martedì 31 marzo 2015

1992 - Episodi 1 e 2

Dopo aver visto i primi due episodi della serie 1992 in onda su Sky ho pensato di aprire questa nuova rubrica, con cadenza settimanale, nella quale analizzo il prosieguo della narrazione e lo sviluppo dei protagonisti. Ovviamente non mi prendo responsabilità per eventuali spoiler necessari per analizzare al meglio la serie, quindi la lettura di questi articoli è consigliata principalmente a coloro che hanno già visto gli episodi in questione. Oltre un’analisi delle singole puntate ho pensato di cogliere l’occasione per presentare il prodotto e farne un’analisi qualitativa. Scusate la lunghezza. Cominciamo…



Sky colpisce ancora nel segno con 1992, la nuova serie evento in esclusiva su Sky Atlantic nata da un’idea di Stefano Accorsi. Dopo “Romanzo Criminale - la Serie” e “Gomorra -la Serie” l’emittente satellitare torna a produrre un serial televisivo di alto livello. Il fatto che i primi due episodi siano stati trasmessi in prima tv in contemporanea in vari altri paesi europei denota le alte aspettative riposte nella serie che possiamo definire “di punta” per Murdoch e soci.


Gli argomenti trattati sono ormai noti a tutti. Quattro soli numeri riportano alla mente di tutti gli Italiani quell’inizio. L’arresto per corruzione del senatore Mario Chiesa, il 17 Febbraio dell’anno fulcro della serie, apre la famosa stagione di Mani Pulite. Un vero e proprio terremoto che scuoterà le fondamenta di un sistema politico-economico ben collaudato e porterà alla luce il marcio che si cela sotto. Allo stesso modo comincia anche “1992”: un giovane ufficiale della polizia giudiziaria, Luca Pastore, interpretato da Domenico Diele, scopre il senatore del PSI intento a gettare nel water alcune banconote segnate dal pool di Antonio Di Pietro (esageratamente eroico in questi primi episodi) e il vaso di Pandora è scoperchiato. Ci sono tutti: il sopracitato Chiesa, Craxi, Dell’Utri nominato a più riprese, Silvio che con una battuta (“Pulisci sempre l’asse, mi raccomando, altrimenti chi viene dopo pensa che sia stato tu a sporcare”) riesce a riassumere lo spirito del sistema di cui è uno dei pilastri, Bossi e molti altri.


Gli sceneggiatori, tra cui lo stesso Freccia, optano però per una scelta diversa dal solito: decidono di narrare le vicende di tangentopoli attraverso le vicissitudini di sei personaggi di fantasia, forse in cerca d’autore, che intrecciano le loro strorie personali con l’inchiesta in maniera indissolubile. Fin dall’inizio ci vengono quindi presentati gli ufficiali giudiziari Pastore e Venturi (Dandi), entrambi impegnati con Di Pietro alla ricerca di prove contro i politici e gli imprenditori coinvolti in Tangentopoli ed entrambi spinti da uno spirito di vendetta, su cui aleggia un velo di mistero, e per cui sono disposti a tutto pur di incastrare determinati personaggi pubblici. Si passa poi alla presentazione del personaggio più ambiguo della serie finora, ossia Leonardo Notte, interpretato da Accorsi, che, in veste di dipendente dell’ormai celebre Publitalia ’80, viene spinto ad intrattenere rapporti di lavoro con Dell’Utri e con la Fininvest. Notte risulta cinico e deciso nel suo lavoro e con le donne, ma non sembra mai convinto del suo operato quando si tratta di lavorare a braccetto con la politica, tanto che nel secondo episodio abbandona stizzito una convention a Roma organizzata dalle lobby politiche per discutere delle elezioni imminenti. Egli intrattiene anche rapporti occasionali con un’altra protagonista: Veronica Castello, interpretata da una più che mai convincente Miss Miriam Leone. Questa rappresenta una generazione di avvenenti ragazze entrata nel mondo dello spettacolo attraverso le conoscenze giuste. In questo caso specifico la Leone interpreta l’amante di Mainaghi, potente industriale milanese, invischiato fino al collo nell’inchiesta. La ragazza riesce quindi ad ottenere una parte da protagonista a “Domenica In” poco prima che il sopracitato imprenditore venga incastrato da un’abile mossa fuorilegge di Pastore. Questo porta la Castello ad affrontare il suo nuovo futuro, prima radioso, senza le spalle coperte. Altri due protagonisti degni di nota sono Bosco, ex militare interpretato da un irriconoscibile Manara, che per una serie di coincidenze diviene deputato per la Lega e Bibi Mainaghi, figlia dell’imprenditore, che finora ha avuto un ruolo marginale. Il grande merito di questi personaggi è la naturale umanità con cui reagiscono agli eventi. Chiunque di noi potrebbe immedesimarsi in queste figure più ombre che luci.


La scelta è quindi quella di rendere il ’92, Tangentopoli, lo sfondo di queste vicende che si intrecciano; uno sfondo mobile però, perché in soli due episodi la storia ingrana e la narrazione scorre piacevolmente senza che lo spettatore avverta lo stacco tra realtà e finzione.
Dopo due puntate, della durata di cinquanta minuti ciascuna, è già possibile tirare le somme relative al comparto tecnico della serie: la regia è curata ma a tratti ripetitiva, soprattutto nelle riprese sfocate, fotografia iperrealistica e moderna che funziona ma allontana l’ambientazione proposta da quella anni ’90 a cui il serial dovrebbe rifarsi, le prove attoriali sono discrete, con pochi alti e qualche basso di troppo per una serie Sky (il Freddo ci aveva abituati meglio). Il grande problema di questo prodotto è l’audio, decisamente sotto le aspettative: alcuni dialoghi risultano incomprensibili e necessitano di due, tre ascolti e alcune battute sono state ridoppiate successivamente creando un fastidioso effetto ventriloquo. Spero i fonici si riprendano nel corso delle prossime puntate.



In sostanza prodotto medio-alto che sottolinea, se ancora ce ne fosse bisogno, che la qualità nostrana respira ancora sepolta sotto chilometri di fiction. Se come me non avete vissuto in prima persona questo tragico momento storico per il nostro paese è bene che recuperiate i primi episodi e vi mettiate al passo con la serie, se invece non siete più giovincelli e volete avere una nuova versione dei fatti, raccontata da un punto di vista diverso, questo potrebbe essere il prodotto che fa per voi. Intrattiene fornendo contenuti. Quando tutto cambiò per tornare ad essere come prima. Si scrive 1992, si legge 2015.

