lunedì 30 aprile 2018

IL PROBLEMA DI CHI HA PROBLEMI CON KANYE


I più anziani di voi ricorderanno i tempi, ed erano bei tempi, in cui questo illustre blog ospitava di tanto in tanto i miei discorsi improbabili su musica e dintorni. Ebbene, l’eterno ritorno dell’uguale mi riporta qui, a scrivere di altri discorsi ancora più improbabili. Ringrazio l’Accademy e tutti quelli che hanno creduto in me. (Ri)Cominciamo.
Questo articolo doveva essere su Kendrick, che ha vinto il Pulitzer e tutto quanto, ma più andavo avanti a scrivere più mi tornava in mente una puntata di Atlanta in cui Paper Boi è ospite di un talk show surreale alla fine del quale tutti sono d’accordo tra loro e il conduttore non sa che pesci pigliare per rendere interessante il dibattito. Perché la verità è che in fondo tutti sono d’accordo sul Pulitzer a Kendrick: ha vinto perché è bravo, fine. Dovevo quindi trovare qualcosa su cui la pensavo differentemente, almeno un poco; quanto basta per scuotere la testa leggendo le opinioni altrui, come i politici nei talk show reali. E poi è arrivato lui: “The savior of Chicago” come lo chiamano – e con “lo chiamano” intendo “lui chiama sé stesso” – Kanye West.

Se in queste ultime due settimane non avete vissuto in una caverna per sfuggire a mandati esplorativi e/o spoiler di Infinity War, avrete di sicuro sentito parlare della frenetica attività del buon (ma lo sarà davvero buon? Eh eh.) Kanye su Twitter. Da quando è tornato sul social network – un paio di settimane fa – al momento in cui sto scrivendo queste righe, ha twittato circa 280 volte. Duecentocinquanta cinguettii che, quando letti tutti d’un fiato (se no lo avete fatto, fatelo), provocano come reazione più immediata un “Qualcuno gli tolga il telefono dalle mani per carità di dio”.
L’inizio della fine è stato l’annuncio del suo libro di filosofia, su Twitter. No, non l’annuncio su Twitter, proprio il libro. In comode pillole di saggezza kanyeana di 140 280 caratteri ciascuna. Fin qui tutto divertente, direte, finche:


AH. Bene. Bene così. Un bel cappellino “MAKE AMERICA GREAT AGAIN” con tanto di autografo del Donald. Che ovviamente non perde l’occasione per ringraziare: “Hey guardate, un personaggio dello spettacolo che non mi odia! Un altro grande successo della mia amministrazione!”
Da qui in poi Paura e Delirio. Polemiche. Articoli (questo, ad esempio). Facciamo un passo indietro. Come ha detto anche John Legend in uno scambio di messaggi condiviso su Twitter – e dove sennò – Kanye è l’artista più influente della sua generazione. Ha rivoluzionato il modo di intendere l’hip-hop e se nel 2018, Spotify alla mano, esiste l’equazione hip-hop = pop (in senso lato) è anche conseguenza del suo approccio ad entrambi questi mondi. Non mi spingo a dire che Kanye sia un genio, né tantomeno che questo possa giustificare un endorsement ad uno dei personaggi più discutibili e discussi del momento, ma penso possiamo essere tutti concordi nel dire che Kanye è un personaggio unico. Ed il suo pensiero non può essere che tale: Kanye West vive per essere unico, per fare di testa sua, per rompere i meccanismi di qualunque cosa si trovi davanti, per stupire, infine. Da campionare i King Krimson a dire in diretta tv “Bush doesn’t care about black people”, tutto nella sua carriera è una dichiarazione fatta con lo scopo di dimostrare il suo essere non sostituibile, più reale degli altri (semicit.). Peraltro, ascoltando il testo del suo ultimo brano “ye vs the people” (che trovate qui) appare palese quanto lui sia consapevole della sua stessa natura “perturbatrice” (oltre che messianica, ma ormai di quello ce ne siamo fatti una ragione):

