giovedì 29 ottobre 2015

NBT: CRIMSON PEAK

Un grande regista è soprattutto un abile narratore. Sa raccontare storie magnifiche attraverso le immagini, non importa se queste storie siano vere o meno, sa comunque farci appassionare ad esse.
La storia che ci racconta Guillermo Del Toro in “Crimson Peak” (2015) è gotica, grottesca. Un racconto di fantasmi che riprende le atmosfere e i luoghi descritti nelle allucinazioni di Poe e Lovecraft. L’orrore, l’orrido: ci vuol gusto per mostrarlo sullo schermo senza eccedere, senza volgarità, serve la mano raffinata d’un cantastorie perito.
“Crimson Peak”non è propriamente un horror (checché ne dica MyMovies) ma è una gothic story d’altri tempi che questo straordinario regista ha voluto portare al cinema conscio però di andare contro i gusti del pubblico, che infatti non ha apprezzato molto questo ritorno al gotico a giudicare dei miseri incassi del film. La trama si mantiene fedele agli stilemi dei romanzi gotici. La protagonista del film (Mia Wasikowska) è una giovane scrittrice americana che viene ammaliata dal fascino di un baronetto inglese (Tom Hiddleston). La ragazza decide di sposarlo e di trasferirsi nella sua villa nella contea di Cumberland dove vivono assieme alla sorella di lui (Jessica Chastain). In quella casa diroccata però non sono soli, ombre scarlatte scivolano nei corridoi e tormentano le notti degli abitanti.


Il film è stupendo, intrigante, suggestivo, mai noioso. Si nota quando un regista è realmente innamorato della storia che sta raccontando, la racconta con tono appassionato, con calore e partecipazione. Guillermo Del Toro ci consegna un film visivamente superlativo: scenografie fantastiche, effetti speciali di altissimo livello. Questo regista del resto è famoso per l’uso che fa degli effetti speciali nei sui film, non vengono usati solo per abbigliare lo spettatore ma sono spesso simbolici e pregni di significato. I fantasmi, il sangue, la villa diroccata … sono stati resi magistralmente. L’attenzione ai particolari in questo film è maniacale: sento che per apprezzarlo al meglio bisognerebbe che lo riguardassi ancora e ancora per poter cogliere tutti quei dettagli che sicuramente mi sono sfuggiti la prima volta (ad esempio sarei curioso di capire meglio la simbologia che sta dietro l’uso degli insetti).
Ritengo che per quanto riguarda il casting le scelte siano state azzeccatissime, gli attori sono perfetti per le parti che interpretano. Mia Wasikowska secondo me è un’attrice ingiustamente sottovalutata, ha un talento cristallino e un potenziale enorme. Eccezionale anche in questo film. Bellissima e perfetta nella parte della giovane scrittrice ossessionata dagli spettri. Tom Hiddleston e Jessica Chastain sono i suoi degni comprimari.


La scenografia in questo film è sbalorditiva, la villa nella quale è ambientata la maggior parte del film è stata costruita appositamente sul set in mesi di lavoro e il risultato finale è straordinario. Crimson Peak è un edificio vivo (“sembra che la casa respiri” dice Tom Hiddleston ad un certo punto del film), pieno di segreti e di scricchiolii. È una stamberga diroccata che sta letteralmente sprofondando nella terra argillosa sottostante. Del resto l’antica dimora inquietante custode di misteri occulti è un topos della letteratura gotica del diciannovesimo secolo.
Un altro elemento che ha catturato la mia attenzione è stato l’uso della violenza in questo film, una violenza esplicita (in inglese si direbbe graphic violence) , ma anche una violenza tanto esagerata da risultare poco realistica, quasi tarantiniana per certi aspetti. Non voglio fare spoiler quindi non posso entrare nel dettaglio delle scene ma vi posso dire che le ferite, le uccisioni e via dicendo sono rese sullo schermo in modo superbo e ne sono rimasto piacevolmente colpito.


Sono contento che il buon Guillermo abbia voluto proporci un film così demodé e che non abbia voluto conformarsi alle logiche di mercato, ci ha regalato una vera perla che spero venga riconosciuta come tale. Nonostante in realtà non siano presenti elementi rivoluzionari, pur rimanendo su canoni piuttosto tradizionali “Crimson Peak” riesce comunque ad essere un prodotto di grande qualità. È un film che sicuramente vi consiglio di andare a vedere al cinema e, se non l’avete ancora visto, vi consiglio anche di recuperare “Il Labirinto del Fauno” (un altro gioiello di Del Toro).

Antonio Margheriti


martedì 27 ottobre 2015

COMMENTO AQUARIUS - EPISODI 2, 3 E 4

Queste sono le conseguenze di avere Sky on Demand: guardi un nuovo episodio, ti aggrada, lo commenti sul tuo blog e solo dopo scopri che in realtà ogni settimana ne vengono messi in onda due e quindi sei costretto a recuperare il terreno perduto con un articolo triplo. L’impresa è ardua. Sostenetemi.

Ricordate il domandone con cui avevo chiuso questo articolo? Mi domandavo come potesse reggere per tredici episodi una serie crime in cui il malfattore, mascalzone, ricercato principale, con la cui faccia hanno tappezzato ogni prodotto caseare, è ben noto ai detective che si occupano del caso fin dalla prima scena. Beh, ho ottenuto una risposta più che soddisfacente: il caso principale andrà ad intrecciarsi sistematicamente con altri casi minori e decisamente meno importanti che reggeranno il tempo di una puntata per poi essere risolti abilmente dal poco professionale ma funzionale Fox Mulder (che è sulla via del ritorno, non dimenticatelo). Questa decisione degli sceneggiatori pesa però terribilmente sulla natura dell’intera serie che quindi si conferma esattamente come un crossover, un ibrido tra CSI e True Detective ambientato nel 1967, poco prima che la rivoluzione hippie sconvolga il mondo. La scelta di diluire la trama principale potrebbe però, a lungo andare, ritorcersi contro gli stessi sceneggiatori che saranno costretti ad inventare sempre nuove soluzioni a nuovi casi per riuscire a non cadere nella banalità e nella ripetitività. Non commettere l’errore del Detective Conan insomma. Per ora la scelta sta pagando e la duplice struttura regge bene, seppur mostrando lievi scricchiolii nella parte iniziale delle puntate, quando i detective decidono deliberatamente di accantonare momentaneamente il caso principale per dedicarsi ad altro, nonostante la presenza di numerosi colleghi nel distretto.


Altro elemento emerso da  questo trittico di episodi è la caratterizzazione dei personaggi principali: David si mostra brutalmente superiore in ogni situazione lavorativo e ciò mina leggermente la credibilità del personaggio in una serie semifedele alla realtà dei fatti, ma nel privato toglie la maschera e lascia uscire la sua parte umana di uomo frustrato del divorzio e corrotto dall’alcool in passato. Un quadro generale tutto sommato non originale, nel senso stretto della parola, ma in ogni caso interessante da approfondire. Il coprotagonista invece risulta meno caratterizzato e a tratti piatto, se non fosse per la sua personale sottotrama legata al fatto di avere una bambina con una donna nera negli anni ’60 (comportamento visto non proprio benissimo dalla società civile). L’agente infiltrata nelle fila di Manson invece continua a rimanere un’enorme incognita. Sulla carta avrebbe le potenzialità per spiccare sugli altri ma finora è stata relegata ad un ruolo decisamente secondario. Indubbiamente però molto dedita al mestiere. Non capisco poi se gli autori hanno voluto lasciar intendere che ci sia del tenero tra lei e l’agente Shafe, tecnicamente sentimentalmente impegnato, o sono io che guardo le serie tv con i cuoricini al posto degli occhi, manco fosse la Stagione dell’Amore.


Lo sviluppo della trama principale legata a Charles Manson invece mi è parso abbastanza lineare e scorrevole, anche se la logica del criminale musicista sembra spesso essere confusa e contorta. Prima convince giovani ragazze a seguirlo, poi abusa di loro, poi le usa come merce di scambio o le convince a commettere piccoli furti per mantenersi e mantenerlo, ma ad un certo punto si scopre che il suo vero scopo è (o dovrebbe essere) quello di incidere un demo per sfondare nel mondo della musica folk. In quest’ottica non si comprende appieno il rapporto con il padre della ragazza rapita e il passato del malvivente. Ogni sua azione sembra inconcludente e fine a sé stessa; come se fossero tanti eventi messi in fila, e quindi facilmente comprensibili singolarmente, ma isolati tra loro. Un personaggio interessante e accattivante ma ancora difficilmente inquadrabile nello scacchiere della serie.
Un personaggio il cui sviluppo non mi è affatto piaciuto è invece quello di Emma: in sole quattro puntate è passata dall’innocenza di una dolce diciassettenne all’impudicizia più sfrenata. Ladra per il guru, prostituta per passione (!) e chi più ne ha più ne metta. Poco credibile il voltagabbana della ragazza nei confronti di una madre sì apprensiva e pedante, ma non tirannica. Qualche dubbio in più potrei nutrirlo per la controversa figura del padre, ma in ogni caso la scrittura del personaggio rimane poco convincente.



