sabato 29 aprile 2017

PHILADELPHIA - A JONATHAN DEMME

Questa settimana il regista americano Jonathan Demme è venuto a mancare dopo una lunga malattia. Etichettato come mestierante, dopo gli esordi nella commedia, raggiunge l’apice della sua carriera tra il ’91 e il ’93, dirigendo due capolavori assoluti del cinema contemporaneo: “Il silenzio degli innocenti” e “Philadelphia”. Per questo breve omaggio vorrei  concentrarmi sul secondo, quello probabilmente più complesso, più sentito, più politico.


“Philadephia” è la storia di un processo, ma anche di un paese. Andy Beckett - interpretato da un fragile Tom Hanks - è un avvocato di successo nella Philadelphia dei primi anni ’90. Egli è gay e malato di AIDS, ma questo non gli impedisce di portare a termine egregiamente i suoi compiti di avvocato. Le cose cambiano quando una ferita evidente sul suo volto, segno della malattia, spinge i suoi superiori a licenziarlo con un losco espediente. Andy, reietto della società, avrà bisogno di un supporto legale per sostenere la causa contro quello che era stato il suo stesso studio legale. Troverà il sostegno necessario in Joe Miller, avvocato nero popolare, interpretato da Denzel Washington.
“Philadelphia” vive grazie alla sua collocazione spazio-temporale, ma il messaggio di fondo che si fregia di portare eleva la pellicola a capolavoro senza tempo. Il film si apre con una sequenza di immagini della città che scorrono sulle note di Bruce Springsteen. È una città sporca, complessa e divisa, che vive nello sfarzo dei quartieri alti e della miseria del ghetto. È una città che si chiude su se stessa e non ammette eccezioni. Sono gli anni più tristi, del dissenso e del razzismo, del boom economico di facciata e del degrado mondiale. La musica di Springsteen poi esalta questo senso di solitudine degli individui soli nella massa. Si percepisce il gelido vento di un inverno impietoso che mette da parte i sentimenti. In questo quadro complesso, Andy Beckett è l’eccezione che sfugge alla categorizzazione: l’uomo bianco, benestante avvocato di successo che si scontra con l’emarginazione e l’abbandono degli ultimi. E la società degli avvocati, dei festini al caviale non esita un secondo ad abbandonare il suo figlio, in nome del bene comune, della rispettabilità.


Dall’altra parte Joe Miller, avvocato degli ultimi, colui che ha visto naufragare la sua carriera nelle pratiche comuni degli ultimi. Più famoso dei suoi colleghi altolocati per una pubblicità virale in tv, Joe vive il suo ruolo lavorativo in maniera diversa: non frequenta posti di classe, tiene molto alla famiglia e alla neonata figlia, passa il suo dopolavoro a bere al bar del quartiere con i più miseri, talvolta con i suoi stessi clienti. Fin dal principio si percepisce un senso di mancanza nel personaggio di Joe, che non rispecchia nella pratica la sua stessa ambizione e soffre di una ghettizzazione ideale che, collegata alla scena d’apertura, trova la sua ragion d’essere nel colore della sua pelle. Nonostante questa caratterizzazione però Joe non è affatto un eroe, e l’essere cresciuto all’interno di questa città malsana si rifrange nella sua visione delle diversità. Il personaggio di Denzel Washington è infatti inizialmente riluttante ad accettare la proposta di Andy, ma il senso di difesa degli ultimi lo porterà a sfidare i suoi stessi pregiudizi per veder trionfare la giustizia.


Nel film, il discordo che prende piede con L’AIDS si allarga all’orientamento sessuale di Andy e alla chiusura di una società bigotta in contrasto con l’apertura di un mondo in movimento. Lo stesso Joe infatti esprime a più riprese il suo disgusto, il ribrezzo fisico che prova al solo pensiero di due uomini in atteggiamenti intimi. Ma se a parole la sua posizione non muta nel corso degli eventi, qualcosa in lui cambia dal punto di vista personale. Sono due scene in particolare a rappresentare gli snodi dell’evoluzione del personaggio di Joe Miller: quando rivede Andy ammettere la propria omosessualità davanti alle telecamere e quando il suo cliente, ormai amico, tenta di trasmettergli il senso d’isolamento a cui è stato relegato dalla società attraverso la lirica di Maria Callas. Joe sta inoltre per l’intero genere umano, chiamato nei primi anni ’90 ad un cambiamento epocale, ad un’apertura definitiva verso le sfumature di cui si compone il mondo. Entrando in contatto con Andy, egli scopre l’umanità di un gruppo di persone apparentemente diverso, la normalità di una famiglia che ha accettato senza riserve un modo d’essere e le difficoltà di confrontarsi giornalmente con un sistema che azzera la personalità nel luogo comune della regola.


Il processo di Andy è il luogo della diversità che vince sulla paura che da sempre regola le interazioni impersonali. Le discriminazioni sul posto di lavoro e le battute infantili nell’ambito privato. Perché ancora oggi, con la forza del riconoscimento delle unioni civili, riusciamo a trovare l’ilarità nella discriminazione in larga scala. Ancora oggi sappiamo scindere benissimo il mondo tra chi vive nella maniera corretta e chi pecca nelle sue scelte, ma non riusciamo a vedere il fondo di ogni vita, che è la base di un essere umano comune, con le sue ombre, le sue fragilità. Non dovrebbe essere permessa la negazione della libertà e della dignità, valori ultimi che reggono l'umanità dell'essere.
Il processo di Andy è il processo evolutivo a cui era chiamata quella buia popolazione di Philadelphia, a cui noi siamo chiamati ancora oggi, nel moto a ritroso del nostro medioevo spirituale. Perché la trasformazione sociale potrà dirsi compiuta quando l’ultimo uomo avrà letto e compreso l’anima del prossimo, dell’ultimo. Quando egli avrà trovato se stesso nella sofferenza dell'altro.

E questo valore assoluto rimarrà, anche dopo la morte di Jonathan Demme.

giovedì 27 aprile 2017

ASPETTANDO COVENANT: ALIEN - LA CLONAZIONE

Ce n’era bisogno? Non ce n’era bisogno. Dopo la conclusione pressoché perfetta delle avventure di Ripley nel film precedente, la produzione aveva in mano ben poche carte da giocare per riaccendere la fiamma della serie. E un Alien senza Sigurney Weaver era considerato una manovra fallimentare in partenza. Come ovviare allora all’annoso problema della morte del personaggio cardine di una serie di film? Semplice: spostiamo gli eventi nel tempo di duecento anni e rendiamo plausibile la clonazione di Ripley (da cui il titolo del film). Una scelta così lontana dalla origini però pesa sull’intero prodotto e non fa che avvicinare l’opera quarta del brand ad un gusto action che non rispecchia più la filosofia delle origini.