I feel a obligation to show people new ideas
And if you wanna hear 'em, there go two right here
Make America Great Again had a negative perception
I took it, wore it, rocked it, gave it a new direction
Added empathy, care and love and affection
And y'all simply questionin' my methods

Un altro dettaglio importante è che Kanye non è Morrissey. Ha reso esplicito il suo appoggio al personaggio Trump, non alle sue idee o alla suo operato (per ora). Ha twittato anche apprezzamenti nei confronti di Donald Glover e sono sufficienti dieci secondi di Atlanta (ma voi guardatene più di dieci secondi, mi raccomando) per accorgersi che le sue idee non coincidono esattamente con quelle dell’amministrazione Trump. L’ammirazione verso il quarantacinquesimo presidente non ha, forse in modo un po’ naif, connotati politici, ma è un’attrazione culturale: sono entrambe figure importanti, influenti, da sempre controverse e soprattutto di primo piano della cultura pop americana di oggi. È sufficiente vedere il numero di meme a loro dedicati. Tutto si misura in meme nel 2018.



Proprio per questo anche l’argomentazione “non è obbligato ad essere democratico in quanto nero” è fiacca – non me ne voglia Chance the Rapper – perché viziata dalla stessa visione dicotomica “noi vs. loro” che ha ormai contagiato ogni dibattito rendendo qualsiasi posizione intermedia o ambigua difficile da accettare e comprendere. Insomma, lasciate che Kanye rimanga Kanye. E vogliateli bene sempre, che ne ha bisogno.

Davide Quercia

giovedì 26 aprile 2018

PERCHÈ AVENGERS: INFINITY WAR È IMPORTANTE


Dopo dieci anni dall’uscita del primo Iron man finalmente vede la luce l’opera per la quale abbiamo avuto il coraggio di affrontare ore e ore di perdite di tempo, villain posticci, personaggi piatti e trame scialbe. Finalmente, dopo dieci lunghissimi anni, arriva il momento di raccogliere i frutti di un piacevole sacrificio. Sono stati gli anni della nostra adolescenza e anche degli eroi, prima introdotti in sordina, accolti con un pizzico di scetticismo, poi adorati alla follia, poi mal sopportati e infine nuovamente trionfatori. Avengers: Infinity War non è importante per la sua realizzazione tecnica, ma per essere l’inizio della fine di un film lungo dieci anni, diciannove pellicole, il compimento di uno dei capisaldi della nostra cultura pop anni 2000.


Allora c’è il film, la trama, i dettagli più minuziosi che rimandano a questo o a quell’albo specifico, ma ci sono soprattutto le sensazioni, le travolgenti emozioni che questo universo aveva promesso da sempre di saper poi trasmettere, ma che finora non aveva intercettato a dovere. Si parla di due ore e mezza e di una generazione: un’opera, la sua genealogia, la fanbase e tutti gli altri. Andare in contro all’iceberg nella sua totalità avrebbe comportato delle difficoltà, e infatti delle difficoltà ci sono state.


Il numero di personaggi - dagli eroi ormai storici agli ultimi arrivati, passando per gli aiutanti, le guardie del corpo, i simpatizzanti - richiedeva un lavoro di scrittura esagerato, minuzioso al millimetro per far convivere delle singolarità tanto carismatiche, e la scelta, più che corretta, è stata quella di riunire per dividere. Non si tratta più dei film di Joss Whedon, non avremo più a che fare con stanchi momenti di riunioni di gruppo, ma l’azione prende il sopravvento sulla teoria spicciola e, a discapito di qualche nesso logico, i gruppi di eroi continuano a perseguire un obiettivo sparsi nella galassia. Se lo spazio però, in questo modo, viene sfruttato a meraviglia dagli sceneggiatori, non si può dire lo stesso del tempo, che torna come cardine centrale della pellicola e spesso sfasa alcuni momenti sfiorando l’incongruenza. Ma, alla luce della mole di lavoro, anche alcune forzature sono trascurabili rispetto all’oliatura di un congegno quasi perfetto.