Una serie insomma che ha sfruttato finora solo alcune delle potenziali che ha dimostrato di avere. Indubbiamente non un prodotto di primissimo livello, nonostante un comporto tecnico invidiabile e degno di plausi. Il problema fondamentale è una scrittura ancora ancorata a modelli ormai superati dalle innovazioni introdotte dalla sopracitata Investigatori Veri e da Fargo (avete visto la seconda puntata? Presto il commento). Fosse uscita dieci anni fa sarebbe diventata in breve tempo un piccolo capolavoro, ma il tempo fa il suo corso e i modelli di riferimento cambiano. Tutto ciò per invogliarvi a scoprire con me se gli sceneggiatori saranno in grado di fare il definitivo salto di qualità sfruttando in particolar modo quel veterano di David Duchovny.

domenica 25 ottobre 2015

RECENSIONI DELLA SETTIMANA 19 - 25 OTTOBRE


FILM: Suburra (2015)
Uno dei film italiani più attesi della stagione cinematografica. Il regista di ACAB e Gomorra - la serie torna nel suo territorio preferito per raccontare una storia di droga, mafia, corruzione e vendetta. Se avete amato la serie tv basata sull’opera di Saviano (e soprattutto se l’avete fatto prima che i fantastici ragazzi di The Jackal la sdoganassero e la rendessero una parodia di se stessa), amerete questo secondo lungometraggio di Sollima.
Il film in sè mostra molti picchi di notevole qualità, spessore e densità scenica, ma purtroppo non è esente da difetti che potrebbero rendere l’intero prodotto appannaggio di pochi pazienti spettatori. Il ritmo di Suburra è infatti molto lento e il regista si propone di approfondire alcuni personaggi a mo’ di serie tv senza però riuscirci appieno. Elio Sebba Germano e Samurai infatti risultano più macchiette piatte e classiche che rappresentazione realistica del sottomondo corrotto romano. Tutto ciò porta ad un appesantimento di alcuni momenti che, considerando l’opera nella sua totalità, non hanno grande motivo d’esistere. Nella narrazione e nella caratterizzazione dunque un ibrido tra cinema e televisione che non sa né di carne né di pesce. Oltre a questo aspetto negativo ho notato anche una caricaturalità in alcune azioni che, se andate al cinema con amici, potrebbe portarvi a ridere di situazione in realtà drammatiche.
La trama invece coinvolge e riesce discretamente a tenere vive ed interessanti tutte le sfumature che compongono un quadro futurista ma neoclassico, minimalista ma barocco. Il pretesto perché tutto accada è in verità ingegnoso e ammirevole nella sua scrittura. Una sorta di cerchio che comincia a delinearsi in sordina e nel finale, in un tripudio di emozioni ravvicinate, si doppia, deraglia e porta alla conclusione tragica che chiunque si sarebbe potuto attendere ma che probabilmente nessuno sperava si avverasse. Una struttura perfetta, invidiabile e finalmente innovativa per il thriller all’italiana.
La fotografia stupisce per la sua forza visiva e riesce a rendere credibile una situazione sporca e cupa attraverso colorazioni caricate e perfettamente bilanciate. I montaggi sonori invece, grazie soprattutto alle musiche incalzanti ed evocative dei francesi M83 (grazie Davide Quercia), rappresentano i veri apici della pellicola. Midnight City all’inizio ci catapulta con grazia violenta nel mondo della corruzione italiana, Outro da brividi.
Il vero fulcro del film sono però i contenuti di denuncia sociale. Bande di criminali che tentano di governare il paese attraverso la corruzione in parlamento e nel Vaticano. A mio parere, Sollima si sarebbe potuto spingere oltre nella descrizione della vita parlamentare, ma quantomeno ciò che viene mostrato rappresenta fedelmente la realtà. Suburra era il quartiere più sudicio e malfamato dell’antica Roma. Tutto quel putridume si è solo rintanato dentro.
Una volta usciti dalla sala dopo la visione di Suburra ci si sente sporchi, colpevoli di crimini verso l’umanità. Ci si sente come ad aver intascato una mazzetta da un imprenditore. Ci si sente dei traditori. Questo film riesce perfettamente a rinnovare una mancanza di fiducia in una generazione di politici ingranaggio di un sistema più grande. La politica nel film è solo l’appendice di un intero movimento che non disdegna la delinquenza, ma che la pratica come stile di vita alle spalle di coloro che invece ancora credono in un mondo migliore. L’umore è nero fuori dalla sala perché finisce la speranza. VOTO: 8.5



ALBUM: Hurry up, We're Dreaming (2011)
E dopo il film contenente una loro colonna sonora, mi sembrava doveroso rece impressionare il loro ultimo (ma comunque stranamente datato) lavoro. Hurry up, We Are Dreaming è un doppio album composto da ben ventidue brani, e ciò potrebbe essere tradotto con la noia, ma non è affatto così. Le sonorità puramente elettroniche vengono spesso abilmente smorzate con accenni indie, alternative e soprattutto pop. L’eterogeneità, unita all’integrità di intenti e atmosfere ricercate, riesce a produrre qualcosa di meravigliosamente armonizzato. Non si tratta di un capolavoro che resterà negli annali, ma di un ottimo prodotto imperdibile per gli amanti del genere. I singoli estratti,e non solo quelli, trascinano l’album e lo rendono facilmente fruibile da chiunque.
Un appunto particolare per Outro, singolo di cui ho parlato già nella recensione di Suburra. Descrivere la musica è difficile, ma le emozioni che questo brano riesce a produrre sono uniche. Il crescendo di epicità, il testo minimale e le tonalità che toccano l’anima. Semplicemente la perfezione.
Commovente Raconte-moi une histoireVOTO: 8.5



ALBUM: Britalian (2014)

E dopo gli Osc2x torniamo a parlare dei grandi esclusi dell’ultima edizione di X Factor. Stavolta è il turno dei Van Houtens, duo pop punk italo britannico. Anche loro, a mio parere, avrebbero meritato un posto ai live del programma per qualità indiscutibili e componente di novità. Avevano anche raggiunto una discreta fama e un moderato consenso di pubblico alle audizioni con l’esilarante John Frog, ma tutto è andato in fumo per un atteggiamento un po’ spocchioso del duo che ha indispettito oltremodo il pubblico. Ma Fedez è giudice e la folla sceglie sempre Barabba; io c’avrei riflettuto meglio prima di non farli accomodare sulle sedie. Dopo tutte queste belle parole mi ritrovo però a dover parlare male del duo modenese: Britalian, EP uscito appena un anno fa, non riesce a mostrare le doti del duo e crolla subito al pari di un castello di sabbia in tempeste. I brani sono troppo differenti per sembrare frutto delle stesse menti. Alcuni momenti paiono proprio scadenti a livello musicale e in alcuni pezzi del punk tanto sbandierato neanche l’ombra. Non il modo giusto per farsi conoscere, ma le indubbie qualità rimangono. Speriamo di risentirli presto. VOTO: 5

venerdì 23 ottobre 2015

COMMENTO THE KNICK 2 - EPISODIO 1

Il Knickerbocker è tornato e finalmente quel vuoto che il tragico finale della prima, meravigliosa stagione aveva lasciato in me e in tutti gli accaniti fan della serie va ricolmandosi con nuovi drammi (medici e non) di inizio ‘900. L’ultimo episodio della scorsa stagione era infatti stato un climax ascendente di drammaticità. Continuare a raschiare il fondo. Tutte le linee narrative si concludevano nel peggiore dei modi: da John Thackery ricoverato in una clinica per disintossicarsi dalla cocaina con l’eroina e la morfina a suor Harriett acciuffata dalla polizia per le sue “opere di bene”, da Edwards apparentemente esanime sul putrido asfaltofreddo di una New York poco idealizzata alla compagna di Everett, disturbata e sdentata. Un vero tour nel profondo del fallimento umano.