Dopo quattro lunghi film, la molla che produce l’azione è ancora la stessa di sempre: una corporazione terrestre ha in mente di mettere le mani sull’arma biologica rappresentata dagli xenomorfi e farà di tutto per riuscire a recuperare un essere della specie aliena. In realtà l’aggancio che “Alien - la clonazione” cerca di creare con il suo predecessore non è affatto pessimo, poiché riesce a mantenere un legame tra il ritorno forzato di Ripley e la nuova ondata di xenomorfi. Il problema è che la struttura abusata, a partire da “Aliens”, di un’opera a metà tra l’horror e l’action, che si risolve sempre con un atto di eroismo della protagonista, spegne ogni forma d’interesse e non riesce a trovare il guizzo giusto per ridare originalità ad un film che sa di già visto.

Alien - the clone wars

Eppure i presupposti per un nuovo grande capitolo c’erano tutti: Jean-Pierre Jeunet in cabina di regia, Joss Whedon alla sceneggiatura, un cast di livello e l’utilizzo di una CGI più adatta rispetto al film di Fincher. E infatti il film non manca di alcune sequenze ben realizzate, decisamente all’altezza dei film precedenti, come la fuga sulla scala o la scena nella stanza della regina. La regia più ricercata di Jeunet, pur non risaltando particolarmente nelle sequenza d’azione - talvolta appiattite - riesce a ricreare un ambiente realistico, ma che al contempo sembra voler sottolineare lo stacco temporale che intercorre tra il terzo e il quarto film della saga. Come il suo predecessore, “Alien - la clonazione” è un’opera di fantascienza, ma si tratta di una fantascienza differente, tendente ad un futuro ancor più remoto. Questa caratterizzazione dello spazio viene accentuata anche da una colonna sonora che prende le distanze dalle musiche che avevano accompagnato l’originale Ripley.

Quegli occhi umani

Jeunet non abbandona gli elementi ideologici e politici che la serie porta avanti da quasi trent’anni, come la questione degli androidi, che torna con una maggiore carica nel personaggio interpretato da Winona Ryder. L’evento centrale della clonazione di Ripley saprà inoltre aggiungere una componente riflessiva all’opera. Quanto c’era di umano nell’ultimo xenomorfo espulso violentemente attraverso il forno nel vetro? Cosa resta di umano dopo una serie di esperimenti genetici di questa portata?
La risoluzione degli eventi - senza la risoluzione dei dilemmi etici - lascia spazio ad un finale drammatico e carico di pathos, ma indubbiamente lontano dalla vetta della morte sacrificale di Ripley. Il clone e l’androide si interrogano sul senso delle storie del mondo, sullo sfondo di una Parigi devastata dall’uomo.


Le avventure di un’iconica Ripley terminano con questa malinconica chiusa, alla ricerca di un senso per la devastazione che abbiamo dovuto ammirare nel corso di quattro lungometraggi. Il vero problema di questo quarto capitolo della saga è quello di venire dopo tre episodi meritevoli di aver esplorato a dovere le possibilità offerte da un concept di fondo meraviglioso. Se l’opera di Jeunet fosse staccata dal brand di Alien e portasse un altro nome, probabilmente staremmo parlando di un cult di successo degli anni ’90, ma l’effetto more-of-the-same che pervade la maggior parte delle scene di questo film non può non spegnere l’interesse degli spettatori. In verità l’intera saga ha dimostrato di non voler ricercare l’originalità narrativa, quanto soddisfare il palato più facile di un pubblico di massa a partire dal secondo capitolo. E “Alien - la clonazione” non è altro che l’evoluzione naturale di una saga in fase calante, che si muove a braccetto con l’abbassamento del gusto collettivo.
 
Quando è lunedì 24 aprile e la tua università non fa ponte


Anche per oggi abbiamo concluso l’analisi non richiesta di questo capitolo non richiesto. Dopo le avventure di Ripley, e prima di giungere a "Prometheus", l’attenzione di InsideMAD si sposterà sugli spin off, sugli spin off crossover, su “Alien vs Predator”. Ci vuole molto coraggio per andare fino in fondo.
A mercoledì prossimo, segnatevi l’appuntamento nell’agenda, mi raccomando.

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mercoledì 26 aprile 2017

GUARDIANI DELLA GALASSIA VOL. 2 E LA FANTASTICA IMPERFEZIONE

Il secondo capitolo dei Guardiani della Galassia si fonda sulle basi stilistiche e logiche poste dall’opera prima nel lontano 2014, virando però verso un approfondimento nuovo dei protagonisti e delle loro dinamiche di gruppo. Se l’inizio in medias res ci ributta nella mischia dello scontro spaziale, la prima parte della sceneggiatura non spicca per una coerenza particolare e lascia spazio ad una serie di sequenze sì divertenti, ma non esattamente amalgamate alla perfezione. L’analisi introspettiva dei personaggi però saprà ricongiungere i lasciti di questi siparietti in un messaggio di fondo univoco, di rimando dal film precedente, ma indubbiamente più centrale in quest’opera.


A differenza del primo film, in questo secondo “Volume” gli scalmanati ragazzi di Starlord si allontanano dal centro dell’azione, mossi da una ricerca che è resa attraverso Ego, il padre di Peter, ma che sta a rappresentare un percorso collettivo di maturazione del gruppo come “famiglia”. Questo movimento centripeto porta la banda ad abbandonare la ribalta: non aspettatevi folle festanti al termine del film. Tale scelta influisce anche sui rapporti che il film intrattiene con il Marvel Cinematic Universe, riducendo ai minimi termini i riferimenti specifici al sommo Thanos e al suo progetto di distruzione, rinunciando a camei insperati e all’introduzione del prossimo “Thor: Ragnarok”, film sulla carta più vicino ai Guardiani. Se da una parte questo tentativo d’indipendenza potrebbe infastidire i fanatici dei collegamenti tra film del MCU, dall’altra trova i favori di chi, come me, ha sempre sperato in uno spazio che potesse valorizzare al punto giusto il gruppo dei Guardiani.
Guardiani della Galassia Vol. 2 si pone quindi come uno stand alone sull’universo di Peter Quill che vuole andare più in profondità rispetto al primo film, aprendo una parentesi che contiene in sé più risposte che domande, pensata per concludere alcuni archi narrativi. Questa peculiarità del film, che lo differenzia significativamente dagli altri prodotti del MCU, è però anche il punto debole di una sceneggiatura che non vuole volontariamente raggiungere i picchi di epicità del primo capitolo e che risente di alcune mancanze a livello narrativo. Il fatto che, all’interno di una trilogia cinematografica, il capitolo di mezzo appaia così slegato dalla trama centrale può essere inteso come una scelta fallace.


