mercoledì 31 agosto 2016

WAYWARD PINES 2 - COMMENTO EPISODI 1 E 2

C’era bisogno di una seconda stagione di Wayward Pines? No. La conclusione frettolosa della prima stagione aveva un bisogno naturale di un seguito che sviscerasse ulteriormente dinamiche sterili? No. Questa seconda stagione merita una chance nonostante le premesse? Forse; bypassando però virtualmente le falle che avevano caratterizzato il calante calare dell’anno passato. I Dubbi erano maggiormente relativi alla maniera attraverso cui gli sceneggiatori avrebbero collegato una narrazione moribonda ad una nuova e presumibilmente accattivante. Ricordiamo infatti che la prima stagione si era chiusa con Ben trasportato tre anni nel futuro, nella piena era della dittatura schiavista della prima generazione, e suo padre appeso ad un palo come deterrente verso le possibile rivolte della popolazione di Wayward Pines contro il regime di Jason.



La seconda stagione si apre invece con un flashback rispetto all’anno corrente in cui fa la sua comparsa come guest star anche Terrence Howard. In questo frangente ci viene presentato quello che a tutti gli effetti si propone come in nuovo protagonista della serie, ovvero Theo, medico rapito e crioconservato per essere destinato al blocco C. da qui ha inizio la nuova avventura nell’ultima roccaforte del pianeta nell’anno 4000.
Devo essere sincero: inizialmente avevo sopravvalutato la produzione e credevo che avessero optato per una narrazione retrospettiva rispetto alle sequenze conclusive della prima stagione, ovvero un racconto riguardante gli anni in cui Ben è rimasto congelato e la prima generazione ha preso il sopravvento sulla fazione dei ribelli, sugli Abby e sulla popolazione di pecorelle smarrite dopo la dipartita del mentore e padre della nuova razza umana Pilcher. Questa teoria avrebbe avuto più senso nell’ordine logico degli avvenimenti, considerando il risveglio di Theo in un momento fatidico nel quale la sorella di Pilcher, unica dottoressa della città, era passata a miglior vita a causa delle divergenze progettuali di fondo. Nella versione poi portata su schermo invece lo scongelamento di Theo sarebbe avvenuto solamente quattro anni dopo la morte di Pilcher e dell’ultima dottoressa. In questo periodo però la prima generazione avrebbe continuati ad impratichirsi nell’arte medica senza alcun mentore o insegnante qualificato, ma fondandosi unicamente sulla fortuna e sul numero di tentativi possibili (vista la possibilità di rimpiazzare le persone con i surgelati Findus). Tornando quindi al nuovo protagonista, egli si mostra in tutto e per tutto, fin da primissimo istante come una copia sputata del primo protagonista, ovvero Ethan Burke, colui che aveva tentato di sovvertire l’ordine sociale di una società succube del despota. Una somiglianza tra personaggi forse troppo spiccata.


La nuova situazione che ci viene presentata nell’ormai pienezza dell’operato della prima generazione è forse l’elemento più interessante di tutti i primi due episodi. Ci si para dinnanzi uno spaccato postapocalittico e futuristico, ma molto reale, di una situazione di conflitto in cui una delle due fazioni ha soggiogato la popolazione con la forza delle armi e ha piegato la volontà comune attraverso il terrore. Un regno dispotico che non prevede un dialogo alla base della politica comune, ma richiede la sacra ubbidienza in nome del padre fondatore dell’arca. In questo sistema vige severa la caccia all’uomo: gli abitanti vengono spinti dalla paura, dalle circostanze e dall’indottrinamento che ha luogo fin dalla tenera età a denunciare i propri vicini di casa perché possibili rivoluzionari, perché appartenenti ad una nuova classe sociale diversa di colore nell’anima. Questa situazione, davvero ben caratterizzata attraverso sfumature di sguardi, silenzi ed episodi specifici fatti passare per quotidianità, potrebbe ricordare da vicino la spasmodica ricerca di un colpevole rosso durante la Guerra Fredda in Occidente o la condizione di sfiducia alla quale erano costrette le popolazioni su cui si abbatté la furia omicida di Hitler. Emerge qualcosa di storicamente plausibile da questa ricostruzione totalitaria all’interno della quale l’asserzione volontaria silenziosa è guidata da un’altra banalità del male, l’ennesima.