Gli sceneggiatori hanno deciso di omettere un time skip tra le due stagioni in modo da rendere il tutto più frizzante e accattivante, sorvolando dunque sul periodo più buio (e sulla carta meno interessante) che sarebbe succeduto al finale della scorsa stagione. Vediamo quindi l’infermiera Lucy ancora follemente innamorata del protagonista, Edwards vivo e nominato nuovo primario, ma costretto ad appoggiarsi al dottor Bertie durante le operazioni a causa del distacco della retina dovuto alla famosa rissa che aveva chiuso la sua linea narrativa qualche mese fa, Everett più razzista che mai e ancora alle prese con i disturbi della moglie, la suora chiusa in prigione e l’autista, suo socio in affari, indaffarato a non far emergere il suo nome nelle indagini. E poi c’è lui, John Thackery, ex primario e faro dell’intera prima stagione. L’elemento centrale di congiunzione tra tutti i personaggi che ora tenta di sopravvivere tra una dose di eroina e una di morfina nell’istituto in cui era stato recuperato qualche tempo addietro. Non ci è dato sapere quanti giorni, settimane o mesi siano passati da quel tragico giorno, ma la sua situazione sembra solo essere peggiorata, ma se da un lato lo spettatore può realmente provare pietà per un luminare della scienza ridotto a tossicodipendente sociopatico, dall’altro un ragionamento logico invita a pensare che, viste le premesse, il fatto che sia ancora vivo è più di una conquista enorme. Questo stato di Thack però lo esclude quasi totalmente dalla narrazione del primo episodio che si concentra sostanzialmente sul Knick. Il Knickerbocker è infatti sul punto di chiudere per trasferirsi in un quartiere altolocato e liberarsi finalmente di quegli sconvenienti poveri (mannaggia a loro!) che riempivano i letti dell’ospedale. Per fare ciò però c’è bisogno di un nuovo medico chirurgo. Il consiglio sceglie quindi di assumere un anziano signore dalle dubbie capacità, e quindi di relegare Edwards al ruolo di aiuto primario spogliandolo della sua carica ad iterim, una decisione naturale e comprensibile visto il livello medio del consiglio d’amministrazione del Knick. Il medico afroamericano si adira quindi per la mancata presa in considerazione della sua candidatura a primario, ma io credo che, una volta tornato John al comando, gli sceneggiatori riserveranno più di qualche soddisfazione alla pecora nera (in tutti i sensi) sella prima stagione.


Ci viene mostrata anche l’evoluzione, in realtà minima, del rapporto tra Lucy e Bertie. Lui ancora innamorato, lei ancora poco propensa a considerare le avance del chirurgo, ma non per questo lontana da lui. Un rapporto che spero si concluda nel migliore dei modi nel corso di questa stagione.
Edwards invece ritrova Cornelia, di ritorno da una spiacevole parentesi a San Francisco. Stavolta devo andare contro le scelte degli scrittori: riproporre nuovamente le stesse situazioni tra il povero medico e la giovane rampolla ora sposata mi sembra rigirare l’avambraccio nella piaga e riciclare quanto visto nella prima stagione. Non tutto il cast di uno show televisivo deve per forza essere presente anche l’anno successivo e in questo caso avrei preferito un allontanamento o almeno un notevole ridimensionamento del personaggio di Cornelia (maledetta, dovevi tenere il bambino!).
Tutto ciò accade dunque prima del grande salto e soprattutto in assenza del vero elemento d’interesse di tutta la serie: Clive Thack Owen. La chiave della svolta è però l’invidia del dottor Gallinger che, in un atto puramente egoistico, almeno a mio parere, rapisce l’ex primario e lo porta nell’Oceano Atlantico a bordo di un’insignificante barchetta per farlo rinsavire ed aiutarlo realmente nel percorso di disintossicazione dalle varie droghe di cui non può fare a meno. Considerando Gallinger quello della scorsa stagione, questo è solo il modo di rientrare al Knick senza dover sottostare agli ordini di un medico nero. Non vedo traccia di amicizia. Altrimenti il rapporto tra i due ex colleghi sarebbe proseguito anche durante le avversità, cosa che non è stata.


Thack quindi soffre dannatamente ma riesce a fare i dieci nodi e finalmente decide di tornare. Ma finalmente per chi? Non ho apprezzato particolarmente questa scelta di riabilitare la figura del protagonista dopo appena quaranta minuti dall’inizio della stagione. Sembra quasi che venga dimenticato tutto il male che John ha fatto a se stesso, a Lucy e al Knickerbocker appena pochi mesi prima per poter ricostruire una narrazione organica fondata sul suo carisma e sull’indiscussa abilità dell’attore. Una sorta di forzatura che evidenzia i limiti del realismo. La televisione si avvicinerà sempre più, fino a raggiungere un distacco infinitesimale, ma non riuscirà mai davvero a riprodurre tutta la realtà. La realtà è noiosa, dilatata, poco interessante e poco accattivante. Qui emerge il distacco tra finzione e realtà, purtroppo. Ma sono scelte.
A questo punto immagino che venga ricostituito il corpo chirurghi iniziale e che le novità di trama arrivino dal cambio di sede. Perché si cambia sede, vero? Chissà.


Dal punto di vista tecnico invece The Knick si conferma la perla ammirata qualche mese fa. Soderberg riesce a riprodurre fedelmente un Novecento che strizza l’occhio allo steampunk, al noir e al period drama classico. Un miscuglio di generi che, unito alla perfezione stilistica del regista e alle meravigliose musiche elettroniche di Cliff Martinez confeziona un prodotto perfetto e a mio parere troppo sottovalutato. Recuperate la prima stagione e lasciatevi avvolgere dal lato oscuro della New York perbene.

mercoledì 21 ottobre 2015

BACK TO THE PRESENT

Finalmente il giorno è giunto; il giorno che aspettavamo da trent’anni. Il giorno in cui Marty e Doc arrivano finalmente a farci visita. Oggi finisce il futuro della trilogia di Zemeckis e comincia il nostro presente. Oggi è il #backtothefutureday. Purtroppo però, girovagando per il mondo (del web), ho trovato ripetute troppo spesso le solite battute sul fatto che il 2015 ipotizzato dal film del 1989 è assai differente da quello reale. Potrebbe quindi questo giorno-tributo, una volta terminato, scalfire l’enorme successo che le pellicole in questione ottengono incondizionatamente anche ai giorni nostri? Il fatto che i nostri baldi viaggiatori del tempo appartengano ormai in tutto e per tutto al passato, potrebbe rendere la trilogia meno appetibile alle nuove generazioni?


Partiamo innanzitutto dai film: i tre capitoli di Ritorno al Futuro fondano il loro successo sull’intreccio intricato, sui protagonisti iconici e sui riferimenti alla cultura pop. L’intreccio colpisce in particolar modo considerando i primi due capitoli come episodi di uno stesso grande progetto (tralasciando quindi il terzo che, come ben sapete, si discosta molto dal “continuum spazio-temporale” della serie). Gli spettatori sono  invitati costantemente a notare i dettagli, ad imparare bene i nomi dei luoghi e dei personaggi principali, perché solo questo atteggiamento sveglio e attento consente loro di ottenere grandi soddisfazioni nella scoperta di piccoli colpi di classe quali il dialogo tra Marty e il futuro sindaco nero o il nome del centro commerciale che cambia nel futuro a causa dell’incidente del protagonista. In questo modo lo spettatore è invogliato a prestare particolare attenzione ai più piccoli dettagli perché, specialmente quando internet non era un sistema diffuso in tutte le case (secoli fa ormai), poteva vantarsi di aver scoperto un preciso easter egg che altri non avevano notato. Nasceva così quindi l’attenzione spasmodica e morbosa che la serie ha ottenuto fin dalla prima uscita nelle sale. Film che invitano lo spettatore a tendersi in avanti.
Associato a questa componente, perfettamente gestita dagli autori, la trilogia presentava un’attenzione particolare alla cultura pop soprattutto contemporanea, ma anche passata ed eccezionalmente futura. Nei primi due film infatti venivano ripresi molti fenomeni di culto, oggetto storici o icone immortali. Un esempio di queste ultime era Chuck Berry, esilarante verso la fine del primo capitolo quando, chiamato dal cugino Marvin, si ritrova faccia a faccia (o meglio, orecchio a orecchio) ad un suo futuro capolavoro, la celeberrima Johnny B. Goode. Anche i riferimenti al futuro, cioè legati al secondo capitolo, non sono da intendere, a mio parere, come semplici riempitivi e ipotesi campate in aria, ma rispecchiano chiaramente la visione che la cultura pop proponeva del futuro. Visto nel 1989, il secondo capitolo portava il pubblico ad uscire dalla sala sorridente perché assecondato nelle sue fantasie fantascientifiche futuristiche. Film che si tendono in vanti verso il pubblico.


E poi ci sono loro. Due pezzi immortali della storia del cinema. Doc Emmett Brown e Marty McFly; Christopher Lloyd e Michael J. Fox. Lo scienziato folle ma geniale e il ragazzo scapestrato ma simpatico ed irresistibile. La strana coppia che funziona ed ha parzialmente innovato le alchimie tra personaggi in film di questo genere. Due simboli degli anni ’80 di cui ricordiamo ancora tutte le battute a memoria.

