli Ingegneri inoltre, gli umani attraversano diversi tunnel, contraddistinti da vari simboli legati alla civiltà degli Ingegneri, tra i quali spicca una statua raffigurante uno xenomorfo. L’alien prodotto alla fine del film non è quindi il primo, ma probabilmente lo scopo ultimo della sperimentazione degli originali. Alla luce di ciò, la trama di “Prometheus” perde ulteriore fascino se letta nella continuity della saga.


Al di là dei punti a sfavore della pellicola di Scott, “Prometheus” resta però un grandissimo film di fantascienza, con i suoi pregi e i suoi difetti, sì, ma che è in grado di trasmettere la grandezza del suo autore attraverso una regia sempre ordinata, una fotografia mozzafiato e una gestione dei tempi perfetta. Molti buchi di trama scivolano via alla prima visione ed emergono solo ad una successiva, perché nell’atto si è troppo impegnati ad ammirare la maestosità di un progetto unico, non esente da colpe minori, ma che ha come grande punto a sfavore l’obbligo di accontentare una schiera di fan insaziabili. I piccoli riferimenti non bastano a placare le ire di chi pretendeva un prequel dotato dello stesso spirito, ma è innegabile che questa pellicola sia un ottimo film d’intrattenimento.



Questa era solamente una visione parziale di un’opera complessa, che avrebbe bisogno di molte più parole per trovare giustizia. Ho cercato di limitare la mia analisi in funzione dell’imminente uscita di “Alien: Covenat” la cui recensione, prevista per venerdì, chiuderà ahimè la rubrica “Aspettando Covenant”, che ci accompagnava ormai da diverse settimane. Se avete apprezzato l’analisi di “Prometheus” vi invito a recuperare anche quelle dei precedenti capitoli della saga.
Covenant saprà riportare in auge un brand solido che potrebbe aver già raggiunto il suo apice con la quadrilogia originale? Riuscirà a soddisfare i palati più fini? Scopriamolo insieme venerdì.

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lunedì 8 maggio 2017

BACKTRACK - TRENI E FANTASMI

Sulla scia di un genere horror d’impianto thriller improntato sui jumpscare poco inaspettati, il film del 2015, diretto da Michael Petroni e inedito in Italia fino a poche settimane fa, tenta di proporre una narrazione classica ma avvincente, che strizza l’occhio ai romanzi di King e all’esperienza videoludica di Alan Wake.


Le lacune a livello di budget risultano evidenti eccome in un film che punta eccessivamente sull’utilizzo di una computer grafica ormai obsoleta e che mal si amalgama col resto della scenografia, ma la presenza di un attore del calibro di Adrien Brody salva in parte l’immagine di una pellicola decisamente minore. Il pianista del capolavoro di Polanski riesce infatti a calamitare su di sé tutte le attenzioni, pur non spiccando come in altri ruoli, complice anche una caratterizzazione claudicante del personaggio, specialmente in relazione al passato recente e al rapporto con la moglie. Per certi versi abbozzata, la figura dello psicologo frastagliato tiene però in piedi due filoni narrativi legati ai traumi del protagonista che aprono le porte ad una trama non originale, ma decisamente coinvolgente: uno psicologo vive una profonda crisi dopo l’accidentale scomparsa della figlia e sceglie di rifugiarsi nel lavoro, quando scopre che tra i suoi pazienti si nascondono gli spiriti di alcune persone scomparse anni prima in circostanze misteriose.


I punti di forza di una pellicola così basica sono essenzialmente due: l’atmosfera claustrofobica in spazi aperti che si respira nelle vie della più classica città del Maine e l’intreccio che, a dispetto delle aspettative nei confronti di un horror senza pretese, stupisce per la gestione intelligente di una crisi di memoria. L’intera pellicola si fonda su un singolo momento vissuto e rivissuto dal protagonista nel dramma della rimozione traumatica, alla ricerca della verità e dell’espiazione.


Questo potrebbe però non bastare a salvare l’intero progetto, segnato sciaguratamente da decine di errori minori e da una sceneggiatura che non tiene conto dei dettagli e dei personaggi secodari. Sembra infatti mancare una tridimensionalità dei fondali di False Creek e dei suoi abitanti, che non riescono mai davvero a sembrare calati nella loro quotidiana dimensione e restano quindi appesi ad una trama per loro inconcludente sul finire dell’opera. A questi fastidiosi difetti si aggiunge la scelta infelice di trasformare un buon thriller in un horror innaturale, forzato, quasi che le scene classiche degli spettri che terrorizzano protagonista e spettatori fossero state aggiunte solo successivamente, a lavoro di girato terminato e non all'altezza delle aspettative della produzione. Non colpiscono come dovrebbero e talvolta infastidiscono per l’estraneità dalla narrazione. Un Backtrack senza aggiunte horror e con un’attenzione maggiore al realismo della caratterizzazione dei personaggi secondari sarebbe potuto diventare un piccolo cult di serie C, ma così non è stato. Resta un film godibile, un intrattenimento inaspettatamente riuscito, nel suo piccolo coerente con le premesse. Una pellicola consigliata per passare una serata si sana suspance, senza pretese eccessive e con la voglia di arrivare in fondo ad un caso dall’impianto giallo.