I HOPE

La giustizia non è divina, almeno non quella che regola la nostra società. A volte, per una serie di coincidenze al limite del credibile, vengono incarcerate persone innocenti e spesso vengono trattenute per anni prima che le loro volatili parole siano seriamente prese in considerazione e il caso venga riaperto. Alcune esempi illustri sono il pugile Hurricane Carter, accusato di triplice omicidio, condannato a due ergastoli e scarcerato solamente diciannove anni dopo, o Gerry Conlon, arrestato nel ’74 con l’accusa di attentato ad un pub inglese e rilasciato quindici anni più tardi con annessa lettera di scuse di Tony Blair, allora Premier britannico.


Ma cosa succederebbe se un uomo notoriamente rispettabile, un direttore di banca, venisse ritenuto ingiustamente colpevole di aver ucciso la moglie e l’amante di questa? E se venisse mandato in un carcere di massima sicurezza, tra i più violenti e duri al mondo? Questa è la storia de “Le Ali della Libertà”, titolo originale “The Shawshank Redemption”. Il film in questione è la trasposizione cinematografica del racconto “Rita Hayworth e la Redenzione di Shawshank” di Stephen King, contenuto nella meravigliosa raccolta “Stagioni diverse”. Un must per ogni amante del maestro della suspance, forse la sua migliore opera. La pellicola del ’94, diretta da Daranbont, vede protagonista Tim Robbins che, accusato ingiustamente di doppio omicidio, viene rinchiuso nel penitenziario di Shawshank dove stringe un legame molto profondo con Morgan Red Freeman e si trova a fare i conti con stupri, guardie violente e direttori tirannici. Film perfetto: riprende ogni evento chiave del racconto originale e lo riadatta in un’atmosfera più poetica, profonda. I protagonisti ripentono spesso che a Shawshank “sono tutti innocenti ”, e dopo poco ci si convince di ciò. I detenuti hanno sicuramente (o quasi, in questo caso) commesso un grave crimine, ma nel penitenziario più duro al mondo sono le vittime, vittime di loro stessi, del sistema, delle guardie, dell’”istituzionalizzazione”, del tempo, della vita. Il regista mostra, con una maestria incredibile, tutte le debolezze, le paure di chi ha perso tutto e tutti, di chi non ha più un domani.


L’empatia con i protagonisti è notevole fin dalle prime battute e cresce con il prosieguo della storia attraverso frasi profonde e veritiere riprese del racconto e scene indimenticabili come quelle legate a Brooks (critica perfettamente riuscita al sistema penitenziario americano), quella lirica del grammofono, la birra sul tetto e la scena finale. Appunto, il finale. A volte alcuni film racchiudono tutta la loro poesia, il loro significato più profondo nella scena finale. È il caso di questo capolavoro. Dagli ultimi venti minuti della pellicola si evince che il tema centrale non è la vita nelle carceri, né la violenza, né tantomeno la corruzione degli organi federali, ma la Speranza; tutto ruota intorno ad essa. Quando un uomo viene privato della dignità, della forza, del sorriso, del futuro, la Speranza è l’unica cosa che lo tiene ancora attaccato alla vita. A quel punto quindi è una scelta: “o fai di tutto per vivere o fai di tutto per morire”; e la prima è decisamente la strada più difficile, ma la Speranza dà forza, dà vita. Quando si spengono le luci, e fuori è buio, quando il gelo circonda l’uomo, quando questo barcolla senza una meta, la Speranza può riaccendere una flebile fiammella in lontananza; una guida per uscire dall’oscurità della morte spirituale.


Un film che rasenta la perfezione. La forza dei dialoghi toccanti, le grandi interpretazioni degli attori e una colonna sonora da oscar tengono in piedi un capolavoro istruttivo e meravigliosamente profondo. Uno dei pochi casi in cui la trasposizione cinematografica supera il testo originale. Una storia che cambia il modo di guardare la vita, un film che riaccende la Speranza nell’uomo, nel futuro.



 “La Speranza è una cosa buona. Forse la migliore delle cose, e le cose buone non muoiono mai”. Se perdete la bussola chiudete gli occhi e puntate Zihuatanejo, la vita, puntate la speranza. "Spero che il Pacifico sia azzurro come nei miei sogni. Spero.

domenica 29 marzo 2015

RECENSIONI DELLA SETTIMANA 23 - 29 MARZO



Album: Smoke and Mirrors (2015)
Secondo lavoro in studio per gli Imagine Dragons, promettete gruppo indietronico statunitense giunto alla ribalta con Night Visions nel 2012. Se con il primo anno la band aveva stupito la scena pop-elettronica mondiale con singoli orecchiabili e immediati, con il secondo eccedono nella sperimentazione musicale e falliscono miseramente. L’opera manca di una linea generale che dia un senso al tutto: la prima metà assomiglia ad un evoluzione elettro-grunge dell’album precedente, la seconda invece si perde completamente in brani molto diversi tra loro che denotano ispirazioni disparate, ma troppo lontane tra loro per poter coesistere in un unico lavoro e quindi risultare piacevoli all’ascolto. Si salvano solamente il singolo “Shots” e “It Comes Back to You”.
Suoni alti, troppo, assordanti, arrangiamento confuso. Si sente sempre di fondo un rumore inizialmente caratteristico, simile alle basi degli Awolnation, ma che alla lunga si rivela stancante, sia per l’orecchio che per la mente dell’ascoltatore. Album pretenzioso e fastidioso. Canzoni usa e getta. Pessimo. VOTO: 5


Film: Snatch (1999)
L’Inglese Guy Richie si conferma e dimostra abilità registica rara firmando LA black comedy per eccellenza. Movimenti di macchina fantasiosi, toni fantasiosi, montaggio da oscar, risate assicurate. Talvolta i film prediligono l’intreccio della trama principale a discapito della caratterizzazione dei personaggi secondari; qui invece vengono valorizzati entrambi gli aspetti e il risultato è una storia affascinante e intrigante, ricco di colpi di scena, e una ventina di personaggi indimenticabili. Cult indubbiamente da recuperare se ve lo foste perso. Pitt esilarante, Statham stranamente decente, Ford caratterista indimenticabile a sorpresa. VOTO: 8.5


Film: Burn After Reading (2008)
Un film dei fratelli Coen. Solo questo dovrebbe bastare a riconoscere un buon film, e di fatto questo lo è, ma una trama forzata, un cambio di stile a metà del film e un finale sostanzialmente mutilato fanno di Burn After Reading una delle peggiori pellicole del duo più intellettuale di Hollywood. Il prodotto si rivela alla fine sostanzialmente inutile: buona l’intreccio iniziale e i rapporti tra i vari personaggi, ottime le interpretazioni degli attori, su tutte Pitt e Malkovic, curata la regia, ma nulla più. VOTO: 6,5