“Grande Giove”

Se i miei calcoli sono esatti, quando questo aggeggio toccherà le 88 miglia orarie, ne vedremo delle belle, Marty”

“Penso che ancora non siate pronti per questa musica... ma ai vostri figli piacerà”

“Ehi, tu porco levale le mani di dosso!”
 (lo so, questa non appartiene ai due protagonisti, ma è comunque epica)

“Strade? Dove stiamo andando non c'è bisogno di strade!”

Battute ormai storiche, che, unite al character design dei personaggi, hanno reso cult il cult.
Questi secondo me i punti forti che rendono la trilogia ancora oggi amata da chiunque a livello mondiale. Ogni dettaglio è perfetto, ogni battuta o espressione è collocata al posto giusto e al momento esatto perché tutto scorra alla perfezione. Non film tecnicamente eccelsi, non personaggi profondi, tormentati e realistici, ma uno delle migliori saghe commerciali di sempre (se non addirittura la migliore). Si potrebbe poi parlare della componente fantascientifica, dei paradossi che tira in ballo il secondo film e parzialmente anche il primo, dell’eccezionale trovata di far ruotare i personaggi e fargli cambiare personalità senza mai snaturarli davvero, ma rendendoli sempre subito riconoscibili e amabili da chiunque. Così tanti temi e spunti di conversazione che su questa trilogia si potrebbe addirittura costruire una tesina per la maturità, cosa che vidi fare una volta, ma questa è un’altra storia.



I bimbi di oggi, che saranno poi i giovini di domani, apprezzeranno ancora Ritorno al Futuro tra cinque, dieci o vent’anni? Io credo che il mito andrà via via scemando verso una natura più cult (nel vero senso del termine) e quindi più legato ad un pubblico attempato (ah, la mia schiena!), senza però mai scendere nel genere di nicchia. Ma i capisaldi rimangono. Un giorno, non molto tardi, un bambino si rifiuterà di vivere le avventure del nostro Marty perché troppo vecchie, troppo lontane da lui. A quel punto dovrà essere la mia generazione a tenere vivo il mito della DeLorean, degli overboard e dell’almanacco sportivo, del cane Einstein e di Levi. Saremo noi a tenere in vita il cult che ha appassionato tutti e tanti ancora deve appassionare. Sperando che non veda mai la luce un remake/reboot, personalmente, credo che mio figlio non potrà esimersi dal gustarsi tutta la trilogia. In un giorno. Più volte al giorno. Povero bambino.

lunedì 19 ottobre 2015

COMMENTO AQUARIUS - EPISODIO 1

Dopo il ritorno alle serie TV di qualche giorno fa con il commento del primo episodio della seconda stagione di Fargo, rieccoci a parlare di prodotti televisivi con il pilot di Aquarius, una serie che non aspettavo, non conoscevo e non avevo intenzione di trattare. Ma poi ho vista la pubblicità in onda su Sky e mi sono convinto a darle una possibilità. A colpire la mi attenzione sono stati soprattutto l’atmosfera anni ’60 e David Duchovny, il mitico e indimenticabile Fox Mulder di X Files. A scatola sigillatissima ho quindi deciso di guardare il primo episodio senza particolari aspettative ma con molta voglia di scoprire qualcosa di nuovo e piacevole.
Come al solito ricordo di stare attenti agli spoiler che inevitabilmente farò nel corso dei vari commenti che, come per le altre serie serializzate che troverete su questo blog, tratteranno gli episodi due alla volta, primo ed ultimo esclusi.


La prima puntata si apre con un’avvenente ragazza che scappa di casa dalla finestra per raggiungere una macchina posteggiata poco lontano. Poi una festa gggiovane in cui il presunto ragazzo della fuggiasca di cui sopra viene sedotto e allontanato dalla confusione da una procace donzella. Intanto la protagonista di queste prime scene viene avvicinata da un paio di loschi figuri, evidentemente più grandi di lei, che la convincono a seguirli. La scena si sposta poi nell’abitazione dei genitori della ragazza scomparsa, che scopriamo essere un importante avvocato e un’importante casalinga (credo). Lei, in preda all’ansia, decide di chiamare il suo amico detective. Arriva finalmente in scena Fox, che in questa serie si ostina a farsi chiamare Sam, ma sappiamo tutti benissimo quale sia la sua vera identità. L’investigatore dell’occulto comincia quindi le sue indagini per ritrovare la figlia dell’amica. A questo punto, dopo un inizio frenetico, frizzante ed elettrizzante, ci si potrebbe tranquillamente attendere un rallentamento come abbiamo già visto in molte serie di questo genere giallo-poliziesco quali True Detective e Fargo (soprattutto Fargo 2, seguitela, mi raccomando), ma qui no; qui non accade. Il ritmo non accenna a diminuire e gli eventi si susseguono purtroppo senza essere davvero incisivi. Un indizio fondamentale per la risoluzione del caso è, ad esempio, il nome del rapitore svelato dal fidanzato della ragazza durante un interrogatorio improvvisato, ma anche questo sembra valere poco, visto il peso che gli viene dato. Le parole volano senza una virgola che possa ordinarle che ne possa dare importanza come io sto facendo in questa frase ad esempio. Per cui scrittura e gestione dei tempi da rivedere, ma non fastidiose o nocive alla narrazione; forse è solo una mia impressione.


Dall’altra parte c’è però il caso, la storia di base che si rifà a Charles Manson, personaggio storico realmente esistito. Un musicista criminale che negli anni ’60 fondò una sorta di setta nella quale invitava giovani ragazze innocenti per poi abusare di loro e impedirle di tornare alle rispettive case. Un uomo accusato di ben nove omicidi, svariati sequestri di persona e altri delitti ancora irrisolti. Satanista e, a giudicare dalla svastica tatuata sulla sua fronte, anche alquanto nazista. Egli, in Acquarius, è l’antagonista principale a cui i nostri eroi dovranno dare la caccia (eroi, al plurale, perché a Fox si aggiunge dopo poco anche un giovane agente vicino ai movimenti hippie dell’epoca). Il personaggio di Manson è stato costruito in maniera alquanto ambigua e decisamente malata: sembra costantemente ossessionato dal sesso e gode nel rinfacciare le sue malefatte, nel giocare al gatto col topo con i suoi inseguitori. Un personaggio controverso che probabilmente nella realtà era in parte differente. Disturbante la scena dello stupro del padre della ragazza rapita, molto più ispirata quella della violenza sulla malcapitata protagonista.


Una serie quindi molto particolare che promette un giusto connubio tra la lentezza di True Detective e la velocità frenetica dei vari polizieschi seriali quali CSI, NCIS e tutte le sigle moderne che volete. Ciò che convince poco è la densità di eventi racchiusi nella sola prima puntata: si passa sostanzialmente dalla completa ignoranza sul caso alla verità rivelata, dal nulla al tutto. In una sola puntata della serie, per di più la prima, Fox scopre nome del rapitore, personalità legate ad esso e chi più ne ha più ne metta. Sappiamo dov'è la ragazza e quindi la componente di mistero non sussiste; sappiamo che suo padre ha avuto in passato dei contatti con Manson. Di questo passo in tre puntate la serie è bella che conclusa. Come occupare tredici episodi, come ravvivare una storia che sembra già aver trovato la via della conclusione? Chissà, ma la curiosità è molta.
Tecnicamente invece Aquarius stupisce per la qualità della fotografia, per le musiche evocative e molto presenti e per la ricostruzione pressoché perfetta degli States nei sixties. Colori psichedelici e brani azzeccatissime. Le interpretazione però non risultano degne di nota, anche se David è sempre perfetto nel ruolo dell’agente turbato (io punterei qualche spicciolo sulla dipendenza da alcolici in passato) e il suo braccio destro spicca tra gli altri interpreti. Un prodotto dunque interessante e da tenere sott’occhio. Magari non vincerà un Emmy, ma potrebbe essere in grado di intrattenermi(ci) piacevolmente per qualche mese. Recuperatelo e ditemi cosa ne pensate. Fatelo. Presto.