Dal primo momento in cui ho visto “Guardiani della Galassia Vol. 1”, ho subito pensato potesse diventare con il tempo il corrispettivo per la mia generazione di ciò che era stata la trilogia classica di Star Wars per la generazione dei nostri padri, ma l’opera di Lucas aveva una progettualità e una libertà d’azione che hanno davvero reso possibile la creazione di un universo in espansione poggiato sui primi tre film. La scelta di James Gunn di allontanare il secondo capitolo dal fulcro del’azione è al contempo innovativa ed estremamente rischiosa. Il finale commovente non ha in sé la carica epica del finale de “L’impero colpisce ancora”, e questo non aiuta a creare un senso di continuità assoluto. Non basta una scena post credit a riattivare la fantasia degli spettatori.


Ma d’altro canto, un film così slegato dalle logiche seriali che invadono la continuity cinematografica del MCU rappresenta la boccata d’aria fresca di cui sentivamo il bisogno. La libertà di James Gunn lo riporta sui binari dell’autorialità cinematografica, che, nel secondo capitolo ancora più che nel primo, si traduce in una messa in scena e in una regia assolutamente al di sopra del livello medio del genere, indubbiamente comparabili a quelle di produzioni meno popolari e più ricercate. Sequenza dei titoli di testa meravigliosa, battaglia finale perfetta in ogni suo aspetto e una manciata di scene memorabili ad arricchire il tutto.


“Guardiani della Galassia Vol. 2”, nonostante alcuni cambiamenti nella scrittura, non interrompe una continuità con il capitolo precedente che si basa sui personaggi, sulla comicità e sulla colonna sonora non originale. Al gruppo dei cinque (quattro più uno) Guardiani ormai storici, in questo film si aggiunge una serie di personaggi di contorno che nelle loro interazioni partecipano in tutto e per tutto alla vita dell’equipaggio spaziale. Nebula emerge alla lunga nella risoluzione del conflitto con Gamora e contribuisce attivamente allo sviluppo della trama; Mantis invece appare la più abbozzata dei “nuovi guardiani”, ma funge da ottima spalla comica in coppia con Drax e gode di una caratterizzazione che cela in sé i semi di uno sviluppo interessante, soprattutto alla luce di alcune ombre. A spiccare sopra tutti è però Yondu - già presente nel precedente film -, che, da una situazione di partenza che già vantava i favori del pubblico, diventa vero mattatore della seconda parte della pellicola, risultando il centro attorno al quale si chiude il bilancio finale del progresso psicologico dei protagonisti. Un vero capolavoro di scrittura che si stanzia a livello dell’amatissimo Loki, se non al di sopra.


La comicità caratterizza ancora una volta queste avventure spaziali differenti. Lo stacco dagli altri film Marvel si percepisce in particolar modo in un paio di scene in cui termini scurrili ci ricordano le origini di Gunn e gli intenti di una trilogia pungente. La colonna sonora non originale invece, pur assestandosi su buoni livelli, non raggiunge minimamente l’immersività e il peso che aveva nel primo capitolo. La scelta dei brani, operata dalla stesso regista, non ha saputo trovare pezzi altrettanto iconici, non ha saputo legarli alle scene in maniera altrettanto impeccabile.



In generale il problema principale di questo film non perfetto è quello di venire dopo la vera sorpresa del MCU, il fiore all’occhiello di un progetto che con il succitato “Thor: Ragnarok” sembra voler tentare di bissare il modello di Gunn. Il primo film sui guardiani aveva rinnovato i canoni, alzato l’asticella per tutti i successori e questo secondo capitolo ha scelto intelligentemente di non confrontarsi apertamente con il suo predecessore, invertendo il canone, cambiando la struttura e la dimensione dello sviluppo narrativo, senza però rinunciare ai cardini identificativi della serie. E in questi termini il film ha ampiamente soddisfatto ogni pretesa. Diverte, esalta, emoziona e appassiona utilizzando un linguaggio finalmente cinematografico. Un altro tassello di una storia fantastica. I Guardiani sono tornati e se ne sono già riandati, ho cominciato a segnare sul calendario  giorni che mancano all'uscita del terzo capitolo.



Frase post titoli di coda (SPOILER)
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La scena del funerale di Yondu con Cat Stevens e i guardiani di fronte allo spettacolo di fuochi d'artificio è probabilmente il punto più alto del MCU. Senza probabilmente, c'è anche Rambo. 


domenica 23 aprile 2017

MAGALLI, I CALABRESI E IL VALORE DELL’INDIGNAZIONE

Giancarlo Magalli, Presidente eletto della Repubblica, Filottete, Re Louie, Luigi dei Pills e a tempo perso autore televisivo. Balzato recentemente agli onori della cronaca per gli epiteti con cui si è rivolto alla collega Adriana Volpe, rea di aver rivelato l’età del conduttore de “I Fatti Vostri”. Attenta Adriana, mai rivelare l’età di un satiro addestratore di eroi!

O Presidente, mio Presidente!

Manco a dirlo, l’incidente diplomatico dell’uomo solo al comando ha generato un'immancabile indignazione pubblica, che ha portato il grande match a colonizzare anche le reti Mediaset.
Pochi mesi fa lo stesso Magalli era stato coinvolto in un episodio simile: nella medesima cornice del programma di Rai 1, durante un gioco a premi in cui gli spettatori, per vincere, avrebbero dovuto solamente alzare la cornetta di casa, in risposta ad un potenziale concorrente assente, proveniente dalla provincia di Reggio Calabria, Magalli disse testualmente: “Ci abbiamo provato anche oggi. Se poi voi andate in giro a scippare le vecchie non è colpa nostra”.