Se da un lato però le circostanze riescono a rendere accattivante lo svolgimento dei trattati di guerra e pace all’interno della città, dall’altro le vicende di quelli che furono i protagonisti della prima stagione appaiono fin troppo abbozzate, esageratamente caricate di un pathos che non sussiste e non resiste ai colpi della noia. Ben si presenta come il capo della fazione rivoluzionaria per la sola dote innata di essere figlio del padre valoroso che fu, ma ciò non basta a caratterizzare la nuova veste che dovrebbe ricoprire e un attimo dopo lo si ritrova in piazza a costituirsi per salvare la vita a tre militanti della congrega di rivoltosi, rendendo improponibile una storia non detta in cui questi ragazzacci avrebbero tenuto in scacco l’intera prima generazione e quindi l’intera città per poi arrendersi subitamente, senza pretese di accordi. La stessa Kate, motivo immotivato dello scongelamento di Theo, resta in scena per poche sequenze, prima di togliersi la vita perché “Questo futuro non è il suo mondo”. Notevole l’attaccamento dei rivoltosi alla causa. Ma il culmine dell’inutilità e della contro produttività in merito alle relazioni tra la prima e la seconda stagione si ha nell’attimo esatto in cui Ben, giovane leader dei rivoltosi, si arrende al regime e agli Abby, lasciandosi divorare in malo modo e segnando definitivamente il solco tra le due stagioni, ch ora si presentano davvero come due corpi estranei, rinnovati nel cast, ma non nelle dinamiche. La paura è infatti una copia poco originale e con meno suspance della prima stagione, con Theo il medico paladino della giustizia a sostituire Ethan paladino della giustizia. Le variabili che potrebbero incrementare l’interesse relativo a questo prodotto mediocre nella scrittura, ma passabile dal punto di vista tecnico, si riducono ormai all’osso, lasciandoci prospettare una serie pomeridiana, di quelle da guardare con la coda dell’occhio mentre ci si diletta a svolgere attività più produttive, quali l’ozio. Dov’è finito il mistero di Lynch?

domenica 28 agosto 2016

WAYWARD PINES - COSA ASPETTARSI DALLA SECONDA STAGIONE

All’alba dell’esordio italiano della seconda stagione di Wayword Pines, visto il successo della serie di commenti ospitata la scorsa estate su questo blog, ho deciso di ricalcare l’articolo dedicato all’eventualità di un seguito di Strager Things per fare il punto della situazione sulla serie prodotta e diretta da M. Night Shyamalan.

Come scrivevo anche un anno fa di questi tempi, è emblematico come il capitolo conclusivo di una serie potenzialmente interessante si sia rivelato essere probabilmente l’atto peggiore dell’intera opera: sconclusionato, anacronistico e soprattutto chiuso a qualsivoglia seguito improntato sulla stessa linea narrativa. Mi spiego meglio: ciò che mi aveva colpito dei primi passabili episodi di Waward Pines era stato il mistero, l’aura di non detto che aleggiava sulla sperduta città mascherata, la volontà, incarnata nel protagonista Ethan Burke, di trovare un senso alle anomalie, alle stranezze e ai sotterfugi celati dietro i volti felici. C’era inizialmente una quantità consistente di elementi oscuri che avrebbero potuto portare la serie a caratterizzarsi in qualsiasi forma e che inizialmente era stata incanalata in una struttura solida, rodata in anni di serial mistery e produzioni televisive simili, sapientemente citate con gusto dal cinefilo produttore.