domenica 18 ottobre 2015

RECENSIONI DELLA SETTIMANA 12-18 OTTOBRE


FILM: The Martian (2015)
Dai, fate la battuta e poi cominciamo. Dite che l’America ha speso miliardi per recuperare Matt Damon, prima in guerra e poi perso per lo spazio, quest’ultima circostanza ripetutasi per ben due volte in poco circa un anno. Fatta? Avete ridacchiato da soli? Bene, cominciamo.
The Martian rappresenta il ritorno di Ridley Scott sui livelli che l’avevano reso grande in passato, dopo anni di tentativi falliti e forse di sceneggiature poco adatte alla mano del regista e al suo stile. In seguito ad una tempesta (senz’acqua), un gruppo di astronauti è costretto a lasciare Marte nel bel mezzo di una missione esplorativa. Prima di riuscire a raggiungere la navicella, però, il botanico del gruppo, Damon appunto, viene scaraventato lontano e, presi dall’agitazione del momento, i suoi compagni di viaggio lo abbandonano sul pianeta rosso credendolo morto sul colpo. In realtà così non è e il protagonista, una volta ristabilitosi, dovrà cercare di sopravvivere prima dell’arrivo dei soccorsi, che, considerando la distanza Marte-Terra, non sono proprio immediati. Da questo momento in poi la storia si sviluppa su due frangenti lontani minuti luce ma uniti nella volontà di non cedere alla morte: da una parte Matt comincia una coltivazione di patate su un pianeta decisamente non fertile e tenta di resistere ad ogni casualità avversa, dall’altro invece la Nasa si attiva per la programmazione di nuove missioni spaziali volte al salvataggio del malcapitato astronauta. Una duplice narrazione che mantiene lo spettatore con gli occhi incollati allo schermo e che evita di mostrare momenti di stanca cinematografica legati ad un personaggio che sostanzialmente non riesce a comunicare con nessuno se non con delle gopro (ehm, product placement?). Lo sviluppo è buono e Scott non si perde in riflessioni filosofiche inutili rimanendo fedele all’opera letteraria da cui il film è tratto (almeno a detta di chi ha letto anche il libro e magari lo ha fatto prima di andare al cinema). Ci si appassiona facilmente a questo Americano medio che tenta in tutti i modi di sfuggire al suo nefasto destino, componente questa del fato assai presente in tutta la pellicola. Dall’altra parte, al baratro del pessimismo sul quale passeggia il protagonista, si contrappone l’ottimismo e la passione di coloro che faranno di tutto per salvarlo, e non specifico di chi sto parlando per evitare fastidiosi spoiler. Dico solo che ho applaudito ad una scena legata ai dirigenti Nasa, indovinate voi quale.
L’accuratezza scientifica di cui si vantava il film prima dell’uscita è stata tutto sommato rispettata e la maggior parte delle azioni del naufrago su Marte vengono accompagnate da una breve descrizione che dà scientificità al tutto. Il finale però rischia di rovinare l’intera esperienza attraverso un espediente narrativo per niente credibile e più vicino ad un deus ex machina che alla reale conclusione delle disavventure spaziali. Una caduta di stile che potrebbe far storcere il naso ai più.
Di fondo, questo The Martian è un’americanata molto curata e come tale va presa. Non ci sono discorsi profondi, non si tenta di stupire l’intelletto dello spettatore, ma di divertirlo e appassionarlo. Un film commerciale insomma che vede nell’intrattenimento il suo più grande motivo d’essere. Se spogliato di aspettative eccessive ed esterne quindi, questa pellicola riesce ad essere un piacevole passatempo, magari a tre euro con i #CinemaDays.
Buone prove degli attori e ottimo comparto tecnico che però non osa come potrebbe preferendo la freschezza, la velocità e l’immediatezza. Peccato per la parziale sovrapposizione dei cast di The Martian e di Interstellar di Nolan, aspetto che potrebbe passare inosservato, ma che mi offre un’occasione da cogliere il prima possibile. Un confronto aperto non fa mai male. Spero di concluderlo presto. VOTO: 7.5



ALBUM: Under the Sun All Night Long (2014)
Fedez, Fedez. Che mi combini? Hai sentito quest’album prima di scartare bellamente gli OSC2X agli Home Visit di X Factor? Io credo di no.
Gli OSC2X, che devono il loro nome ad un sintetizzatore, o ad un programma di sinterizzazione, o ad una droga sintetica - ora non ricordo - sono un duo elettronico di Bologna e appena pochi giorni fa sono stati esclusi dai provini di X Factor nonostante avessero dato prova di discrete qualità e soprattutto di molta originalità. Incuriosito, mi sono rivolto alla rete per trovare altri loro lavori precedenti e mi sono imbattuto in quest’album. Under the Sun All Night Long tenta di rompere gli schemi che governano anche la scena indie italiana discostandosi sia dall’alernative che dall’house puro e proponendo un’elettronica a tratti pop, ma comunque innovativa per quanto riguarda il panorama musicale italiano odierno. L’album in questione parte discretamente con testi interessanti e buone alternanze di pura elettronica e di parti cantate; dopo pochi brani il prodotto però si affloscia sotto il peso delle aspettative generate in precedenza. In questo senso risultano significativi gli anni impiegati per la realizzazione del lavoro, ossia quattro; quattro lunghi anni che hanno generato grandi differenze tra i brani contenuti che non riescono quindi a convincere appieno. Dopo la metà dell’album però un paio di brani ben fatto e musicalmente più maturi, tra cui il singolo PAH, risollevano le sorti dell’esordio musicale del duo. In definitiva, un prodotto interessante ma decisamente di nicchia, che potrebbe non piacere o addirittura annoiare i più. Un genere evidentemente non adatto al bel pubblico per cultura e storia musicale.
Questo non me lo dovevi fare, Fedez! Non me lo dovevi fare!
VOTO: 6.5



FILM: Comportamenti Molto Cattivi (2014)
Un ragazzo si innamora di Selena Gomez e farà di tutto per conquistarla. Nel mezzo madri apparentemente morte, relazioni con le mamme dei migliori amici, la mafia lituana e qualche grammo di meth (non blu) che non guasta mai. Un film che mai mi sarei sognato di guardare, ma, convinto dai primi minuti della pellicola in cui un apparentemente simpatico giovinotto rompe gli schemi e parla alla telecamera di come la sia vita sia andata allo strafascio, ho commesso l’errore di farlo. E che errore! Un’accozzaglia indefinita di teen movie, volgarità, gangster movie, non-sense e battute davvero tristi. La volontà di cambiare canale era notevole, ma io non recensisco film di cui non termino la visione, per cui ho buttato un’ora e mezza della mia vita per non buttare dieci minuti. Viva la logica. VOTO: 3.5

sabato 17 ottobre 2015

COMMENTO FARGO 2 - EPISODIO 1

Dopo mesi di inattività in questo preciso settore ci risiamo. Ecco la serie da commentare che stavo cercando e che ci accompagnerà per i prossimi due mesi su questo blog. Dopo mesi di vani tentativi (TheWhispers) o di pilot troppo belli per essere poi criticati in questa sede (The Brink), la seconda stagione di Fargo è venuta in mio soccorso. Volendo essere totalmente sincero, preso dagli studi e dal recupero di serie più datate, all’epoca dell’uscita della prima stagione non ebbi il tempo di seguirla con costanza e quindi, a parte qualche spezzone sporadico su Sky Atlantic posso dire di averla completamente persa. Avrei certamente potuto recuperarla negli oziosi mesi estivi appena trascorsi, ma il distacco, sia temporale che logico, tra la prima e la seconda stagione mi ha portato a desistere. Ciò non vuol dire che non recupererò mai la prima, la cui solidità e accuratezza sono ormai note a tutti, ma solo che il mio personalissimo percorso sarà inverso e tutto dipenderà da questa seconda stagione.
Come al solito vi avverto della presenza di eventuali spoiler voluti ma non cercati, funzionali alla costruzione delle mie argute tesi. Ricordo inoltre che, come fu per True Detective, esclusi il primo e l’ultimo episodio che verranno analizzati separatamente, tutte le altre puntate saranno oggetto di commento due alla volta per evitare articoli troppo lenti rispetto ad altri e per avere il tempo materiale di trattare altre due serie (sorpresa delle sorprese). Quindi non mi rimane che cominciare.


Il primo episodio si apre con un’esilarante piano sequenza che simula una scena d’intermezzo delle riprese di uno show televisivo o di un film dell’epoca. In meno di tre minuti veniamo immersi nel mondo dei Cohen e della loro particolare comicità. Serietà, rigore, studio delle inquadrature e dialoghi surreali che in realtà sono molto più vicini alla quotidianità di quanto possa sembrare. Personalmente mi sono rivisto abbastanza e ho facilmente empatizzato con il regista che osa troppo dando dell’indiano ad un indiano e poi cerca di rimediare accennando alla Shoah. Semplicemente i Cohen. L’attenzione si sposta poi su quelli che sembrano essere i protagonisti della nostra storia ma che si riveleranno essere solo una parte del tutto. Un poco credibile malvivente deve dei soldi ad un uomo ben più minaccioso che si presenta poi come suo fratello. Inizialmente queste sequenze risultano un po’ confuse e poco accattivanti in quanto lo spettatore non riesce a cogliere il senso di tutto quello che passa sullo schermo, come se ci fossero dettagli non detti che in realtà darebbero senso al tutto. Un tipo narrazione per certi versi di nicchia e meno commerciale che potrebbe annoiare i più. Questa lentezza narrativa si prolunga fino alla metà dell’episodio circa, quando la scena nella tavola calda rivolta tutto e accelera l’intera puntata. Le interpretazioni magistrali del malvivente, un certo Bear (ma non ebreo) e soprattutto del giudice che cita Giobbe (al pari di un certo Samuel qualche anno fa) tengono altissima la tensione dello spettatore che rimane allo stesso tempo estasiato e turbato dalla tragedia che si sviluppa in due minuti. Poi comincia davvero il giallo e ci viene presentato l’agente che si occuperà delle indagini, o forse no, perché pochi minuti dopo lo vediamo lasciare le indagini al più anziano suocero. Da qui in poi la puntata rallenta nuovamente, senza però toccare gli abissi di prima, in attesa dell’esplosivo finale in cui viene introdotta una nuova coppia (il cui elemento maschile è quell’infame di Todd di Breaking Bad, ingrassato per l'occasione) legata in maniera meravigliosa con le altre linee narrative. Alle spalle di tutto ciò una famiglia mafiosa in lutto (doppio, ma questo ancora non è dato saper loro) che vede i propri averi minacciati dall’emergere di nuove famiglie poco raccomandabili.