La trama doveva essere magniloquente e lo è stata. Un mattatore su tutti, forse vero protagonista della pellicola: Thanos. Attorno alle sue azioni, ai suoi spostamenti e a quelli dei suoi sgherri ruota la narrazione della pellicola e i protagonisti talvolta sembrano trasportati all’interno dell’opera, in particolar modo il gruppo di Tony Stark. Si tratta di un ottimo espediente per trasmettere l’inferiorità delle forze del bene rispetto alla nuova e più temibile minaccia di Thanos. La preparazione all’inevitabile battaglia finale è più una caccia al topo che lo studio attento di un piano. Non mancano dei momenti rivedibili, qualche scelta fatta per portare avanti una certa sottotrama o addirittura l’intero film, ma nel complesso ogni momento è funzionale allo sconvolgente finale e ciò conta più delle singole scelte.


Il tono del film stavolta cambia e viene finalmente in contro alle esigenze di un pubblico ormai stanco della solita commedia action-fantasy. A rappresentare il punto di svolta, oltre alla tangibilità della minaccia di Thanos - ben più reale già a partire dalla sequenza iniziale - è la motivazione che spinge il villain, una motivazione politica, comprensibile e proprio per questo ancora più folle. I protagonisti inoltre partono da una forte posizione di svantaggio non avendo un piano organico per contrastare lo strapotere del Titano e ciò li espone ad un rischio perenne di rimetterci la vita. Giochiamo costantemente a sfilacciare il filo della vita di personaggi amati e questo non può che colpire la nostra parte sentimentale, perché la minaccia stavolta è reale e più di un eroe sarà costretto a soccombere. Forse anche questa crudezza, questa malinconia anche nelle scene più scanzonate, questa pretesa di una giocosa serietà mancava agli episodi precedenti dell’epopea Marvel. Non è un caso che tutti i fan ricordino la morte dell’agente Coulson, quella di Quicksilver o ancora quella di Yondu. Forse è quando il meraviglioso e coloratissimo mondo Marvel si cala nella grigia vita reale che riesce ad esaltarsi, perché raggiunge vette di epicità solamente sperate e quando si parla di superuomini dotati di poteri che vestono un costume per salvare il mondo l’epicità fondamentale tanto quanto l’azione, tanto quanto l’umorismo.


Semplicemente, Avengers: Infinity War è una macchina perfetta che arriva dove deve senza lasciare nella al caso. È una grande storia che si regge soprattutto sul miglior villain mai visto nel nuovo corso dei conecomic americani, sia dal lato Marvel che per la controparte DC. È tutto ciò che avevamo sempre desiderato, ciò che ricercavamo dopo un ottimo Avengers, un buon Age of Ultron e un minimizzato Civil War. Avengers: Infinity War è le emozioni che volevamo provare da tempo.



PARTE SPOILER!



Se siete arrivati a leggere fin qui immagino abbiate già visto la pellicola. Proseguite a vostro rischio e pericolo.
Prima della visione avevo previsto tre morti illustri: Loki, Heimdall, Nebula; ho sbagliato solo a scegliere tra le figlie di Thanos. Poi il finale ha un po’ smontato le mie teorie. Ma andiamo con ordine.


Bisogna ammettere che tutti i personaggi sono stati trattati con grande eleganza e misura, ma, proprio a partire dall’opera da cui provengono, i Guardiani della Galassia si sono confermati una spanna sopra gli eroi terrestri. Ciò che li contraddistingue è proprio un’aura differente, unica, che viene trasmessa anche agli altri personaggi che interagiscono con il gruppo, come ad esempio Thor e Iron man. Gunn ha dato vita ad una creatura in grado di camminare da sola ormai. Succede molto all’interno dei Guardiani anche se si tratta di un film corale. Finalmente, dopo cinque anni, vediamo il tanto atteso bacio tra Quill e Gamora, al quale segue una repentina evoluzione della loro storia d’amore, velocizzata ulteriormente dalla minaccia di Thanos: Gamora infatti viene prima catturata e poi sacrificata per ottenere la gemma dell’anima. Vediamo il cadavere dell’aliena esanime in fondo al dirupo, eppure non riesco a capacitarmi della sua dipartita, perché la storia d’amore con Quill è appena sbocciata, perché non potrebbero esistere dei Guardiani della Galassia senza Gamora. Allora immagino che questa morte sacrificale possa essere reversibile con la restituzione della gemma dell’anima. Vedo un Quill distrutto recarsi a Vormir e gettare la gemma nel dirupo per la resurrezione di Gamora.