Delirio, putiferio e indignazione. Magalli rimbalzato dalle maggiori testate giornalistiche online, “Magalli contro i Calabresi”, lo scontro del secolo. Lo stesso Pino Aprile, autore di testi di denuncia contro le differenze storiche di trattamento tra Nord e Sud, fu chiamato ad un intervento sull’argomento. Andato in onda su Telenorba, il giornalista pugliese, data per assodata la malafede di Magalli, spostò la lente d’ingrandimento sulle discriminazioni territoriali, sulla sua campagna di promozione di “Terroni” e su Calderoli. La polemica non accennava a placarsi e Magalli si vide anche obbligato a mostrarsi in video per spiegare le sue ragioni e cercare di arginare l’indignazione dei "permalosi" Calabresi.


Tutto questo un teatrino costruito sul nulla, sulla parola giocosa di un conduttore storico della televisione italiana, intento ad ironizzare in maniera molto divertente sulla singola esperienza del signore che non aveva alzato la cornetta in tempo. Battuta di spirito eventualmente allargabile alla cerchia di coloro che negli anni non hanno risposto al gioco di Rai 1, non alla regione d’appartenenza del singolo concorrente. Siparietto divertente, Magalli incontestabile, polemica spenta sul nascere. Eppure decine e decine di commenti profondamente toccati nell’orgoglio dalle parole del conduttore dicono il contrario. Dicono che nel 2017, nella vita virtuale che animiamo ogni giorno su internet ogni momento è buono per indignarsi ed esprimere il proprio dissenso verso questo o quell’evento specifico.
Ecco a voi una carrellata dei migliori - e relativamente meno spinti - commenti che potreste trovare sotto i video di Magalli:


Pollentoni

Buuu

Il tridente d'acciaio


In cosa consiste questo sentimento d’indignazione che ci pervade e ci orienta nelle scelte sociali? Che peso possiamo dare allo sdegno espresso su internet? L’evoluzione tecnologica e sociale ci ha portati ad un bombardamento di notizie senza eguali e la conseguente possibilità di prendere a cuore specifiche campagne attraverso i social. Spesso però queste rivolte da tastiera sono l’espressione di un attimo in cui abbiamo sentito vicino un avvenimento . Non è indignazione, è il trasporto del momento, favorito dall’immediatezza della multimedialità della rete. Resta però la tendenza a definirsi anche attraverso le proteste contro ignoti che popolano la vita irreale, e non possiamo tralasciare senza conseguenze un fenomeno di questa portata, ma va assegnato un valore alla parola espressa sbadatamente in questa modalità spersonalizzante. Ogni giorno le notizie che vengono diffuse dai media, costruite appositamente per generare uno strascico di protesta, sono sì molte, ma di numero finito, allora potremmo valutare il peso di un’indignazione sulla base di quali eventi un individuo sceglie di sentire propri.

Dimmi per cosa ti indigni e ti dirò chi sei.

Si sta diffondendo a macchia d’olio questa modalità di definizione dell’essere che lo relega a stomaco del mondo: parlante, innocente, immobile, perfetto. Ma la verità della realtà sta dietro ciò che ci viene proposto giornalmente, dietro l’evento di cronaca, la rapina, la legittima difesa, Magalli e Adriana Volpe. Sta nei fenomeni visti da lontano, nella loro progettualità e devastante pienezza. I quali fenomeni si traducono in un sottobosco di notizie ben più profonde, più shockanti, più oscure. Ampliando in questo modo lo spettro degli eventi appare evidente che un’analisi della scelta nello scarto delle notizie del mondo non basta per definire la portata dell’indignazione di cui tanto amiamo servirci. È probabilmente più significativo ciò che resta sullo sfondo in un mondo di storie silenziose di cui nessuno sussurra. Potremmo provare a valutare le persone per ciò per cui non s’indignano o non lo fanno abbastanza

Dimmi per cosa chiudi gli occhi e ti dirò chi sei.

In questo modo tutto l’apparato delle indignazioni e delle proteste inutili avrebbe un peso più definito, misurabile.

Stando ai dati del 2016, 1/9 della popolazione mondiale vive in condizioni di fame

Ti indigni per Magalli e sputi sui profughi a Lampedusa?
Oppure tieni alla salvaguardia del mondo, ti opponi alle manovre di Trump e tralasci gli agnelli di Cruciani?
Non riesci a tollerare il totalitarismo turco e ritieni superfluo discutere di Selvaggia Lucarelli.
Oppure ti indigni per la sudditanza psicologica a favore della Juve ma ignori completamente la situazione siriana?

Ah

In questo modo spiccherebbero per contrasto le mancanze, gli eventi che non si trascinano dietro una polemica infinita. E i nostri giudizi sarebbero più rilevanti alla luce di un quadro generale completo o tendente ad una visione d’insieme. A fare da contraltare ad un sentimento d’indignazione che ha, allo stato attuale delle cose, la stessa valenza del ricordo che lascia nell’indignato a distanza di anni, c’è però l’agire, che in una scala di valori condivisi spicca al di sopra del pensiero e dell’espressione impersonale. Che l’indignazione sia il motore, non la tomba di ogni slancio d’azione.

Non è tanto chi sei quanto quello che fai che ti qualifica.

mercoledì 19 aprile 2017

ASPETTANDO COVENANT: ALIEN 3

Dopo il 1986, anno di uscita del secondo capitolo diretto dal mostro sacro James Cameron, la Fox, che deteneva i diritti per un eventuale terzo capitolo, sondò varie volte il terreno e arrivò più volte ad assegnare l’incarico di scrivere una sceneggiatura, ma nessuno degli incaricati negli anni riuscì a produrre uno script soddisfacente, o quantomeno completo. Tardi e ritardi storici portarono la storia del brand al 1992, quando una bozza di sceneggiatura venne affidata ad un giovane David Fincher, fino a quel momento autore di videoclip musicali. Fincher - che solo successivamente sarebbe esploso come uno dei registi cult degli anni ’90 - riversò nella realizzazione del terzo capitolo della saga la sua voglia di stupire, anche attraverso una realizzazione ardita, che non disdegnava tecniche più vicine al mondo video ludico, in piena fase evolutiva. Il vero problema di questa produzione fu a monte, ossia riguardo la stesura di una sceneggiatura che, anche nella sua versione definitiva, appariva più simile ad un agglomerato di idee differenti che ad un corpo unico. Questo si tradusse nella coabitazione di più anime all’interno di un’unica pellicola visivamente, ancora una volta, impressionante, ma che da punto di vista del contenuto, ancora una volta, non riuscì a toccare le vette d’intensità del primo capitolo.