Film: Snowpiercer (2013)
Blockbuster sud-coreano arrivato in Italia in punta di piedi. Bong Joon-ho dirige per la prima volta un cast occidentale, nel quale spiccano Capitan America e Tilda Swinton, dando vita ad un’avvincente action movie che cela neanche tanto velatamente una discreta metafora della società moderna. La regia incespica inizialmente ma poi si riprende anche se talvolta manca di mordente e risulta troppo confusa nella scene d’azione. La fotografia passa dal realistico e crudo al fantascientifico a volte troppo velocemente, ma ciò non disturba lo spettatore ed è funzionale alla contrapposizione dei due mondi presentati nel film. L’ambientazione iniziale che richiama l’atmosfera dei campi di sterminio nazisti è sicuramente più ispirata rispetto alle altre che si incontrano nel corso della storia. Finale debole rispetto alle accuse mosse per il resto della pellicola, anche se un colpo di scena interessante salva parzialmente il tutto. Di fondo si ha la sensazione che ottime idee di fondo non siano state sfruttate appieno e quello che poteva essere un capolavoro del genere si è rivelato essere un film solo discreto. VOTO: 7


Album: Brothers (2010)

Probabilmente il miglior album del duo alternative rock The Black Keys. Sonorità particolari che riportano l’ascoltatore direttamente nel far west, con armi da fuoco poco affidabili e ammassi di sterpaglia che rotolano sotto il Sole cocente. Linea concettuale rispettata in ogni brano, con “Tighten Up” e “Ten Cent Pistol” sopra gli altri. Sound interessante e mai stancante. Un plauso all'esilarante copertina dell'album. VOTO: 8

giovedì 26 marzo 2015

NBT: VIZIO DI FORMA

Sono veramente onorato, per me è uno piacere grande piacere ospite di avere ospite...insomma sono contento di essere ospite di questo blog. Nel mio primo articolo vorrei parlare di un film molto intrigante uscito quest’anno  che però a quanto pare non è stato particolarmente apprezzato dal pubblico né in Italia né nel resto del mondo.
Vizio di Forma” (Inherent Vice) è un film del 2014 scritto e diretto da Paul Thomas Anderson. Prima di parlare del film in sé è bene inquadrare a dovere questo straordinario regista. Paul Thomas Anderson è uno dei registi più interessanti della sua generazione ma purtroppo è generalmente sottovalutato, alcuni suoi film sono vere e proprie meraviglie cinematografiche, basti pensare a “Il petroliere”, altri invece sono forse meno riusciti ma nessuno dei sette film che ha girato finora ha fatto cilecca. PTA è un grande del cinema moderno che con “Vizio di forma” prende il romanzo omonimo di Thomas Pynchon e lo trasforma in una splendida sceneggiatura riuscendo a darci ulteriore prova del suo talento.


Il film, ambientato nel 1970 a Los Angeles racconta la storia di Doc Sportello (Joaquin Phoenix ) un detective privato che viene incaricato della sua ex fidanzata (Katherine Waterston) di sbrogliare un caso particolarmente ingarbugliato. La storia, che si dipana con la lentezza a cui Anderson ci ha abituato, in realtà è molto più complessa e aggrovigliata.
 La trama  volutamente fumosa e labirintica confonde lo spettatore ma il protagonista spesso sembra capirne ancora meno di noi quindi meglio rinunciare a seguire quello che succede, meglio immergersi semplicemente nel mondo groovy del film. A ben vedere in questo film la trama è totalmente in secondo piano, quasi un pretesto. Un pretesto per mostrarci le mille contraddizioni di una città e di una società in mutamento incessante.  Ecco la vera protagonista del film: la città Los Angeles o meglio l’atmosfera che si respirava nella città di Los Angeles a quei tempi. Che atmosfera era? Era un’atmosfera strafatta e fricchettona ma allo stesso tempo c'era una diffusa paranoia dato che era in atto una metamorfosi, un’epoca stava volgendo al termine una nuova stava nascendo.” Vizio di Forma” racconta di una città in trasformazione, in bilico tra sixties e seventies: la Los Angeles hippie degli anni sessanta ora deve fare i conti con il presidente Nixon e il governatore Reagan che vogliono tagliarle i capelli e mandarla a lavorare.  
La regia di Anderson è superba:  come sempre PTA non delude mai chi apprezza il suo modo di fare cinema. Il regista con “Vizio di forma”  sembra quasi sotto molti aspetti ritornare alle origini riprendendo i suoi primi lavori in particolare “Boogie Nights”, però ATTENZIONE perché il suo stile può non piacere a tutti. Difatti molti  considerano i suoi film troppo fiacchi, noiosi e soporiferi. A questo riguardo posso dire che chi odia Paul Thomas Anderson odierà “Vizio di forma” in quanto anche in questo film il regista non abbandona il suo tocco caratteristico.


Merita un plauso l’interpretazione di Joaquin Phoenix che riesce a rendere il suo personaggio credibile e allo stesso tempo caricaturale, la sua è una performance apprezzabile che convince appieno, anche qui come nel caso di PTA si può dire che Phoenix sia in linea di massima snobbato come attore, il pubblico lo ricorda principalmente per il ruolo di Commodo ne “Il gladiatore” ma in realtà ha recitato in numerosi altri film e ci ha regalato delle grandi interpretazioni (come nel suo penultimo film “Her”).  Anche il resto del cast è di qualità eccelsa: Josh Brolin, Owen Wilson, Reese Witherspoon, Benicio del Toro sono nomi ben noti ma anche la meno conosciuta Katherine Waterston se la cava bene nella parte della ex fidanzata di Doc e ci delizia con una scena di nudo molto gradevole.
In questo film PTA come già aveva fatto in Boogie Nights inserisce nel cast una pornostar, si tratta di Belladonna, ma il suo è solo un veloce cameo che non lascia il segno.



Difficile inquadrare il genere di appartenenza di “Vizio di forma”, il film è un mix riuscito tra un film noir, una commedia nera e un film drammatico con qualche accenno romantico. Questo film era molto atteso e forse le aspettative che si erano create su quest’opera erano troppo alte e sono state in parte disattese: infatti “Vizio di forma” pur essendo un film di ottima qualità non riesce ad essere il capolavoro che ci si aspettava. Un passo falso di PTA? Assolutamente no, non si tratta affatto di un film mediocre anzi questo è Cinema con la C maiuscola ma le speranze che questo film potesse essere il migliore di Anderson si sono infrante. Ricordo comunque che come tutti i film di questo regista anche “Vizio di forma” va visto almeno due volte per poterlo apprezzare al meglio. Sì certo cooooome no! So benissimo che non lo guarderete neppure una volta distratti dai vostri numerosi impegni comunque è mio dovere informarvi che vi state perdendo un film notevole.