Sulle morti di Loki e Haimdall invece niente da aggiungere: i personaggi avevano fatto da tempo il loro corso ed è stato giusto sacrificarli all’interno dell’evento più importante del MCU.
Il resto della pellicola invece si poggia su un twist forse sottovalutato, un momento che sembra essere stato pensato per condurre ad una frase ad effetto, ma in verità nasconde il senso delle azioni di alcuni personaggi da quel momento fino al termine dell’opera. Sto parlando del viaggio nei futuri possibili del Doctor Strange, quando su Titano si isola dagli altri eroi per verificare quante possibilità avessero gli Avengers di vincere la guerra contro Thanos: 1 su circa 13 milioni. Da quel momento in poi il saggio Strange, il custode della nostra realtà sembra giocare contro i suoi stessi interessi e consegna la gemma del tempo a Thanos per salvare la vita di Tony Stark. Voglio fidarmi di Strange e di ciò che ha visto, probabilmente il futuro in cui gli eroi vincono contro il titano prevede anche la consegna della gemma del tempo - e quindi la sopravvivenza di Iron man -, prevede anche la disfatta finale. Allora tutto avrebbe senso e ci troveremmo perfettamente in linea con la parte due del film - in uscita nel 2019 - in cui la situazione dovrà per forza di cose ribaltarsi.


Il finale è stato straziante; che il film potesse effettivamente finire con il guanto dell’infinito completo era un evento pronosticabile. Ciò a cui avevamo pensato meno è stata la moria di eroi che ne è seguita. Un vero e proprio massacro che mi ha commosso in alcuni frangenti, come la scomparsa di Bucky che riesce a dire solamente: “Steve”; quella di Peter Parker tra le braccia di Tony e in generale tutti i Guardiani. È stato difficile affrontare un momento così carico di pathos, ma in questo caso la programmazione a lungo termine di Kevin Faige è andata contro gli interessi stessi dell’azienda. Se non fossimo costantemente a conoscenza dei prossimi 4/5 film del MCU in via di sviluppo avrei creduto a queste morti polverose, ma sappiamo già che in seguito ad Avengers 4 usciranno nelle sale il sequel di Spiderman Homecoming e Guardiani 3. Purtroppo questa scelta toglie una parte della drammaticità alla scena, si tratta solo di scoprire quando e soprattutto come tutti questi eroi torneranno in vita (o torneranno nel mondo reale). Restano però i momenti, quelli meravigliosi e toccanti, che anche una programmazione poco o troppo lungimirante non può cancellare. La svolta, come suggeriscono i titoli di coda, sarà rappresentata da Captain Marvel, supereroina di cui non conosco pressoché nulla e sulla quale non mi sbilancio, spero solo non si tratti di un deus ex machina troppo spudorato. E spero anche che non si faccia confusione con i paradossi temporali, ma vista la precisione degli sceneggiatori per questo terzo teamup, sono fiducioso verso il quarto capitolo.