La storia riprende pochi giorni dopo la fine del secondo capitolo. Ripley, Hicks, Newt e l’androide moribondo Bishop si trovano sulla scialuppa di salvataggio dopo essere sfuggiti all’attacco dello xenomorfo regina. Un facehugger è però riuscito ad intrufolarsi all’interno dell’abitacolo, facendo così attivare il sistema di sicurezza che tenta un atterraggio di fortuna su un pianeta vicino. L’impatto col suolo ha conseguenze traumatiche e Ripley è l’unica superstite dei trio di umani. Il pianeta su cui la protagonista atterra stavolta è una colonia penale popolata da soli venticinque detenuti, accusati dei crimini più atroci. Insieme alla protagonista però anche il parassita alieno è sopravvissuto all’impatto e la sua presenza su Fury 161 minaccia di annientare l’intera colonia di detenuti. Questa volta il facehugger si servirà di un cane per riuscire a dare vita all’alien e questo influirà sulle caratteristiche morfologiche del mostro assassino, più agile e aggressivo rispetto ai due precedenti capitoli.
Arrivati al terzo atto di una saga sostanzialmente ancorata a dei topoi ben definiti, gli elementi fondanti della trama cominciano a ripetersi di pellicola in pellicola e questo tende a minimizzare la portata assoluta di una sceneggiatura come quella di “Alien3”. Siamo nuovamente di fronte ad uno scontro che coinvolge un solo alieno, come nel primo capitolo, ma la preparazione degli umani per affrontarlo sfocia gradualmente verso l’azione frenetica dell’action puro in stile Cameron. L’opera di Fincher si pone quindi a metà tra l’horror d’ambiente di Scott e ciò che gli sceneggiatori avevano prodotto dal calderone di idee lasciato dal primo capitolo. Il primo atto di questo terzo episodio è decisamente tendente alla creazione di una tensione di fondo legata all’incombente minaccia aliena e, seppur l’isolamento di Ripley sia una parte fondante di questo sentimento d’angoscia crescente, è difficile accettare la morte fuori campo dei protagonisti di “Aliens”. Hicks e Newt erano stati tasselli fondamentali dello sviluppo della caccia allo xenomorfo e i nuovi sceneggiatori non hanno minimamente esitato a tagliarli in toto dal nuovo film. Lo stesso Cameron ebbe da ridire, poiché una scelta in questo senso di stacco tra i due capitoli tende a far rileggere il finale del secondo film solo in relazione a sé stesso. L’opera di Cameron infatti perde di significato al si là della figura di Ripley e questa mancanza relativamente grave evidenzia lo sviluppo travagliato di “Alien3”.

Un bacino sulla guancia, dai

Dopo una fase di stallo, l’azione esplode nel momento in cui avviene il primo contatto tra Ripley e il nuovo alien, nell’iconica scena in cui la lingua dentata dello xenomorfo sfiora la guancia tremante della protagonista. Da quel momento in poi, Fincher sembra voler riproporre una caccia all’intruso simile a quella del primo capitolo, quindi situata all’interno di cunicoli claustrofobici, senza però rinunciare alla velocità guadagnata nella realizzazione delle scene d’azione di Cameron. Da ottimo mestierante quale è, Fincher riesce a ricavare il meglio da una sceneggiatura non eccezionale e si dimostra in grado di realizzare il suo Alien in una cornice di sabbia e sangue, colorata di un arancione tendente al deserto dell’ultimo superstite. Il film del ’92 è inoltre memorabile per la conclusione della vicenda di Sigourney Weaver che, braccata dalle organizzazioni terrestri che bramano il potere dello xenomorfo, decide di gettarsi nella fornace per porre fin definitivamente alla vita dell’alieno che cresceva in lei. Una sequenza epica che si carica dell’emozioni provate dallo spettatore nel corso dell’intera trilogia.

L'epica fine che tutti sognavamo, l'epica fine che la fine non è

Se c’è una mancanza evidente in “Alien3” è quella di non aver saputo scavare oltre le apparenze del capitolo precedente. Ci sono le organizzazioni a scopo di lucro, ci sono i rinnegati dalla società, c’è uno scontro epico contro la vita aliena, ma non c’è alcuna possibilità per lo spettatore di speculare su una storia non detta, perché la svolta completa al puro intrattenimento ha tagliato le gambe ad ogni forma di fantasia.


Se anche questo terzo capitolo non ha saputo attingere a dovere dalle fondamenta della serie, riuscirà “Alien: Covenant” ad invertire la tendenza e a tornare ai fasti di un tempo. Appuntamento al prossimo mercoledì con la recensione del non richiesto Alien 4 o “Alien: la clonazione”. Un nome, un programma.

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domenica 16 aprile 2017

PIUMA, O L’INASPETTATA LEGGEREZZA DELL’ESSERE

Ha ancora senso parlare di natalità in Italia? I dati raccolti dall’Istat nel primo trimestre di quest’anno parlano di un minimo storico. Il bilancio tra nascite e decessi in Italia è negativo dal 1990 e una recessione popolosa è stata scongiurata in questo lasso di tempo solo grazie ai flussi migratori. La realtà dei fatti è che la nuova crisi delle certezze, a braccetto con quella economica, ha minato le basi della fertilità, rendendo complicato per la mia generazione perfino immaginare un futuro da genitore. In questo contesto si è inserito silenziosamente “Piuma”, piccola produzione di Roan Johnson, presentata all’ultima mostra del cinema di Venezia. La pellicola non ha colpito particolarmente la giuria e non ha di certo sbancato il botteghino - nonostante il supporto di Sky Cinema -, ma ha generato diverse discussioni per il soggetto più che per lo sviluppo della sceneggiatura o per l’aspetto tecnico. I critici si sono straniti nel vedere sullo schermo una storia di vita così lontana dalla realtà, una disavventura normale che narra dei nove mesi di gestazione di una nascita inaspettata.