Comincia così quest’avventura targata Cohen, e di Cohen ce n’è a bizzeffe. Ogni personaggio presentato in questo pilot è, a mio parere, ricollegabile ad un altro già visto e apprezzato nelle pellicole dei due fratelli registi. La coppia finale che scopre il malvivente intento a scappare dal loro garage potrebbe essere paragonata alla strana coppia Pitt-McDormand di Burn After Reading ad esempio. L’agente di polizia, attorno al quale ruoterà probabilmente l’intera serie, invece ricorda da vicino la stessa McDormand in Fargo, film da cui tutto ciò ha avuto origine. Maschere quindi consone al cinema dei due registi che stranamente non hanno inserito i loro nomi tra quelli degli scrittori, ma che evidentemente influenzano molto in qualità di produttori esecutivi.
Quello che ci si para davanti dopo circa cinquanta minuti è un dipinto ad olio crudo ma colorato, un dipinto con molte sfumature, assai grande e variegato. I personaggi presentati non sono pochi considerando che trattasi di miniserie giallo-noir, genere che spesso addossa sulle spalle dei soli protagonisti le responsabilità dell’intera narrazione e che abbozza soltanto i personaggi secondari limitandoli a macchiette utili allo sviluppo del caso. In questo frangente invece sembra che gli autori abbiano tentato di fare il contrario: il più caratterizzato è infatti Bear Gerhardt, ossia il mafioso che viene ucciso alla fine dell’episodio. Quello che invece dovrebbe essere il protagonista, ovvero l’agente Solverson (interpretato dal padre di Insidious), ci viene invece mostrato attraverso veli di stereotipi legati al genere che non lo rendono attivo, tridimensionale, ma piatto e passivo in attesa che la storia, in particolare la sua, ingrani. Sembra che questa serie faccia il contrario di quello che ci si aspetti e per questo la mia prima impressione è stata particolarmente positiva. Tutto quello che accade è impensabile e imprevedibile, e ciò contribuisce molto a creare il clima giusto perchè un prodotto così particolari riesca ad ottenere il seguito che in realtà ha. L’imprevedibilità mette lo spettatore nelle condizioni di seguire assiduamente la serie nonostante i tempi volutamente dilatati in alcuni punti.


Dal punto di vista tecnico invece Fargo ha confermato quanto di buono fatto vedere nelle prima stagione, puntando però maggiormente su campi stretti, telecamere fisse e su una fotografia più calda e curata che richiama le atmosfere 70s a discapito del fotorealismo. Gli attori hanno fornito tutti o quasi prove soddisfacenti, con pochi picchi che si elevano rispetto al livello generale medio-alto (e poi c’è la madre, non so se mi spiego). La colonna sonora invece è troppo sottotono rispetto alle altri componenti tecniche e non risalta quasi mai.
Cosa aspettarsi quindi da questa serie? I fratelli Cinema non si discutono e, al pari di Re Mida, trasformano in oro tutto ciò che toccano da diversi anni. Ho notato fin da subito una vena umoristica assai forte che a mio parere crescerà di pari passo con la drammaticità degli eventi narrati. Una forma di comicità che personalmente adoro. Per cui mi aspetto una trama semplice ma aggrovigliata su se stessa, una caccia agli uomini che cacciano altri uomini. Un prodotto innovativo in un sottogenere che ormai sta diventando saturo di prodotti medi che non si distinguono tra gli altri. Ma queste sono solo illazioni. Tempo per riflettere ce n’è, ce ne sarà. Siamo solo all’inizio.


venerdì 16 ottobre 2015

FIVE BY FIVE #2

Ed eccoci di nuovo con una nuova puntata. Per chi si fosse sintonizzato solo ora su queste frequenze, qui si parla di canzoni belle e fresche come il cocco in spiaggia. Ne sono uscite non poche in queste due settimane, ma una in particolare mi ha messo sinceramente in difficoltà: ne parlo o non ne parlo? Alla fine ho deciso di fare entrambe le cose: ne parlo, ma non ne parlo davvero. Il singolo in questione è Sappy, il primo estratto dall’album solista postumo di Kurt Cobain. Ero indeciso se parlarne o meno perché mentre lo ascoltavo non riuscivo a non far caso all’odore di manovra commerciale che le cuffie diffondevano insieme alle note. Inoltre il pezzo, che è praticamente una demo, è così intimo che ascoltandolo avevo la sensazione di star profanando una dimensione profondamente personale, quasi sacra, di un artista le cui luci e ombre   probabilmente non potranno mai essere comprese del tutto. D’altronde il brano è stato pubblicato ormai, è su Youtube a disposizione di chiunque e sarebbe stato semplicemente insensato far finta di nulla. Per cui, se volete, ascoltate Sappy e magari dite cosa ne pensate voi.  



Courtney Barnett – Shivers
Courtney Barnett non se ne sta seduta un momento. Quanti mesi sono passati dal suo eccellente debutto discografico? 3,4? Ed eccola che ha da poco diffuso un nuovo singolo, il suddetto Shivers, cover dei Boys Nex Door e prodotto, pensate un po’, da quella vecchia volpe di Jack White, un altro ben poco quieto (qualche settimana fa è uscito il suo nuovo lavoro con i Dead Weather, a proposito). L’abile tocco dell’ex striato si sente e introduce una cupezza inedita nello stile semplice ma tremendamente efficace della talentuosa australiana.
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Run The Jewels – Rubble Kings Theme (Dynamite)
Rivelazione hip-hop degli ultimi anni, il duo formato da El-P e Killer Mike dopo due ottimi lavori sembra avere ancora parecchi colpi nel caricatore. Da poco hanno pubblicato un album di remix, “Meow The Jewels”, realizzato campionando versi e suoni di gatti. Francamente mi sfugge il motivo per cui lo abbiano fatto, ma sono bravi quindi li giustifichiamo. Ad ogni modo Dynamite è il loro singolo nuovo di zecca, che non ha nulla a che fare con felini di alcun tipo ma fa parte della colonna sonora di un documentario sulle guerre fra gang che affliggevano il Bronx negli anni ’70. Non è male se vi piace l’hip-hop e anche se non amate questo genere vi consiglio di prestargli un orecchio.
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Majical Cloudz – Downtown
Duo pop-elettronico formato da Devon Welsh e Matthew Otto, i Majical Cloudz sono al loro terzo album, “Are You Alone?”, che esce il 16 ottobre. Downtown è l’ultimo singolo estratto e se il titolo non fosse abbastanza eloquente, ci pensa la musica a dissipare ogni dubbio sul tema. Downtown è serena e melanconica allo stesso tempo, ascoltandola mi sono immaginato in qualche grande metropoli, magari di mattina, magari per conto mio, circondato dal perpetuo moto di una miriade di persone, ognuna presa dai propri pensieri e dalle proprie storie. O forse non me lo sono immaginato ma l’ho ascoltata in metro andando in università. L’abbiocco mattutino tira sempre fuori il mio lato più poetico, che gioia.
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Daughter – Doing The Right Thing
I Daughter, inizialmente progetto solista della cantante Elena Tonra, sono un gruppo indie-folk inglese. Hanno debuttato nel 2013 con “If You Leave”, album carino ma nulla di più. Sembra più promettente Do The Right Thing, il primo singolo estratto dal nuovo album che uscirà nel 2016. Il brano e il video che lo accompagna è un racconto toccante, francamente il più riuscito che mi sia capitato di vedere o sentire, delle drammatiche conseguenze dell’Alzheimer o in generale delle demenze senili, e della consapevolezza di tutti i ricordi che andranno perduti. 
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Car Seat Headrest – Times to Die
Car Seat Headrest è probabilmente il peggior nome che sia mai stato dato a una band. Nonostante ciò potrebbe diventare la migliore rivelazione indie del’anno. Gli ingredienti ci sono tutti: testi intelligenti, a tratti criptici, bassa fedeltà, arrangiamento indistinto e disordinato più un tocco di psichedelica che non fa mai male. Il loro primo album, anzi il suo visto che Il Poggiatesta Del Sedile Della Macchina (terribile, davvero terribile) è in sostanza il progetto solista di Will Toledo, uscirà tra poche settimane, ma in realtà si tratterà di una raccolta di alcuni dei tantissimi singoli usciti nel corso degli ultimi anni. Times to Die è uno di questi. Per ascoltare un vero album di inediti di Toledo dovremo aspettare il 2016, è comunque interessante nell’attesa scoprire la sua evoluzione artistica.
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 Se tutto va bene, andrò a vedere “The Reflektor Tapes”, documentario sulla realizzazione dell’album “Reflektor”, appunto, degli Arcade Fire, quindi restate sintonizzati. Alla prossima!