Visto anche lo strumento utilizzato da Nick Fury nella scena post credit, sono dubbioso sulla destinazione del messaggio a Captain Marvel, non tanto per la collocazione spaziale quanto per quella temporale: la soluzione più semplice sembrerebbe essere l’utilizzo della gemma del tempo, ma se il guanto fosse andato distrutto o quantomeno danneggiato dopo lo schiocco di dita e non fosse più possibile utilizzare tale pietra rimarrebbe solo un ritorno al passato in maniera “manuale”. E se Captain Marvel fosse già nel passato? E se Nick Fury avesse inviato un messaggio al passato? In questo caso la paura sarebbe di veder cancellato dalla continuity spaziotemporale l’intero terzo capitolo degli Avengers. Ci sono pro e contro in ogni situazione. Probabilmente Avengers v Thanos parte II sarà ancora più difficile da scrivere, speriamo ancora più entusiasmante da vedere. Intanto i capoccia del MCU sono riusciti a farmi salire l’hype per Captain Marvel. Es el marketing.

venerdì 20 aprile 2018

A QUIET PLACE - UN PASSO AVANTI E DUE INDIETRO


Spettri, mobilio spiritato, oscure presenze e serial killer dalle maschere più buffe. Potremmo riassumere così gli ultimi anni del cinema horror, con ben poche eccezioni ad invertire un trend ormai di serie b. E proprio dal cinema minore sbuca quest’ardito esperimento di un horror silenzioso ed estremamente ansiogeno. A Quiet Place, scritto, diretto e interpretato dal comico statunitense John Krasinski, è un tentativo di ridare una certa parvenza di autorialità ad un filone decaduto nell’anonimato cinematografico. Gran parte della pellicola è rappresentata dalle condizioni poste a priori: l’evento scatenante dell’invasione aliena e il silenzio che regna incontrastato su una terra quanto mai regredita ad uno stato brado. Gli ultimi uomini rimasti sono costretti a camminare scalzi, a seguire linee di sabbia per spostarsi e a comunicare attraverso il linguaggio dei segni. L’idea di partenza è anche il presupposto credibile per dare un taglio stilistico particolare all’opera, che consiste in un film di una manciata di parole, in cui la tensione è costruita dai rumori e dalle immagini. Nel suo intento, A Quiet Place merita assolutamente un plauso e l’incipit in cui la famiglia protagonista subisce una grave perdita risulta di grande impatto sulla scia della bontà dell’idea originale. Eppure, quando l’opera sembra riuscire a compiere un passo in avanti verso un’autorialità e un’originalità fresche per il genere, la sceneggiatura mostra delle falle logiche e concettuali che stonano con l’impianto sostenuto fino a quel momento. Comportamenti inspiegabili, localizzazioni errate, fisica inesistente, situazioni semplici rivoltate all’innaturale. Dall’inizio alla fine del film, il crescendo di tensione - quella sì costruita con un certo gusto - è inversamente proporzionale al livello medio dell’opera. Ciononostante non mancano alcuni momenti topici centrati e apprezzabili, ma anche queste sequenze non riescono ad esplodere la loro piena potenza perché magari ridimensionate da una scena precedente o successiva. È un saliscendi di qualità ed emozioni che mostra alcune buone trovate, ma scopre troppo spesso il fianco si una produzione minore.


La qualità visiva, la realizzazione dei mostri non riescono a rendere A Quiet Place un’opera totalmente fondata sulla componente estetica; anche alla luce del concept di fondo, lo spettatore è costantemente portato ad un approccio insieme istintuale e ragionato al film e i punti a favore della pellicola spesso crollano sotto le questioni della mente. Per fare un esempio che non rappresenti uno spoiler per chi non ha visto il film: il mais è un fluido newtoniano?


Rendere i rapporti familiari all’interno del gruppo di protagonisti è stata forse l’impresa più ardua per Krasinski, costretto a sussurrare pochi dialoghi e a lavorare di sguardi e gesti. Alcuni momenti, come il dolce ballo intimo tra coniugi, la formazione del piccolo Markus, il ritrovo dei fratelli centrano la questione e rendono la caducità della quotidianità perduta. Rapiscono i mezzi di fortuna - ormai divenuti automatismi - con cui la famiglia Abbott cerca di superare il trauma dell’apocalisse aliena. Ma anche questi attimi di vita comune nella difficoltà rientrano perfettamente nell’imperfezione di fondo della pellicola che non riesce a trovare una continuità logica. Allora una scena toccante è rovinata da un personaggio che non poteva trovarsi in quel luogo, un fenomeno naturale che non si ripresenta così nella realtà.