Ferro e Cate sono due adolescenti all’ultimo anno di liceo che, un mese prima dell’esame orale, scoprono l’inaspettata gravidanza della ragazza. Il film quindi narra delle vicissitudini dei due protagonisti, intenti a resistere ad un mondo che non ha più la forza di sorreggere la vita nuova. A dispetto di uno sviluppo poco originale e di una messa in scena assolutamente rivedibile, resta il coraggio di produrre un’opera sull’assenza della necessità. Non è scontato che per parlare di una problematica sociale si debba mettere in scena la presenza di essa, ma il contrasto e l’esagerazione del contrario possono, se incanalati nella giusta direzione, produrre un risultato ancora più dirompente. Non è forse questo l’esempio più riuscito in assoluto della volontà della rappresentazione dell’opposto, ma gli intenti andrebbero apprezzati.


Ferro e Cate decideranno di tenere la bambina e di chiamarla Piuma, per la leggerezza con cui dovrà sorvolare sulla città e il frastuono, che investono ogni giorno di più la vita. La nascita, nel suo carattere epifanico, è anche la rinascita: la chiave di lettura dell’uscita da una crisi dei costumi può e deve essere nel futuro oggi incupito di una generazione al bivio della detonazione e della depressione perenne, bistrattata per una mancanza non sua. Lo sconforto di una società in crisi di nascite si rispecchia nell’incapacità di rendere possibile uno sguardo futuro alla realizzazione umana, che passa anche dalla creazione di un nucleo familiare. E, se siamo animali sociali, la creazione di un nucleo familiare rientra di diritto nelle nostre naturali aspirazioni, mozzate, interrotte, bruciate ancor prima di essere piantate.


Una “Piuma” a diciott’anni è una responsabilità enorme, e in questa semplificazione sta la costruzione creativa del film, ciò che invece appare reale è il contesto che risponde all’impossibile della creazione. Genitori senza prospettiva, abitazioni diroccate e presunti specialisti. I centri scommesse. Tutto ciò che riguarda Ferro e Cate è reale e pesa proprio sulla decisione dei ragazzi di tenere la bambina. Tutto ciò che affossa i sogni di gloria e rilancio è quello che c’è, e che c’era anche prima; la rivincita sta nella possibilità di sbagliare seguendo le nostre visioni.

Se i giovani d’oggi valgono poco, gli anziani cosa ci hanno lasciato?
I pregiudizi delle persone per bene e le autostrade
I partiti, che sono scatole vuote
E una bella costituzione
La Salerno - Reggio Calabria, gli Esselunga

E miss Italia.


mercoledì 12 aprile 2017

ASPETTANDO COVENANT: ALIENS

Nel 1986 toccò a James Cameron rimettere mano al progetto originale condotto da Ridley Scott. E “Aliens”, seguito diretto del primo capitolo, mutò la sua forma per essere ad immagine e somiglianza del suo regista.


Ripley si risveglia dopo un ipersonno durato ben 57 anni e si trova a dover giustificare gli eventi tragici del primo film di fronte ad una commissione che ha occhi solo per l’aspetto economico. Una compagnia mercantile che antepone la salvaguardia delle merci alla vita di un manipolo di sciagurati. Il pianeta sul quale era avvenuto il contatto con lo xenomorfo anni prima è ormai stato colonizzato, ma qualcosa va storto: viene perso il contatto radio con la nuova colonia e Ripley viene convinta ad accompagnare una squadra di marine spaziali per sventare un’eventuale minaccia aliena.
Se l’incipit di questo secondo capitolo si lega perfettamente al clima della conclusione del primo, tragico e disperato, il momento dell’incontro con l’equipaggio dei marine rappresenta un vero e proprio twist nelle attitudini della pellicola, che vira vertiginosamente verso un genere action fantascientifico con tinte horror. È in questo ambito che James Cameron può sfoggiare tutta la sua abilità registica e la sua minuziosa cura per i particolari, riuscendo ad imprimere nella saga il suo marchio caratteristico. Se da un lato però questa variazione sul tema potrebbe rappresentare un enorme punto a favore per l’ampiezza della portata del fenomeno Alien, dall’altro pesa eccome l’abbandono di una stile ben preciso, fatto di tunnel claustrofobici, dense nebbie e freddi reali. Il passaggio da un singolo Alien a svariate centinaia di Aliens è la perdita dello stile impeccabile di Ridley Scott, e necessariamente delle atmosfere volute esplicitamente dal duo O’Bannon-Carpenter.


A reggere il cambiamento di registro cinematografico sono proprio le motivazione che spingono il gruppo di Ripley, ancora un’iconica Sigurney Weaver, a visitare il pianeta rinominato LV-426: nel primo capitolo l’azione dell’equipaggio della Nostromo nasceva da una richiesta d’aiuto e si muoveva su un territorio sconosciuto, nel suo seguito invece i marine spaziali portano sul luogo la loro dose di maschilismo, di egocentrismo e di violenza inaudita. L’obiettivo dichiarato dei marine è quello di spazzare via ogni forma di vita aliena, ma sarà davvero solo questo lo scopo della missione? Questa svolta action è resa possibile anche dallo sviluppo ipotetico che le armi avrebbero visto nel tempo d’ibernazione della protagonista, passando ad essere strumenti di morte per i soliti xenomorfi. Tale cambiamento produce però anche l’effetto collaterale dell’annullamento dell’aura di invincibilità che valeva per il primo “Alien” e che contribuiva pesantemente a creare quel clima infame di caccia al cacciatore inarrestabile, che avrebbe scovato e sventrato ogni membro della Nostromo, fino all’ultimo superstite. Le poche apparizioni dello Xenomorfo nel film del ’79 lasciavano allo spettatore la certezza dell’evidente destino funesto. Ciò non accade nel seguito, in cui gli alieni soffrono eccome gli armamenti della squadra d’assalto e possono impensierire gli umani contando soprattutto sul numero.
Anche la squadra dei protagonisti non regge il confronto con quella del primo film: nell’opera di Cameron regnano gli stereotipi che portano ad una caratterizzazione banale, scontata, indirizzata fin dalle prime battute ad essere un semplice supporto dell’azione bellicosa. La situazione muta leggermente quando il numero dei protagonisti scende in seguito alla mattanza degli xenomorfi e la scenografia più occlusiva aiuta il film a rientrare nei ranghi di un thriller claustrofobico. Imperdibile la scena dell’arrivo dell’ondata di alieni in cui viene staccata la luce principale della nave e resta soltanto una fioca quanto penetrante luce rossastra che illumina i volti degli ultimi superstiti dello “Scontro finale”.peccato però che questa parvenza di realismo fantascientifico duri il tempo di arrivare al duello decisivo che vede Ripley contrastare lo xenomorfo regina a bordo di un esoscheletro elevatore da carico.