Antonio Margheriti

martedì 24 marzo 2015

IT’S TIME TO MUSIC

Guardando il video di “Demons” degli Imagine Dragons (https://www.youtube.com/watch?v=mWRsgZuwf_8) ho notato un’appendice al termine del brano. Si tratta di un filmato amatoriale che riprende un ragazzo mentre esprime se stesso ad un concerto della stessa band sulle note di It’s Time.

Il ragazzo in questione è Tyler Robinson, all’epoca diciassettenne Statunitense affetto da una rara forma di cancro ai tessuti muscolari. Nel breve estratto inserito al termine della canzone Tyler sembra carico di Gioia, Amore, Vitalità. Quando poi entra in contatto con Dan Raynolds, frontman degli Imagine Dragons, egli esplode tutto il suo attaccamento alla vita. Carica sovraumana, forza della natura. L’effetto che la musica ha su di lui è straordinario. Un video che in pochi secondi commuove mostrando l’animo ferito ma battagliero di un piccolo grande uomo.
Qualche mese dopo Tyler non ce l’ha fatta, lasciando un vuoto enorme, colmato parzialmente da una fondazione benefica a suo nome (http://www.trf.org/).


 Mi sono sempre chiesto che ruolo abbia la musica nella nostra vita. Spesso si sente dire di quanto la musica sia fondamentale nei momenti difficili, di quanto questa riesca addirittura a far superare problemi insormontabili. Essa viene talvolta associata alla malattia, alla sofferenza. Alcuni, come Tyler, riescono a trovare proprio nella musica la forza nascosta dentro di loro, la forza di andare avanti. Il video dimostra palesemente quanto una canzone possa influire sull’animo di una persona. Riguardo questa assolutizzazione del ruolo della musica, sono però parzialmente in disaccordo. Secondo me la musica non serve a superare le difficoltà. Il tempo, la volontà, forse il destino, ma non la musica. Questa sicuramente però aiuta ad affrontare i momenti più duri, a viverli meglio.


 A mio parere la musica si divide in due grandi categorie:  quella che riempie la mente e quella che la svuota. La prima tende a far riflettere chi l’ascolta, gli fa tornare in mente ricordi, pensieri sopiti da tempo, nel peggiore dei casi gli fa rimuginare sulle ombre di un passato che ancora lo inseguono. E’ la musica che fa stare seduti sull’autobus a contemplare il mondo che scorre, quella che fa piangere, quando si ha necessità di farlo. Riflessiva, profonda, personale. La musica che svuota la mente invece fa l’opposto, cioè contribuisce a far dimenticare i problemi, le avversità, il passato. È più attiva. È quella che porta ad agitarsi seguendo un ritmo mai preciso dettato dal momento. Quella che non fa pensare ma agire. La mente umana si svuota per lasciare il posto alla natura: questo secondo tipo di musica provoca la manifestazione del nostro vero essere, a volte anche della nostra parte animalesca o primitiva. È a questo secondo gruppo che assocerei “It’s Time” per Tyler. La canzone, i suoni forti dell’esibizione live, la situazione particolare in cui si trova, portano il ragazzo a mostrare la sua vera natura, la passione, il suo istinto irrefrenabile. E il suo istinto indica sopravvivenza, sopravvivenza sopra ogni cosa, infinito attaccamento alla vita; e ciò è confortante perché sottolinea ancora una volta che la natura umana è di per sé molto più vicina alla vita che alla morte. La divisione tra queste due macrocategorie comunque, essendo assai soggettiva, non è ben definita e uno stesso brano potrebbe, per un dato soggetto, rientrare in entrambe le classi, oppure passare dall’una all’altra a seconda di altri fattori, sia interni che esterni all’ascoltatore.


Allora cos’è la musica? Perché una serie di suoni può provocare così tante emozioni in una sola persona? Perché abbiamo la necessità di sentire sempre una canzone nella nostra testa? Perché la stessa scena di un film può generare in noi sentimenti contrastanti se vista con o senza colonna sonora? Non lo so. Non so dare una risposta certa a tutto ciò. Quello che so è che la musica è molto importante, aiuta nei momenti duri e, a seconda della situazione, può modificare lo stato d’animo e il rapporto dell’ascoltatore con il mondo circostante. Essa è una compagna di viaggio nel lungo percorso della vita, sempre presente nella nostra auto, ma seduta dietro. La sentiremo sempre in sottofondo, soprattutto quando non ci sarà nessun altro nella nostra vettura, ma, quando si presenteranno le avversità, quando avremo bisogno di una mano a tenere dritto il volante, contro le intemperie che ci saranno in strada, sarà di un altro passeggero che necessiteremo, qualcuno seduto sul sedile alla nostra destra.
Il collante che tiene insieme le esperienze, lo sfondo delle nostre “storie di una vita incredibile”, la massa che da volume all’esistenza. Vibrazioni, sensazioni, mare di emozioni. La musica è vita, la Musica siamo noi.

domenica 22 marzo 2015

RECENSIONI DELLA SETTIMANA 16 - 22 MARZO

Dopo aver notato che molto materiale visionato - ascoltato - letto in settimana non riesce ad essere parte di un articolo a sé stante, ho deciso di introdurre una nuova rubrica settimanale nella quale ne parlo brevemente cercando di focalizzare il discorso su aspetti positivi e negativi, tralasciando quindi la trama o il background. Spero che l'immediatezza di queste receimpressioni flash sia funzionale. Buona lettura della recensioni della settimana.


Film: Le Follie dell’Imperatore (2001)
Capolavoro dell’animazione del nuovo millennio. Porta un’ondata di freschezza dopo un paio di lavori non eccellenti dello studio californiano. Propone una comicità non banale, adatta sia agli adulti che ai bambini, che riprende a tratti quella delle parodie di Mel Brooks. Alcuni movimenti di macchina freschi, la caratterizzazione dei personaggi e il doppiaggio nostrano denotano la cura con cui è stato confezionato il prodotto. Alcune scene di metacinema puro e battute indimenticabili fanno già parte della storia del cinema. Qualche animazione non all’altezza e un paio di gag ripetute abbassano leggermente il voto complessivo. VOTO: 9.5



Film: Gigolò per Caso (2013)
Turturro si cimenta nuovamente nel cinema d’autore dopo “Passione”, ma stavolta fallisce parzialmente. Buone le scene più intime e personali tra i protagonisti. Discreta la critica alle religioni. Le prove attoriali sono sì convincenti, soprattutto quelle dello stesso Turturro e della Paradis, ma un Allen troppo macchiettistico, alcune battute banali, un finale affrettato e una colonna sonora non sempre all’altezza intaccano la qualità del quadro complessivo. Basi discrete, risultato sotto le aspettative. VOTO: 6