A spiccare su un cast di livello è la giovane Millicent Simmonds, attrice sorda dalla nascita che interpreta un personaggio a sua volta sordo in un mondo ormai muto. La scelta è quanto mai azzeccata ed è apprezzabile il fatto che il plot twist si fondi proprio sulla disabilità del personaggio di finzione e quindi su quello reale dell’attrice. L’interpretazione di Simmonds rappresenta una delle note liete dell’opera, nonostante le falle maggiori ruotino proprio alla scrittura del suo personaggio.


Accolto dalla critica internazionale con entusiasmo contagioso, A Quiet Place era arrivato in Italia con ben altre aspettative, la speranza di trovarsi di fronte ad una mosca bianca per il cinema horror contemporaneo, un fenomeno di nicchia come era stato It Follows nel 2014, ma così non è stato e l’opera di Krasinski, seppur non detestabile, non è riuscita ad uscire da un empasse proprio del cinema indipendente. È la scrittura: croce e delizia di un esperimento riuscito a metà.

domenica 8 aprile 2018

MOTTA - VIVERE O MORIRE È UN MEZZO FALLIMENTO


Dopo la vittoria della targa Tenco per il miglior album d’esordio con La fine dei vent’anni, Motta era chiamato ad una conferma, all’esaltazione delle grandi capacità che aveva dimostrato prima nei Criminal Jokers e poi nel suo lavoro da solista: freschezza generazionale, personalità, energia.


Avendolo visto più volte dal vivo, posso dire con certezza che il cuore del Motta artista sia proprio nella dimensione del palcoscenico, dove la rabbia e la passione sfrenata animano un’esibizione travolgente. L’autore pisano aveva potuto sfogare la sua vena artistica anche grazie al mezzo del primo album, che si prestava alla perfezione ad una certa interpretazione del live. Una volta sul palco, Motta era La fine dei vent’anni e La fine dei vent’anni era Motta, in un perfetto connubio di creatura e creatore, che aveva forse realizzato il suo vestito migliore. Ma un lavoro come quello d’esordio nasce da una congiunzione astrale che collega l’esperienza di vita dell’autore, il momento storico della nostra meglio gioventù e una produzione illuminata, Riccardo Sinigallia. 


A discapito delle premesse generate dai due singoli rilasciati in anticipo rispetto all’uscita dell’album (“Ed è un po’ come essere felice” e “La nostra ultima canzone”) e in controtendenza rispetto al percorso artistico intrapreso da Motta, Vivere o Morire si presenta al pubblico come un significativo passo indietro dell’autore e della ricercatezza di un certo sottogenere musicale, il cantautorato indie. Alla carica emotiva, alla scrittura a tratti ardita, ad un sound casalingo ma nuovo subentrano elementi piatti, comuni e ripetuti che tradiscono due anni di attesa e di lavoro. L’amore sopra ogni cosa riempie testi non sempre ispirati e copre una componente musicale che meritava altri trattamenti. L’esperimento di un nuovo cantautorato italiano diventa troppo presto la copia di decine di altri artisti venuti prima e qualcosa che avevamo creduto esistere già scema improvvisamente per tornare indietro di alcuni anni.


Ma ciò che manca davvero in Vivere o Morire - e che più mi rattrista per il prossimo tour di Motta - è l’energia primitiva che l’autore aveva saputo infondere nel primo album e che aveva portato avanti serate che potevano fondarsi su pochi brani. Era una voglia di rivalsa sociale, per certi versi anche politica, che ritraeva un rimorso collettivo e un dispiacere; ma che ora si nasconde dietro un dialogo troppo soggettivo, troppo parlato tra un lui e una lei di finzione. Non basta qualche passaggio accettabile a salvare un lavoro nato male nella sua intenzione - certamente artistica e condivisibile - di non spingere sulla forza dell’autore. Non c’è mordente, né sperimentazione sonora. Per cercare di raccontare in maniera più approfondita il cuore, Motta ha dimenticato il suo cuore di artista.

martedì 3 aprile 2018

READY PLAYER ONE È UN CAPOLAVORO?