“Aliens” non riesce a bissare l’immensa riserva di spunti narrativi del primo e si concede al pubblico per essere gustato come esagerata epopea galattica. Se “Alien” aveva reinventato un immaginario collettivo, riuscendo a slegarsi completamente dalle logiche del suo tempo, il suo seguito è direttamente figlio degli anni ’80 e vive in funzione di alcune espedienti narrativi propri di quegli anni, ormai obsoleti. L’opera di Cameron resta un grande film d’intrattenimento, che è possibile apprezzare anche senza aver visto il lavoro di Scott. È un peccato che gli sceneggiatori non abbiano sfruttato appieno il calderone di idee lasciato da O’Bannon, trasportandosi invece 57 anni nel futuro per avere la possibilità di un film rumoroso e lineare. Le mancanze di “Aliens” generano ancora più aspettative negli sviluppi della trilogia prequel che arriverà nelle nostre sale il prossimo 11 maggio con “Alien: Covenant”.

Non perdere ogni mercoledì l’appuntamento fisso con la recensione di un capitolo della saga di Alien. La prossima settimana sarà il turno del terzo capitolo, stavolta per la regia di David Fincher, Alien 3.


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lunedì 10 aprile 2017

ADDIO! ADDIO! THE KNICK, ADDIO!

La terza stagione sarà fondamentale per riuscire a dare un giudizio complessivo e definitivo sull’intera opera. Dalla terza si capirà se siamo di fronte ad un Dr House migliorato in molti suoi aspetti o ad una serie similstorica che andrà meramente a sfociare in questioni di gossip e relazioni pericolose. Una sorta di Beautiful moderno. Ma io propendo decisamente per la prima ipotesi.”



Si chiudeva così la fortunata serie di commenti ospitata su questo blog ormai più di un anno fa. Il Knickerboker era caduto, il nuovo ospedale andato in fiamme, Thack deceduto dopo il delirio di onnipotenza. Le singole trame aveva raggiunto picchi di pathos in coincidenza con i momenti peggiori dei personaggi. Steven Soderbergh si era superato nella direzione di una serie sempre più a conduzione personale, regalando il suo vero capolavoro nell’ambito televisivo e non solo. Eppure lo scorso 23 marzo i capoccia di Cinemax hanno annunciato di aver deciso per la chiusura della serie alla seconda meravigliosa stagione. La motivazione, quanto mai banale e infantile, sarebbe quella di tornare a produrre serie incentrate sull’action più classico, in linea con il palinsesto storico della rete. Non è bastato l’enorme successo di pubblico e critica a far ricredere chi di dovere sulle possibilità di una serie differente, di qualità.

Il delirio di onnipotenza

E quindi noi fan ci ritroviamo con un pugno di mosche verdi fritte alla fermata della carrozza più pazza del mondo. Riguardando l’ultimo episodio è evidente che gli sceneggiatori, e quindi lo stesso Soderbergh,non avessero certezze sugli sviluppi della produzione al punto da optare per un finale aperto, ma anche chiuso. Le sottotrame sviluppate nel corso di due stagioni entusiasmanti raggiungono una sorta di fase di stallo che all’occorrenza può essere letta in chiave futura o come definitiva conclusione dai lineamenti indefiniti. La stessa morte-non-morte di Thackery è emblematica dell’ambivalenza della resa dei conti. Ma a ben vedere sarebbero state molto più convincenti e fondate le motivazioni di un prosieguo nella narrazione di un luogo e di un tempo, più che di una serie di eventi legati ai personaggi. The Knick è sempre stato Thack, ma è anche stato il Knick, l’ospedale: lo sviluppo delle nuove tecniche mediche, l’evoluzione della città di New York di inizio secolo, l’epopea della costruzione del nuovo ospedale. Il collante è sempre stato il Knick e ciò avrebbe reso possibile un’espansione smisurata delle possibilità di sceneggiatura.
Dietro l’amarezza di un altro progetto promettente naufragato nel mare della mediocrità della domanda, restano due stagioni di livello assoluto, al pari degli show più osannati degli ultimi anni. La caduta negli inferi del medico più promettente della New York di inizio secolo , collegata alle vicende di tutti i personaggi secondari, restituisce un affresco storico realistico, bilanciato e oltremodo curato in ogni minimo dettaglio. Complesso narrativo che, unito all’arrogante creatività di Steven Soderbergh - improvvisatosi anche macchinista per la serie sua diletta -, si traduce in un piccolo gioiello che tutti dovrebbero avere la possibilità di ammirare, anche solo per pochissimo tempo, il soffio di vento di venti puntate.

#addio

Non posso che consigliarvi spassionatamente il recupero immediato delle prime due stagioni, che si concluderanno con un mezzo finale, ma che sapranno intrattenervi come poche serie tv sono state in grado di fare. E quando sentirete l’opening elettronica di Cliff Martinez, pensate a me. Sedotto e abbandonato nell’attesa di una terza stagione, che doveva essere la consacrazione definitiva, ma che non sarà mai.

URGE PETIZIONE!!1!

mercoledì 5 aprile 2017

ASPETTANDO COVENANT: ALIEN

Verso il secondo film della trilogia prequel diretta dal veterano Ridley Scott, ripercorriamo l’evoluzione di una saga cinematografica iconica a partire dal primo capitolo del 1979, diretto dallo stesso Scott.


Nato dalla penna di Dan O’Bannon, con l’insospettabile quanto inconfondibile zampino di John Carpenter, "Alien" narra l’esperienza di morte e desolazione della nave spaziale Nostromo, il cui equipaggio è costretto ad una lotta serrata per la sopravvivenza. La storia, ormai nota ai più, prende corpo quando la nave Nostromo, durante un viaggio di lavoro, riceve una richiesta d’aiuto da un satellite vicino. L’equipaggio sbarca sul pianeta indicato per portare soccorso, ma si trova dinanzi alla carcassa di una nave spaziale, nella quale viene ritrovato un cadavere dalle fattezze umane, ma di una stazza esagerata. Kane, uno dei tre uomini dell’equipaggio scesi dal Nostromo in perlustrazione, entra nel cuore della nave abbandonata e scopre una distesa di uova misteriose, protette da una coltre di nebbia. Una di queste uova si schiude lasciando fuoriuscire un essere simile ad un crostaceo che attacca Kane,rompendogli il casco e aggrappandosi al suo volto. L’uomo è quindi riportato sul Nostromo dai suoi compagni per ricevere le cure adeguate, ma il parassita alieno che gli occlude le vie respiratorie ha ridotto Kane in uno stato comatoso. Questo è solo l’incipit di una drammatica odissea che vedrà l’equipaggio della Nostromo tentare in ogni modo di placare l’incontrollabile furia omicida dell’alieno xenomorfo, entrato nella nave insieme al corpo di Kane.