Film: The Machinist – L’Uomo Senza Sonno (2004)
Thriller di produzione spagnola diretto dal visionario Brad Anderson ed interpretato da un irriconoscibile Christian Bale che sfiora la soglia dell’anoressia per entrare nella parte. Film disturbante, esageratamente lento, che cerca di creare un castello di carte, un gioco di ombre cinesi attorno allo spettatore. Molto convincente la prova del protagonista che dà il via alla famosa serie di cambiamenti fisici in preparazione delle riprese, marchio di fabbrica dell’attore. Fotografia tendente al grigio, paesaggi inesistenti, scene crude. Il regista non riesce a mantenere la tensione alta per tutto il film. Finale intuibile ma tutto sommato in linea con il resto della pellicola. VOTO: 7



Album: Give up (2003)
Unico album dei The Postal Service, progetto artistico nato dalla collaborazione di due artisti indipendenti. Esperimento indie-pop di nicchia. Sonorità dolci e perfettamente armonizzate. Buon esempio di fusione tra musica elettronica e pop strumentale. Le voci dei due cantanti aiutano a creare un’atmosfera ovattata e intima. Such Great Heights trascina l’album, Sleeping In (https://www.youtube.com/watch?v=lv5lO-O8hRU) trasporta l’ascoltatore direttamente al momento prima di addormentarsi. Quiete. Pezzi strumentali ponderati, rilassanti e riflessivi. Esperimento riuscito. VOTO: 7.5



Album: () (2002)

Terzo lavoro in studio degli islandesi Sigur Ros. Album pervaso da mistero fin dal nome”()”. Anche i brani non hanno un vero e proprio titolo. Album che va oltre l’intrattenimento musicale a cui siamo abituati e fonde in un’unica opera pezzi da colonna sonora, come il terzo, ad altri che invece vivono di vita propria, il quarto (https://www.youtube.com/watch?v=4cffzyPQcGs) o il nono. Sonorità mistiche, profonde.  Brani da ascoltare ad un volume molto basso, con gli occhi chiusi e il cuore aperto. Album pregno di flemma nordica, specialmente nei cori, che a volte fa sembrare il paesaggio fuori dalla finestra più freddo di quello che è in realtà, ma che potrebbe scaldarvi dentro se saprete prenderlo per il verso giusto. Qualche brano meno ispirato e alcune sonorità ripetute eccessivamente non fanno inneggiare al capolavoro, ma il lavoro svolto è comunque molto buono. Per pochi. VOTO: 7.5

giovedì 19 marzo 2015

NBT: H.E.A.T

Era da tempo che volevo parlare di questo gruppo e mi fa molto piacere poterlo fare qui su questo blog. Ciò di cui vorrei discorrere oggi è quella che senza ombra di dubbio è una delle compagini musicali migliori, se non la migliore, nell’ambito dell’ hard rock commerciale, ovvero quello che fece il botto in pieni anni 80. Gli H.E.A.T tuttavia sono un gruppo giovanissimo, avendo rilasciato il loro primo disco nel 2007; potrà sembrarvi assurdo, soprattutto se non siete molto vicini a questo tipo di sound, eppure è da circa una decina di anni che i paesi scandinavi hanno preso le redini di un genere che sembrava morto facendolo rinascere dalle sue ceneri ancora più splendente di prima. Gli H.E.A.T infatti sono svedesi o, come piace loro affermare prima di ogni show, “rappresentano” la Svezia, in quanto essi sono uno dei gruppi più importanti di questo “revival” musicale. 





Raramente riesco ad affezionarmi ad un gruppo nella stessa maniera in cui l’ho fatto per gli H.E.A.T, ma ve l’assicuro, i ragazzi sono eccezionali: non solo hanno saputo riprendere tutti gli aspetti migliori del rock melodico dei tempi andati ma sono stati in grado oltretutto di costruirsi parallelamente il proprio sound, che risulta assolutamente freschissimo. I primi due album, l’omonimo H.E.A.T e Freedom Rock, sono stati registrati con al microfono il singer Kenny Leckremo (nome imbarazzante, lo so), dotato di un timbro gradevolissimo e più che perfetto per il sound del gruppo. Soprattutto in Freedom Rock, un piccolo capolavoro a mio parere, possiamo assaporarne la maestria in ogni singolo pezzo, dalla meravigliosa e sognante We’re Gonna Make It To The End (https://www.youtube.com/watch?v=YPHp82TqyVI), passando per le assurde Beg Beg Beg, Everybody Wants To Be Someone e la mia preferita in assoluto High On Love. Le chitarre sono cristalline, la voce è magica e basso e batteria affettano il ritmo che è un piacere. Poi ci sono tante di quelle citazioni e reminescenze che è un piacere andare a ricercarsele tutte: Toto, Europe, Motley Crue, Guns ‘n’ Roses e chi più ne ha più ne metta...





Dopo quel gran discone di Freedom Rock Leckremo lascia il gruppo; la dichiarazione ufficiale è a causa di divergenze artistiche, ma molto probabilmente è stato dovuto allo scarso carisma del cantante in fase live. Nonostante il dispiacere viene scelto il miglior rimpiazzo possibile: Erik Grönwall, il vincitore dell’edizione 2009 di Swedish Idol. Ecco che qui occorre aprire una parentesi: in Svezia chi vince questi tipi di reality show ha sempre ottenuto un ottimo successo in seguito (come per esempio lo stesso Grönwall oppure il grande Jay Smith,vincitore dell’edizione 2010), mentre in Italia i vincitori con un grande potenziale finiscono inevitabilmente con l’eclissarsi o alla peggio a fare squallidi spot pubblicitari per compagnie telefoniche. Ma comparare Svezia ed Italia in ambito musicale è un po’ come paragonare un leone ad un gatto domestico, quindi conviene andare oltre.




Con Grönwall gli H.E.A.T incidono altri due album: Address The Nation nel 2012 e Tearing Down The Walls nel 2014; la voce del nuovo singer è più aggressiva e tirata di quella di Leckremo, così che in fase di songwriting i sei (poi diventati cinque a causa dell’abbandono del chitarrista Dave Dalone) si sono sbizzarriti nel creare i pezzi più trascinanti che mai siano riusciti a comporre. Vogliamo parlare del singolo Living On The Run, che sprizza anni 80 da ogni accordo? O della sbalorditiva In And Out Of Trouble, con quel sassofono che la rende un pezzo praticamente perfetto. E poi ancora It’s All About Tonight, Inferno, Mannequin Show, Tearing Down The Walls... Tutti singoli che anni addietro avrebbero scalato in un batter d’occhio le classifiche (cosa che hanno effettivamente fatto in Svezia nel 2009). La loro ultima release, Live In London (uscito un mese fa), è assolutamente una visione obbligatoria per chi ami l’hard rock: il DVD infatti mostra un gruppo in forma eccezionale e assolutamente sulla cresta dell’onda, non avendo mai sbagliato un colpo fino ad ora. La qualità svedese si sente sempre...