Backtrack è in programmazione su Sky Cinema e, se disponete del servizio, potete trovarlo anche su ondemand. Buona visione tensione.

mercoledì 3 maggio 2017

ASPETTANDO COVENANT: ALIEN VS PREDATOR

Alien contro Predator, o lucrare sopra i due massimi sistemi del cinema. La scelta di affidare la regia di un film sulla carta confuso ad un mestierante famoso per aver trasposto malamente sullo schermo un paio di videogiochi di successo è stata quantomeno azzardata. Se le premesse lasciavano intendere la possibilità che tutto il progetto sfociasse nel trash più puro, la presenza di Paul W. S. Anderson non ha fatto altro che rendere i timori innegabili certezze.


I film “versus” si fondano sull’immediatezza, sulla fantasia del pubblico più giovane che vorrebbe spesso vedere i grandi colossi del cinema scontrarsi in battaglie epiche. Questa necessità discutibile si trascina probabilmente dall’infanzia, quando tentavamo di riprodurre lotte epocali con diversi giocattoli: Winnie the Pooh vs Optimus Prime, Rex di Toy Story vs Topo Gigio. Tanta voglia di fantasia e nessuna pretesa di plausibilità. Il tempo delle mele, ahimè, è però passato, e se resta divertente perdersi ogni tanto nell’esagerazione degli effetti speciali, lo stesso non si può dire quando a peccare è la base di un film, la sceneggiatura.


“Alien vs Predator” si pone arrogantemente come crossover tra due saghe storiche del cinema d’intrattenimento, senza però spendersi per rendere l’incontro dei due mostri (sacri) una possibilità credibile. Ciò contribuisce alla prima mezz’ora di noia assoluta in cui viene imbastita una trama banale, scontata e soprattutto fuori dal tempo per quanto riguarda le cronologie delle due saghe, prese singolarmente. Un’inutile quanto abusato cliché del mostro che si risveglia tra i ghiacci e dei personaggi umani piatti e insulsi, utili alla sola costruzione di queste basi pericolanti. Una volta raggiunto il momento dell’incontro dei due mostri poi, la trama viene decisamente accantonata per lasciare spazio all’action nudo e crudo, senza fronzoli, senza motivi, senza senso insomma. E a questo punto torna il problema del regista, dimostratosi incapace di dare all’opera un sentore anche minimo della grandezza della saghe da cui nasce questo crossover. Anderson è stato colpevole di aver ridotto la portata del fenomeno attraverso scelte di regia che penalizzano una pellicola dal grande budget, relegandola a prodotto di serie b, segnato da gravi problemi tecnici. Eppure, nascendo come autore di blockbuster tratti da videogiochi (Mortal Kombat, Resident Evil), Anderson avrebbe dovuto sguazzare nell’action più vuoto, con una vena spinta di trash, ma così non è stato e l’amore che il regista probabilmente prova per l’impianto videoludico ha condotto l’intera baracca ad avvicinarsi sempre più ad un’impostazione e ad una messa in scena proprie del mondo a 64 bit.


Questa tendenza esplicita del film non sarebbe un problema insormontabile se si trattasse di un prodotto dell’Asylum, se fosse una copia non licenziata dello xenomorfo di Ridley Scott, ma l’atteggiamento da opera di serie b che trasuda fin dal primo frame di “Alien vs Predator” è insostenibile alla luce della grandezza dei padri. E una produzione del genere, che vede tra i suoi produttori anche Walter Hill, che può vantare lo storico Dan O’Bannon tra gli autori del soggetto, doveva essere corretta o cancellata in partenza, per non infangare il buon nome dei registi, degli sceneggiatori e di tutti i tecnici che hanno preso parte alla quadrilogia originale.
Fondamentalmente, il grande problema di “Alien vs Predator” è che mai sarebbe dovuto essere concepito un abominio di queste dimensioni; ma la distanza dalla saga originale di cui ci siamo occupati in attesa dell’uscita di “Covenant” contribuisce fortunatamente a relegare questo errore cinematografico nel cassetto della memoria volatile, quella che non passa alla storia. Un neo su un percorso quasi netto, che ha saputo risollevarsi con “Prometheus” e che promette di tornare ai vecchi fasti con l’imminente uscita di “Alien: Covenant”.


Ah sì, il protagonista maschile è Raoul Bova, che si ridoppia nella versione italiana. Potevo dire anche solo questo per stroncare il film. Mi sarei risparmiato inutili discorsi.

Alla prossima settimana con l’ultimo appuntamento della rubrica “Aspettando Covenant”. Mercoledì sarà la volta del ritorno il grande stile del padre della saga originale, Ridley Scott, col suo discusso e complesso “Prometheus”.

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