Tratto dal romanzo omonimo di Ernest Cline, Ready Player One è l’ultimo lungometraggio di un sempre più prolifico Steven Spielberg che esagera nell’infarcire la sua opera di citazioni e rimandi al cinema e alla cultura popolare nel contesto di un videogioco universale. La grande trovata dell’autore del romanzo è stata quella di creare il presupposto per una storia d’avventura per ragazzi che omaggiasse le sue stesse radici e il background ideale dello spettatore tipo. Oasis è mezzo unico per un citazionismo sfrenato, limitato dalla sola fantasia degli sceneggiatori. “Fantasia” è la parola chiave dell’opera, è ciò che Spielberg punta a stuzzicare con delle situazioni studiate e ricreate alla perfezione per sbalordire lo spettatore proprio al cuore delle sue passioni. Insieme al regista, siamo trascinati in un turbinio infinito di tutto ciò che ha contribuito ad animare la nostra fantasia e che ancora oggi è responsabile dell’uso che ne facciamo. Dal King Kong della prima sfida al Gigante di ferro - per rimanere nel seminato del trailer. Queste scelte, accompagnate da una regia popolare che non ha più alcun timore di rischiare per puntare all’apice, producono uno spettacolo visivo innovativo e audace che raggiunge vette emotive per certi versi immacolate.


L’impianto appena descritto si pone al servizio di un genere cinematografico tanto caro a Spielberg, quello dei film di avventura per ragazzi. La storia del ragazzo del ghetto abbandonato a se stesso che cerca la rivalsa sociale nel mondo virtuale ricalca una lunghissima sequela di topoi che, se da una parte rappresentano la più profonda citazione ad un ambito che il regista apprezza incondizionatamente, dall’altra tendono a tarpare le ali ad un’opera che nelle sue premesse e nella messa in scena poteva ambire ad un livello di originalità diverso. L’appartenenza ad un genere ben preciso rappresenta le catene di un prodotto che tende a chiudersi su se stesso e ad incensarsi in capo prima di aver saputo superare i suoi stessi limiti, per un merito costruttivistico, emotivo e forse non globale. Il più grande limite di Ready Player One è di rimanere incastrato nella sua stessa materia e di non dare mai l’idea di voler evadere da sé per proporre qualcosa di superiore. Sarebbe stato un lavoro più apprezzabile, forse completo e senza pecche se avesse saputo reinventare i canoni di un genere partendo proprio da un’opera autocelebrativa del genere stesso. Il finale invece suona come lo stesso screpolato violino dalle corde consumate, con la cassa scolorita. E forse noi spettatori, nella nostro roseo e appiccicaticcio bagno di nostalgia, avremmo voluto incontrare anche una scala per evadere.


Altra nota stonata è la comicità di alcune scene che non sempre si trova in linea con gli intenti dell’opera e quindi viene naturale interrogarsi sull’obiettivo della pellicola: la trama classica potrebbe far pensare ad un pubblico più giovane, anche avvezzo ad opere di formazione, mentre le citazioni di cui il film è pregno si rivolgono certamente ad una platea navigata e consapevole di alcuni capisaldi della cultura pop. La comicità segue pedissequamente il dualismo intrinseco di Ready Player One e talvolta questa schizofrenia risalta al di sopra della scena e della situazione corrente, ricordando la natura della finzione.


In una parola, Ready Player One è entusiasmante nella sua proposta, nel modo in cui alcune idee vengono sviluppate su schermo, nell’impianto cinematografico che regge un’opera “nostra”; ma tende troppo spesso ad accontentarsi di sé e dei suoi enormi meriti e non arriva dove sarebbe potuto arrivare, confermando certamente la bontà di un film destinato a diventare un cult assoluto, ma non la pietra miliare del cinema che poteva essere.