Non credo serva aggiungere altro, penso di aver descritto con sufficiente enfasi quanta ammirazione provo per questi svedesi. Gli H.E.A.T sono un gruppo che chiunque dovrebbe ascoltare, non solo perché sono tecnicamente delle bestie, ma anche e soprattutto per l’incredibile energia trasmessa sia negli spettacoli dal vivo sia in studio. Se poi siete dei nostalgici delle grandi hit anni ’80, beh, che minchia state aspettando ad andare ad ascoltarli?

Cristiano Chignola   


lunedì 16 marzo 2015

FAMME CANTA’

Qualche giorno fa, girovagando per l’Internet, mi sono imbattuto in una perla del web, un fenomeno artistico senza precedenti: il debutto musicale dell’On. Antonio Razzi (qui il link del video https://www.youtube.com/watch?v=aTnJhGF884Y). Per quei pochi che ancora non lo conoscessero, Razzi, che d’ora in poi chiameremo “il Sommo”, come quello di Firenze, è un politico abruzzese, eletto con FI, famoso per una serie di gaffes e uscite al di sopra delle righe,  giunto alla ribalta mediatica nel 2013 dopo essere stato imitato da Maurizio Crozza. In seguito a ciò il “Sommo”  ha ottenuto una popolarità sempre maggiore che l’ha portato ad essere uno dei personaggi più interessanti, divertenti e discussi del panorama artistico italiano (https://www.youtube.com/watch?v=FaUQajPgQpQ).



Non contento però, alcune settimane fa, il nostro eroe ha deciso di raccogliere i maggiori successi che l’hanno portato ad essere il fenomeno odierno in un unico brano e di interpretarne anche il videoclip, raddoppiando in questo modo l’estasi mistica nell’ammiratore. Il risultato rasenta l’epicità: ritmo travolgente, movenze del cantante degne del miglior Michael Jackson,connubio musica-video indimenticabile. Ciò che però attira maggiormente l’attenzione è il testo. Testo profondo e pregno di metafore in cui il “Sommo” si autocita, concentrando in quattro minuti quella che è stata finora la sua radiosa carriera politica.
Estrapolando alcuni passaggi possiamo notare l’autoironico “Quello che io faccio non ho mai pentito”, oppure il sincero e scanzonato “sono stato eletto senatore, anche perché di fame si muore” che ribadisce, se già non fosse chiaro, il filantropismo alla base dell’impegno politico del “Sommo”, ma anche il sempreverde “caro amico te lo dico da amico, io penso a li c*zzi miei” che richiama in maniera fresca, ma mai banale, il tormentone del nostro idolo legato allo scandalo del 2011 (https://www.youtube.com/watch?v=aMrBBam9F5g). I versi che però rimangono più impressi nel cuore e nella mente dell’ascoltatore sono indubbiamente l’ironico e graffiante “chiedo solo un rimborso spese per arrivare alla fine del mese” e  ”del Jobs Act io non ne so niente preferisco il made in Italy”, che sottolinea le conoscenze e il peso decisionale dell’immenso Senatore.




Con questo pezzo d’autore Razzi compie un ulteriore passo in avanti nella scalata al baratro nel quale risiede la politica in Italia. Con poche, ma pesanti parole, riesce a ridere di sé, degli scandali nei quali è stato coinvolto,  e ad irridere la popolazione italiana intera. Dal balletto imbarazzante, ma al contempo gioioso e spensierato, si evince l’orgoglio del personaggio nel rappresentare la decadenza dell’arte di governare nel Bel Paese. Con la già citata “chiedo solo un rimborso per arrivare alla fine del mese” Razzi sputa in faccia a tutti gli Italiani che non riescono nemmeno a cominciarlo il mese. Se Silvio è stato per vent’anni l’emblema del crepuscolo della politica, Razzi rappresenta il punto più basso mai raggiunto, la fine di un percorso ben preciso che in pochi decenni ha modificato l’immagine della classe governante.



Un bambino vede una crostata calda, fumante, assai invitante, messa a raffreddare sul davanzale di una finestra. Egli la desidera. Farebbe di tutto per riuscire a prenderla. Chiama allora i suoi amici e, insieme a questi, senza fare rumore, la raggiunge, l’agguanta e la spartisce. Il giorno dopo trova nuovamente la crostata sul davanzale, ma stavolta la finestra è aperta. All’interno della casa una signora, insospettita dal giorno precedente, osserva attentamente il dolce. Il bambino però non può fare a meno di rubare la crostata. Richiama gli amici, che a loro volta avevano già contattato altri amici, e con questi ruba nuovamente la crostata, sotto gli occhi della signora incredula della noncuranza con cui i bambini compiono un gesto così deplorevole. Il terzo giorno la torta è sempre al suo posto, sul davanzale. La signora aspetta ormai irosa, ma nessuno si mostra. All’improvviso il bambino dei giorni precedenti, ormai accompagnato dagli “amici degli amici”, sfonda la porta di casa, spintona la signora facendola cadere per terra, afferra con sdegno la crostata e se la gusta di fronte alla malcapitata, vantandosi con i suoi complici della furbizia dimostrata nell’occasione.
Ecco, la furbizia. In Italia la furbizia è vista di buon occhio. I “furbi” sono coloro che evadono il fisco, raggirano la burocrazia, guadagnano alle spalle della povera gente, intrattengono rapporti d’interesse con persone ben poco raccomandabili, collusi, darebbero qualunque cosa pur di raggiungere fama, ricchezza, potere. In Italia queste persone sono ammirate, stimate, portate ad esempio e addirittura votate.




La classe politica è da sempre specchio della società. I politici siamo noi. Fin quando la situazione non cambia dal basso, fin quando ad essere supportati saranno i furbi, questo paese faticherà a rialzare la testa. Il giorno in cui ho visto il video di Razzi: un altro giorno in cui mi sono vergognato di essere italiano.

sabato 14 marzo 2015

PURE IMAGINATION

Giganti, streghe, spiriti dei laghi, città incantate, gemelle siamesi. Sono solo alcune delle avventure fantastiche che troverete in “Big Fish - Le storie di una vita incredibile”, film diretto da Tim Gothic Burton nel 2003.