Rivisto anni dopo, "Alien" sembra sentire il peso del tempo, ma i pochi punti a sfavore di una pellicola storica non intaccano i pregi innovativi con cui aveva saputo conquistare tutti nel lontano ’79. "Alien" non stupisce solamente per una regia pulita e coraggiosa o per le interpretazioni perfette, ma è nella costruzione della suspance che riesce ad essere ancora all’avanguardia. Il vero motore del film non è infatti l’azione, ma ciò che non accade di fronte alla telecamera; ciò che lo spettatore può attendersi fin dalle prime sequenze, ma che non sa quando arriverà imperterrito a devastare la quiete silente dello spazio desolato. La tensione è palpabile e si propaga nei volti, nelle strutture della Nostromo, nella nave abbandonata che l’equipaggio tenta di soccorrere. I tentativi di arginare un fenomeno mortifero imprevisto lasciano gradualmente il posto alla consapevolezza della fine, all’incapacità di poter reagire efficacemente di fronte ad una minaccia di quelle proporzioni. E lo spettatore è inserito perfettamente nel contesto dell’equipaggio senza futuro, tanto da caricarsi di tensione quasi fosse egli stesso presente sulla nave spaziale, intento a nascondersi dall’alieno implacabile. Questa coesione d’insieme, percepibile fin dalla prima visione dell’opera, supera i confini dello schermo e trasmette emozioni caricate dal coinvolgimento. Il freddo del pianeta lugubre vi entrerà nella pelle, il vento della scena finale i scompiglierà i capelli. Ogni frame è un quadro dalle colorazioni fredde che vi vede protagonisti insieme allo sciagurato equipaggio della Nostromo.


Ma "Alien" non è “solamente” l’azione non agente che si carica di tensione, è anche una narrazione che procede per grandi trovate narrative sfruttate nell’attimo degli eventi presenti. Le premesse e i dettagli che connotano la credibilità del contesto fantascientifico sono infatti elementi curati nel minimo dettaglio che celano una storia antecedente e uno sviluppo futuribile. Ogni scelta in fase di scrittura è indirizzata a delineare i tratti di un universo vivo, fatto di navi spaziali da carico, pianeti inesplorati, androidi e alieni assetati di sangue. Tutto ciò che è stato solo accennato in questo primo capitolo lascia aperta la porta all’espansione di una narrazione quanto mai convincente e legittima: la nave abbandonata presente sul pianeta, la comunicazione di avvertimento, il cadavere dalle dimensioni esose, l’androide presente sulla Nostromo e soprattutto gli xenomorfi. "Alien" è infatti il risultato dello scontro tra l’equipaggio di una nave e un solo xenomorfo, ma la distesa di uova non schiuse nel cuore della nave abbandonata lascia presagire ben altri sviluppi, certamente più drammatici. Il primo capitolo ha quindi in sé le fondamenta di un’espansione cinematografica giustificata, di uno sguardo al futuro passato che ha avuto il giusto spazio con "Prometheus" e che si realizzerà presumibilmente con "Covenant", in uscita il prossimo 11 maggio.

A mercoledì prossimo per il prosieguo di questo excursus storico-xenomorfico. Prossima tappa: Aliens.

lunedì 3 aprile 2017

LA CANZONE DELL’EREMITA

Tolse le scarpe e scordò il suo nome. Con il nome lasciava anche un passato di anni di vita costruiti tra falsi miti e immagini prestate. Prese la strada meno battuta della collina animata dal vento e avanzò carezzando i fili d’erba con i nudi piedi. Giunse stanco alle pendici di un monte ripido, dove scelse di fermarsi per la notte, e per i giorni, e per gli anni. Visse in quell’anfratto per anni, senza sentire il bisogno di ricongiungersi con la civiltà, senza provare nostalgia per il tempo smarrito a ricercare la solitudine.


Un giorno smise di parlare, sentiva di essere ormai parte di quel luogo e non trovava un motivo per non dimenticare anche il suo linguaggio umano. Passavano le stagioni, ma non riusciva a scordare una canzone. Un motivetto allegro che aveva imparato da bambino. Talvolta cercava di seminarlo durante una battuta di caccia, una sessione di raccolta. Scattava improvvisamente col pensiero e la sua ombra con lui. Ma alla fine della corsa sentiva ancora avvicinarsi dalla valle l’eco di quella musica, che tornava a stare nel luogo a cui apparteneva. Un giorno ci riuscì e la scordò. Era impegnato ad esplorare l’altro versante del monte e, calato il sole, crollo su un tappeto di foglie e rugiada fresca. Quando si svegliò sentì la natura, sentì il suo respiro e quello della brezza silenziosa, ma nessuna traccia di una canzone. E poté finalmente fondersi con la terra morbida.

Gli anni sfiorirono e con loro le forze della vita. Una lunga ruga segnava la fronte serena dell’uomo attempato, intento ad inspirare le ultime boccate. Una lunga barba segnava il tempo che l’uomo aveva trascorso fuori dal mondo, dentro la vita. Una lunga e fredda notte coincise con il suo silenzioso congedo. Stanco si copriva di pelli scuoiate e foglie secche, cercando di limitare il pungente vento senza sentenza. Brividi lo tenevano semicosciente, al valico della vita, quando sentì nella notte dei passi gentili. Cercò di aprire gli occhi, me le assenti forze glielo impedirono. Sentì una presenza candida avvicinarsi al suo riposo, tentò di voltarsi, ma fallì. Percepì un calore amorevole colorargli la guancia, imbrattata di un rosa perduto, e una bocca sinuosa avvicinarsi all’orecchio. Udì docili le note del motivetto allegro che aveva imparato da bambino e che non era mai riuscito a cancellare dall’orecchio del cuore. I muscoli del viso si tirarono un’ultima volta in un sereno sorriso. Non era mai stato solo.