giovedì 15 ottobre 2015

NBT: BLACK MASS

“Black Mass” (2015) avrebbe dovuto essere il film d’apertura della 72esima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica ma poi si è ritenuto che non fosse il caso di iniziare il festival con un film tanto violento così si è ripiegato su “Everest” (2015) come apertura. In ogni caso Black Mass è stato comunque uno dei film di cui si è parlato di più tra quelli presentati a Venezia soprattutto a causa della panza importante che ha mostrato Johnny Depp sul red carpet.
Il film può vantare un cast di tutto rispetto: oltre a Johnny Depp abbiamo Joel Edgerton, Benedict Cumberbatch, Kevin Bacon, Dakota Johnson e Jesse Plemons (che ha interpretato il bastardissimo Todd in Breaking Bad). Alla regia abbiamo Scott Cooper, un regista che non conoscevo e di cui non ho visto nessun film a parte questo. Devo dire però che Scott con “Black Mass” purtroppo non mi ha fatto venire voglia di guardare gli altri suoi lavori.



Il film è ambientato a cavallo tra gli anni ’70 e ’80 e parla dell’accordo tra il gangster James "Whitey" Bulger e l’agente dell’FBI John Connolly per stroncare il potere della mafia italiana nel North End di Boston. La storia (vera) su cui si basa il film è certamente interessante ma, a mio avviso, non è stata raccontata in maniera da coinvolgere lo spettatore nelle vicende narrate. Questo forse è dovuto anche al fatto che i personaggi in questo film non ispirano particolare simpatia, anzi si può dire che sono proprio dei gran figli di puttana, di conseguenza risulta difficile per lo spettatore parteggiare per loro. Il difetto principale di cui si macchia “Black Mass” è la mancanza di ritmo. Non c’è ritmo, non c’è tensione e conseguentemente il film in molte sue parti risulta noioso. Le scene sono spesso piuttosto banali e i colpi di scena di questo film sono scontati e possono essere previsti dallo spettatore in anticipo.
In realtà il solo motivo per cui la maggior parte delle persone andrà al cinema a vedere “Black Mass” ha un nome e un cognome: Johnny Depp.



L’interpretazione di Johnny secondo me è molto buona ma in questo film abbiamo la prova che è necessaria una buona regia e una buona sceneggiatura per ottenere un’interpretazione attoriale veramente memorabile. Vedete, qui Depp fa il suo onesto lavoro ma il film in generale è mediocre quindi anche la sua interpretazione di viene inglobata nella mediocrità. A mio avviso il personaggio di Whitey non è stato caratterizzato molto bene. Questo non è uno di quei villain che entreranno nella storia del cinema, non certo per mancanze di Johnny Depp ma perché gli autori del film non sono stati capaci di creare un personaggio veramente memorabile. Se la sceneggiatura e la regia fossero state migliori una diretta conseguenza sarebbe stata che anche il personaggio interpretato da Johnny Depp sarebbe risaltato maggiormente. Un attore, anche se magnifico come in questo caso, non più fare tutto da solo: è necessario un grande regista per esaltare un grande attore. Infatti Depp è famoso soprattutto per i suoi ruoli nei film di Burton che guarda caso è un dei migliori registi viventi. Con questo non sto dicendo che Johnny Depp è un cane senza Tim Burton, dico solo che un grande regista sa come tirare fuori il meglio dai suoi attori, cosa che in “Black Mass” non è successa.




Nonostante tutti i grandi nomi in gioco questo film non funziona. Non posso dire di aver visto un brutto film ma di certo “Black Mass” non si alza di molto dalla soglia della mediocrità. Per ora relego Scott Cooper nella categoria dei registi che non mi hanno saputo entusiasmare ma spero che in futuro saprà darmi torto e spero che riuscirà ad affermarsi (la fotografia di Takayanagi invece non mi è dispiaciuta anche se da sola non basta a risollevare le sorti del film).
“Black Mass” è un gangster movie che non mi ha lasciato molto, penso che lo dimenticherò in fretta. Sintetizzando al massimo si può dire che il problema di fondo è che manca di idee veramente originali: tutto purtroppo sa di già visto. L’unica cosa veramente interessante di questo film è stata la ragazza bionda seduta nella fila davanti a me al cinema.





mercoledì 14 ottobre 2015

MILANO EXPO È GARDALAND?

Ma come? L’Expo 2015 è ormai finito, tutti ne hanno già parlato, ormai non puoi neanche più criticare l’organizzazione italiana per i ritardi nei lavori e per il fatto di aver aperto l’esposizione con più cantieri che padiglioni finiti e tu scrivi solo ora la tua sull’evento mondiale? Si. Ho avuto la possibilità di andare a Milano soltanto sabato scorso e quindi ne parlo ora, anche rischiando di ripetere cose dette da altri, anche rischiando di essere ormai fuori tempo massimo.
Ma quindi questa esposizione internazionale assomiglia davvero a Gardaland? Per certi versi sì, ma purtroppo si discosta dal parco divertimenti per altri.


Feed the Planet, Energy for Life. Questa la tagline dell’evento. Nutrire il pianeta, energia per la vita. Da questi due brevi incisi è possibile cogliere al volo lo spirito che anima (o dovrebbe animare) una manifestazione di questa portata. Il tema centrale è dunque quello dell’alimentazione e dello sviluppo di questa nel mondo, cercando di far fronte alle mancanze strutturali ed economiche di alcuni paesi, in particolar modo quelli del terzo mondo. L’obiettivo pratico era quello di mettere a confronto in un evento del genere la moltitudine dei modelli dell’agricoltura mondiale per valorizzare le differenze e mettere in evidenza le falle che alcuni paesi avrebbero ovviamente presentato nell’esposizione della loro realtà. A ciò si sarebbe potuta aggiungere una componente effettivamente utile in un futuro prossimo, una sorta di trattato che modificasse parzialmente gli standard economici mondiali per andare in contro a quei paesi più  deboli che non riescono a provvedere da soli al sostentamento della popolazione. Perché ogni giorno muoiono ancora 26000 persone al mondo per cause legate alla fame e alla malnutrizione. Decisamente troppe per una società sedicente avanzata e attenta ai fabbisogni vitali di ognuno come la nostra. In questo senso riconosco il discreto lavoro svolto dalla Carta di Milano; questa deve però essere firmata dalle maggiori potenze mondiali e soprattutto non dovrà rimanere nei prossimi anni un insieme di belle parole scritte su pergamena. C’è bisogno che parole come ecosostenibilità o uguaglianza non siano solo uno specchietto per le allodole, una convincente campagna vuota. Basta proclami.


Una volta entrato, dopo minuti di cammino dovuti all’agevole distanza tra l’uscita della metro e l’ingresso della manifestazione, ho notato un piccolo stand improvvisato dell’Onu e uno leggermente più grande in cui i bambini erano invitati a disegnare sbizzarrendo la loro fantasia per poi appendere in bella mostra  i prodotti del loro lavoro, un’iniziativa consueta che mi ha dato però la possibilità di fare delle foto carine. Poi ho perso di vista le organizzazioni mondiali no profit, se non con qualche sporadica eccezione come Save the Children. Dal quel punto in poi sono cominciate l’autocelebrazione e la pubblicità. Per più di un chilometro non ho visto altro che paesi benestanti e benpensanti specchiarsi col loro vestito migliore, magari prestato, e multinazionali che approfittano della mancanza di fondi altrui per riempire i vuoti con irresistibile reclame.
Esiste la componente patriottica e quella realistica. Il fatto che queste due siano talvolta in contrasto non implica l’esclusione di una di esse dall’esposizione. Ho visto padiglioni scarni vantarsi di meriti futili mostrando omertà verso quelli che sono davvero i problemi della popolazione. L’Expo era una grande opportunità per conoscere nuove culture lontane dalla nostra, e sotto questo punto di vista tutte le potenzialità sono state sfruttate appieno o quasi, ma anche per i paesi ospiti di mostrare a noi europei la realtà che si vive ogni giorno in zone meno agiate della nostra. E invece no. Tutto questo non l’ho visto e, in qualsiasi padiglione si entri, sembra di vedere il nazionalismo americano, la precisione e il rispetto delle regole tedesco e la puntualità svizzera. Se tutti tirano l’acqua al proprio mulino i secchi si riempiono e da fuori sembrano tutti uguali.
Poi gli sponsor: padiglioni enormi che nulla hanno a che vedere con il tema principale della manifestazione ma che puntano unicamente a pubblicizzare il loro marchio. Passabile Beretta e Coca Cola, fastidioso ma sopportabile il McDonald, ma inaccettabile la Ferrero. Tre o quattro stand identici in cui lo spettatore può unicamente sedersi o sdraiarsi e guardare video promozionali proiettati sul soffitto. La nuova frontiera del marketing. Non si riesce a fare un passo che l’occhio cade inevitabilmente su un marchio conosciuto che poi ricorderemo a vita. I pubblicitari sanno il fatto loro. Ma c’è qualcosa che va oltre tutto questo squallore commerciale e commerciabile, ossia i padiglioni (o stand) dedicati ad aziende che non riguardano minimamente il cibo. Sto parlando di Alitalia/Ethiad e Technogym. Inspiegabili e ingiustificabili.