Dopo aver dimostrato abili doti registiche anche al di fuori del suo campo di azione, ovvero il gotico e il grottesco, in “Planet of the Apes”, Burton viene contattato per dirigere il nuovo film ispirato ad un romanzo di novelle dello statunitense Daniel Wallace. Il cineasta chiama a se gli immancabili Elfman (Oscar per questo lavoro) ed Helena Bonham Carter e da sfogo a tutta la sua abilità registica regalandoci probabilmente il suo capolavoro (e Batman?). La trama del film è abbastanza semplice: un uomo anziano, Ed Bloom, è famoso per essere un grande racconta storie, ma quali di queste sono vere? Intanto il figlio, stanco della tendenza del padre ad esagerare nei suoi racconti e del suo egocentrismo, decide di allontanarsi della famiglia e andare a vivere in Francia. Solo il precario stato di salute del genitore lo riporterà a casa tre anni dopo. Con il padre sul letto di morte, Will Bloom decide di indagare sulle sue storie per verificarne la veridicità. 




Partendo da una base consolidata, quella del rapporto genitore-figlio, il film funziona: diverte e intrattiene, coinvolge e commuove. Il grande merito di Burton sta soprattutto nell’aver saputo bilanciare alla perfezione le scene dei racconti del padre e quelle in cui si torna alla realtà del presente. Nelle prime la fotografia è più accesa, ci sono movimenti di macchina più arditi, il ritmo è frenetico, ma mai esasperato, e i dialoghi sembrano vivere di un magia propria che li rende unici, fuori dall’usuale, fantastici. Nelle seconde invece il regista lavora più nell’ordinario e adatta le caratteristiche tecniche del film a questo contesto. Il contrasto porta lo spettatore ad immedesimarsi con il figlio nelle scene ordinarie e a sognare con il capofamiglia in quelle fantastiche. Con progredire della trama ci si lascia trasportare dalle magnifiche storie raccontate da Ed Bloom (un Ewan McGregor strepitoso, seppur non a livelli di Mark Renton), sta poi ad ognuno di noi se credere che queste siano vere. Indubbiamente nasce in ogni spettatore una domanda fondamentale: il mondo fantastico in cui sono ambientati i racconti del padre supera la realtà o è parte della stessa?
Proprio in questo quesito risiede il messaggio del film: chi dice che realtà e fantasia siano separate? Chi dice che il mondo descritto nelle storie di una vita incredibile non possa essere davvero il mondo reale?



Nel finale poi la pellicola si rivela per quello che è: un grandioso inno alla fantasia, alla capacità di integrare alla realtà un aspetto fantastico, prezioso, personale che renda ogni vita meravigliosa e quindi degna di essere vissuta. Se non ci fosse la fantasia ogni esistenza umana si rassomiglierebbe, senza l’”elemento umano della macchina”  la ragione prevarrebbe sull’emotività e l’uomo sarebbe succube del mondo che lo circonda. “Lentamente muore” l’uomo che smette di rendere indimenticabile ogni singola esperienza, ogni singolo respiro della sua esistenza attraverso l’infinita immaginazione di cui è dotato. Il film in questo senso invita lo spettatore ad avere il coraggio di abbandonare la realtà di tanto in tanto e di sognare liberamente con il cuore in mano, tenendo sempre presente che “A furia di raccontare le sue storie, un uomo diventa quelle storie. Esse continuano a vivere dopo di lui, e così egli diventa immortale”.




L’ultima scena è da brividi. Elfman armonizza con classe e mestiere. Burton fonde i due mondi fino a quel momento paralleli in una rocambolesca e commovente fuga. Gli attori si superano regalando una prova di spessore. Ricorderete per molto tempo la voce calda di Will raccontare le storie del padre e, se come me non siete riusciti a staccare gli occhi dallo schermo per tutta la pellicola, farete fatica a trattenere le lacrime per l’ultima storia di una vita incredibile.
Un film che segna in maniera indelebile: insegna a fare di ogni esperienza un’avventura, di ogni avventura una storia indimenticabile. Un film sognante, per sognatori. Un film non per tutti.

Stay hungry, stay dreamy.

mercoledì 11 marzo 2015

THE WINNER IS

Avrete sentito centinaia di volte l’espressione “and the winner is”, adottata nei contesti più disparati, sempre associata al concetto di vittoria e sconfitta, ma probabilmente non avete ma ascoltato “The Winner Is”. Sto parlando del brano strumentale dei DeVotchKa, divenuto famoso per essere il tema principale della colonna sonora di Little Miss Sunshine, film cult indipendente del 2006.



La pellicola si apre con una bambina che, sulle note del sopracitato pezzo, è intenta a guardare e riguardare con occhi sognanti la registrazione del momento clue di un concorso di bellezza, ossia la premiazione. Qui la musica di sottofondo contribuisce in maniera ottimale a trasportare lo spettatore nell’atmosfera ovattata, personale e intima che il film cerca di assumere. Si passa poi alla consueta presentazione dei personaggi intorno ai quali girerà l’intera commedia: il padre della bambina di prima, che ha appena lasciato il lavoro per dedicarsi completamente alla pubblicazione del suo libro sull’autostima, la madre, frustrata dal matrimonio travagliato e da una vita di insoddisfazioni, il fratello, muto per scelta, il nonno, cocainomane, e lo zio, gay, famoso studioso di Proust, appena sopravvissuto ad un tentato suicidio.
Il fil rouge che lega tutti questi problematici personaggi? Il fallimento. Essi sono tutti dei perdenti, losers per dirlo con un termine in voga oggi. Il film infatti, attraverso le parole dei vari personaggi, ci fa intendere una visione categorica del mondo secondo cui questo si divide in due classi: vincenti e perdenti. La volontà del padre (un convincente Greg Kinnear) di contrastare questa condizione di sottomissione alla vita, spinge l’intero gruppo di caratteristici individui ad intraprendere un improbabile viaggio verso la California per permettere alla piccola Olive di partecipare ad un concorso di bellezza. Il mezzo di trasporto su cui la famiglia è costretta a viaggiare, viste le precarie condizioni economiche del padre, è uno sgangherato furgoncino giallo, presente anche nelle varie locandine del film, che strizza l’occhio al cinema geometrico di Wes Anderson.




A bordo del suddetto veicolo, gli Hoover si troveranno ad affrontare varie vicissitudini che rimarcheranno la loro condizione di “vinti”, ma è nel finale che la situazione si distaccherà da una visione categorica della vita umana, proponendo una riflessione ben più profonda e superando concettualmente anche il “ciclo” di Verga. Una volta arrivati in California, non senza infinite difficoltà, la famiglia si troverà a fare i conti con una nuova categoria umana che rompe gli schemi fin a quel momento dati per veri e sostenuti dagli stessi personaggi principali: i finti vincenti. I finti vincenti sono coloro che fingono per vivere, fingono di essere qualcosa di più di quello che in realtà sono, fingono perché solo nella finzione possono essere dei vincenti. Sono “Quelli che benpensano”. Questi però, a differenza di come ci si potrebbe aspettare, non sono dei vincenti solo per loro stessi, ma lo sono anche agli occhi di altri finti vincenti, ed è proprio questo che rompe il paradigma del film. Da quel momento in poi la situazione si capovolge e l’atteggiamento dei protagonisti cambia. Scena emblematica, toccate ed indimenticabile è quella dell’esibizione della bambina. Una singola sequenza carica di forza e pathos, coraggio e comicità, ma soprattutto di libertà. La libertà diventa il nuovo fulcro attorno al quale ruota il film. La libertà, di pensiero e di parola, diventa la più grande vittoria per i protagonisti, e quindi per l’uomo. Il paradigma finalmente muta, si evolve. Cadono le concezioni categoriche di vincenti e perdenti e nascono quelle di vittoria e sconfitta.



Nella vita non esistono i vincenti finché uno non vuole vederli. Esistono tuttavia vittorie e sconfitte; fanno parte della quotidianità. Una serie di sconfitte non fa però di un uomo un perdente, come le vittorie non fanno di questi un vincente. La vita è fatta di sfumature (magari non cinquanta) e questo film riesce a ridare speranza anche a quelli che vedono solo nero intorno a loro, perché dietro ogni sconfitta, dietro ogni fallimento potrebbe celarsi una vittoria, anche piccola, insignificante, ma enormemente importante, come la libertà.
Il film si chiude poi con una scena poetica e sublime in cui è la musica a fare da padrona. Alla fine, mentre i protagonisti, illuminati in volto da una luce nuova, si accingono a ripartire, si sentono nuovamente le note di “The Winner Is”, ma stavolta è diversa, più alta, carica di allegria, speranzosa, stavolta è davvero una vittoria, una vittoria che tocca il cuore di chi l’ascolta.
The Winner Is Little Miss Sunshine.

lunedì 9 marzo 2015

L’ALBA DELL'ORRORE

Cosa fai nel 2015 quando pensi di avere qualcosa da dire, da trasmettere, ma non sai come fare? Semplice, apri un blog. E allora apriamolo questo blog.

L’uomo vive di paura.
Giornalmente chiunque di noi si trova a fare i conti con le piccole ansie che contraddistinguono la nostra vita. A volte queste ansie posso sfociare in paure, talvolta irrazionali, dette fobie. Quando queste vengono prese ed ampliate a dismisura si ottiene il terrore, nella concezione in cui lo intendiamo oggi. Sul terrore si è scritto e si è detto tanto, ma non sempre questo è stato così come lo conosciamo: qualcuno prima del buon Stefano Re aveva già rivoluzionato il concetto di horror, ossia i due mostri sacri Poe e Lovecraft. Questi due, tra l’Otto e il Novecento, scrissero piccoli racconti mescolando abilmente paranormale, visionario e turbe della psiche umana, gettando le  basi per quel filone artistico da cui oggi prendono spunto “capolavori indiscussi” del cinema quali Smiley, Ouija o Clown (tanto per citarne qualcuno) che qualitativamente nulla hanno a che fare con i sopracitati autori. Ah, la deriva del genere horror mi fa scendere sempre una lacrimuccia.



Se di Edgar Allan Poe conosco ormai a menadito corvi, gatti e cuori rivelatori, di Lovecraft avevo letto solo qualche breve estratto poichè distratto da impegni ed altre letture. Finalmente però ho potuto mettere le mani sull’opera più famosa dell’autore grazie all’edizione ninetynine sens, stiamo parlando de “La Casa Stregata” del 1924. Il racconto in questione, quaranta pagine in tutto, per quei pochi che ancora non l’avessero letto, parla di una casa abbandonata nella grigia e claustrofobica Providence, la quale si crede sia infestata da spiriti maligni. Il protagonista, affascinato dall’alone di mistero che circonda l’abitazione diroccata sita in Benefit Street, comincia una serie di ricerche sul passato della villa e convince lo zio ad aiutarlo nell’impresa di debellare il male che da secoli infesta la proprietà. Una trama del genere, ai giorni nostri, sembra cosa di poco conto. Chi mai avrebbe paura della solita casa costruita su di un cimitero (non indiano ma francese stavolta)? E invece un po’ d’ansia tutto sommato me l’ha messa.



I punti focali che rendono questo racconto un capolavoro sono sostanzialmente tre: la scrittura, il realismo e le descrizioni della “presenza”. Lo stile di Lovecraft in quest’opera è davvero particolare, poiché non opta per la banale scelta di cadere in un irreale mondo di fantasia con l’aggiunta di inutili e poco plausibili particolari, ma mantiene una scrittura asciutta, rigorosa e precisa dall’inizio alla fine, rendendo così sempre molto credibili gli eventi che si susseguono. Si potrebbe in maniera azzardata definire “La Casa Stregata” un proto X-Files (ma di questo ne parleremo un’altra volta). Il protagonista sembra a tratti agire come uno Sherlock Holmes dell’orrore, un “investigatore dell’occulto”, e ciò rende possibile un maggiore coinvolgimento del lettore, in quanto le vicende narrate sembrano assai plausibili e vicine alla realtà. Il culmine però arriva nella descrizione dell’entità presente nella casa. La precisione di dettaglio, il climax che l’opera era stata fino a quel momento, il castello di realismo creato apposta per il passo in questione, il volto del Dott. Elihu Whipple (per chi avesse letto l’opera); tutto ciò fa rabbrividire il lettore, fa gelare il sangue nelle vene. 
“La Casa Stregata” non risente minimamente dell’età che ha e a tutt’oggi rappresenta un punto di riferimento per il genere horror. 



La paura generata dalla lettura poi passa, poi, a diciannove anni, si ripensa a questo racconto con mente più lucida, si capisce che questi eventi non possono mai accadere nel modo reale e si tira un sospiro di sollievo. L’altra sera però, mentre portavo fuori il mio cane, mi sono fermato per qualche secondo ad osservare un complesso di case in costruzione. Il vento forte faceva sbattere violentemente le ante di qualche vecchia finestra lontana, i granelli di sabbia nel cantiere scivolavano lentamente dalla cima di piccoli cumuli suggerendo un movimento, una presenza, poco distante si sentiva un cane abbaiare con rabbia. Ho ripensato a “La Casa Stregata”. Mi è salito un brivido lungo la schiena.