La mia giornata Expo, purtroppo rallentata dall’eccessivo numero di persone presenti domenica, si è conclusa con la visita di pochi padiglioni interessanti e quell’amaro in bocca che lasciano le situazioni attese e sperate ma dimostratesi una sorta di bluff. Quindi Milano Expo 2015 è una manifestazione da visitare e supportare? Assolutamente si. Il privilegio di averla quest’anno in Italia rappresenta un’occasione imperdibile e non tutto ciò che ho visto era da disprezzare. Le architetture ad esempio mi hanno colpito molto, in particolar modo quelle che sono riuscite a rispettare le peculiarità del paese che volevano rispettare; per fare un esempio, Argentina bocciata, Angola promosso. Il flusso di persone accorse nella capitale della moda in questi mesi e l’interesse mondiale che l’evento ha generato ne aumentano inoltre l’appetibilità per il grande pubblico. L’Expo non è pessimo, neanche disprezzabile nella sua forma, certo però dà l’idea di un killer professionista che insegue la sua preda per anni, la pedina, la studia, ne comprende le abitudini per poterle sfruttare a proprio favore e infine la bracca. Ce l’ha all’angolo, ormai è fatta. Dopo il classico discorso in cui svela la propria identità non deve far altro che premere il grilletto e scrivere la parola fine col sangue, ma clamorosamente manca il bersaglio, colpisce un parabolico coperchio metallico alle spalle della vittima e rischia di essere addirittura colpito dal suo stesso proiettile di riflesso. Ecco l’Expo 2015: inquadrare il bersaglio e mancarlo platealmente. Una passerella ricolma di sponsor dalla dubbia utilità. Un peccato e forse uno spreco. 

lunedì 12 ottobre 2015

RECENSIONI DELLA SETTIMANA 5-11 OTTOBRE


FILM: Burke and Hare (2010)
John Landis è uno della vecchia guardia, di quelli che facevano film per passione, di quelli che avevano qualcosa da dire e soprattutto di quelli che sapevano fare i registi. No scrittori, musicisti o politici prestati al mestiere. Un maestro che in passato ha sfornato capolavori del calibro di Animal House e soprattutto The Blues Brothers, immortale. Poi il crollo e un vuoto durato dodici lunghi anni, decisamente troppi, e infine il ritorno, con questa commedia inglese cruda e cupa. Burke and Hare non vuole essere nient’altro: niente filosofia, niente lezioni di vita, niente buonismo, solo la dura realtà di un periodo poco luminoso per la popolazione anglosassone. I protagonisti sono Pegg e Gollum, entrambi ben calati nella parte, anche se ci si sarebbe potuto aspettare di più dal Re, e la storia principale ruota attorno ai loro business legati alla vendita di cadaveri agli ospedali bisognosi. I veri problemi iniziano quando i protagonisti sono costretti a “crearsi” i cadaveri da rivendere per far fronte alle spese familiari e alla mafia. Decisamente una trama sporca che potrebbe non far pensare immediatamente alla commedia classica, e invece Landis riesce a far ridere di azioni illegali e scene assai crude al punto da portare lo spettatore a pensare di essere una persona cattiva godendo di tutta quella dissacrante ilarità (me compreso). Non un capolavoro ma un buon prodotto impreziosito da un finale che prende di mira il buonismo e gli sputa in faccia senza remore. Provare per credere. VOTO: 7



FILM: La Ragazza Del Mio Migliore Amico (2008)
Commedia americana che vorrebbe ricalcare i successi di altri modelli più famosi, ma allo stesso tempo, sfruttando anche la presenza nel cast del Jim di American Pie, aggiungere una componente demenziale e spinta, legata prevalentemente al sesso, che mirerebbe ad accalappiare un pubblico basso e per lo più giovanile alla ricerca di risate facilissime. Il risultato è un miscuglio grumoso di già visto e di volgarità gratuite. La fotografia e il sonoro dimostrano il discreto budget della produzione, ma questo da solo non basta a fare un buon film, mai. Alec Baldwin cerca poi di risollevare la pellicola attraverso un’interpretazione volutamente sopra le righe, ma non riesce nel suo intento e anzi affonda ancor di più il prodotto. Di solito, arrivato a questo punto della receimpressione dico che tutto sommato il film è riuscito ad intrattenere ugualmente lo spettatore e per questo non è da bocciare su tutta la linea, ma questa volta no. Non ci sono "ma". Non fa quasi mai ridere e questo basta per riporlo nel cassetto degli errori di una vita. Il mio errore è stato guardarlo. VOTO: 4



FILM: Liberi (2003)
Film low budget trovato per caso su Sky on demand che mi ha fatto passare due ore discretamente piacevoli. Le storie narrate sono due, parallele e collegate per alcuni aspetti: un padre di famiglia vicino alla pensione viene licenziato a seguito della chiusura della fabbrica in cui lavorava da anni ed è costretto a ricominciare e a riprendere il filo di una vita scappata di mano, il figlio invece ha vent’anni e vorrebbe scappare dal paesino in cui vive dalla nascita per conoscere il mondo, l’incontro con una ragazza potrebbe essere la sua via di fuga, ma questa soffre di attacchi di panico non appena sale su un mezzo pubblico. Queste due storie si intrecciano per dare vita ad un semplice agglomerato di dramma generazionale, film romantico e drammatico all’italiana. Le narrazione in sé non dimostra di avere grandi guizzi degni di nota ma una divisione inusuale degli spazi incuriosisce e mostra un minimo di coraggio. I colpi di scena sono abbastanza annunciati e non riescono a colpire al cuore lo spettatore nonostante vari tentativi, ma ciò che davvero mi ha colpito è la credibilità che ogni personaggio ha e che mantiene fino alla fine. i protagonisti sono un po’ piatti, sì, ma ogni battuta o espressione calza a pennello alla maschera che hanno dimostrato di indossare una volta davanti alla macchina da preso. Questo è un buon esempio di realismo all’italiana: sopperire a mancanze strumentali ed economiche con la precisione e l’accortezza nella pochezza. Un prodotto medio da non disprezzare. VOTO: 6



ALBUM: Let Them Talk (2011)
Mi aggiravo qualche giorno fa alla Feltrinelli vicina all’università, che ormai è diventata casa mia al punto da aver richiesto il cambio di domicilio, quando vedo la sua faccia. Barba, occhi chiari, sorriso sornione. Gli mancava solo il bastone ma era lui: il Dr. House, compagno di molte serate negli anni passati. Greg (che poi si chiamerebbe Hugh ma noi continueremo a chiamare Greg) è anche musicista e ha inciso un paio di album negli ultimi anni. Oggi parliamo del primo, ossia Let Them Talk. Il prodotto in sé non rispecchia molo le mie aspettative, ma probabilmente è a causa dei miei gusti in ambito musicale. Il genere del dottore è infatti un blues-jazz molto armonico che punta assai sul piano e sul ritmo. Le atmosfere sono quelle giuste, i suoni anche. Il tutto é pulito e preciso, quasi chirurgico (capita la battuta?), ma probabilmente non è il disco adatto da ascoltare in macchina la mattina per tenersi svegli dopo aver perso il momento del caffè causa ritardo fisiologico. Lo immagino più suonato dal vivo in un bar caldo, rosso e bordeaux, con il palco appena sopraelevato, uno strano profumo di whiskey e donne nell’aria e i tavolini circolari da bistrò francese molto vicini tra loro perché il suono non si disperda inutilmente nel vuoto. Se esistesse un posto così e Greg ci suonasse questo album probabilmente questo diverrebbe il mio preferito, ma qui dietro il computer non rende come dovrebbe. VOTO: 6.5