I problemi della prima stagione sono però diversi, e tra questi spicca la mancata valorizzazione delle risorse derivate dall’opera cartacea a cui la serie si ispira. Ogni scelta di sceneggiatura lasciava con l’amaro in bocca, con la sensazione che le cose sarebbero potute andare in una maniera differente, più alta, più ricercata e meno scadente. A tratti abbiamo visto un cinema di serie C atteggiarsi a grande produzione per meriti di contorno che non riempivano le falle lasciate da una scellerata evoluzione della situazione. Errori prima passabili, poi pesati e infine compromettenti, che hanno reso il finale della prima stagione un tripudio di bassezze improponibili. Nel finale infatti muore il mistero, e con esso il futuro.
Immagino sempre le serie mistery come due vasi comunicanti. Nel primo, quello di sinistra, sono inseriti i misteri, le zone oscure, i personaggi e le loro relazioni; una somma dell'incipit e delle introduzioni ad opera in corso, insomma. Il collegamento tra i due recipienti è lo svolgimento narrativo. In questo modo, nel secondo vaso confluisce la sostanza del primo, ricombinata dalla trama, che si fa atto. In Wayward Pines, a differenza di nomi illustri della televisione quali Lost, Twin Peaks e X-Files, non è stata considerata affatto questa metafora dei vasi comunicati e, partendo da una situazione in cui il vaso di sinistra traboccava di elementi d’interesse, siamo mestamente giunti ad una situazione finale in cui tutto è stato ricombinato e filtrato nell’atto, lasciando nulla in potenza e rendendo sterile il collegamento della narrazione futura. Sappiamo ormai tutto: sappiamo degli Abi, sappiamo della crioincubazione per il viaggio nel futuro, sappiamo della natura salvifica della città e dei progetti di Pilcher. Nulla ci è dato ancora da scoprire, ma tutto può evolversi solo sulla linea retta dell’azione, tra situazioni già viste in altre produzioni action e una caratterizzazione dei personaggi sempre più piatta, stereotipata e antica. Venendo a mancare le basi del mistero che avevano retto l’inizio della prima stagione e sulle quali erano stati costruiti i personaggi, crolla anche l’interesse relativo a questi e si va a creare un prodotto dissimile dal suo atto d’esorsio, qualcosa di diverso che però punta ad un livello più basso d’intrattenimento, più semplice e immediato ma decisamente meno accattivante e immersivo. Esiste una differenza abissale dal lasciarsi coinvolgere nella ricerca di una verità celata e la visione sterile di una storia di sopravvivenza in un futuro postapocalittico. Il postapocalittico funziona con le storie, le fazioni e i drammi personali, non con i mostri mangia-uomini, la prima generazione di ragazzini a cui la società ha insegnato questo e un protagonista senza l’ombra di un carisma.


Un progetto, quello della seconda stagione, che nasce quindi con poche pretese, senza neanche la voglia di stupire che aveva contraddistinto la prima stagione. Una serie ormai riservata ai pochi fan che ancora hanno voglia di lasciarsi annoiare da un cinema non cattivo, ma quantomeno banale. Nulla di nuovo dunque, ma non posso esimermi dal tentare di ridare un senso a tutto quello che accadrà nei prossimi mesi nella ridente Wayward Pines. Quantomeno in memoria dei vecchi tempi, quando Matt Dillon sembrava Jim Carrey e si aspettava una settimana per scoprire chi avesse piazzato le cimici per la città. Si stava meglio quando si stava meglio.

mercoledì 24 agosto 2016

IL SUONO DELLA CONTEA

“Nove compagni. E sia! Voi sarete la Compagnia dell’Anello.”

Frodo, Sam, Merry e Pipino, Aragorn, Boromir, Gandalf, Gimli e Legolas. La Compagnia dell’Anello. I nove rappresentanti dei popoli liberi incaricati di portare il fardello dell’Anello del potere fino al monte Fato per distruggerlo nella lava e porre fine al regno di terrore dell’occhio di Sauron. Nove personaggi diversi, dissimili e spesso in disaccordo, accomunati però dalla voglia di ritrovare casa, sotto le macerie di una guerra che imperversa sulla Terra di Mezzo, portando con sé morte e devastazione. Solo attraverso questa visione d’insieme possiamo percepire la presenza di un decimo membro della compagnia, un’essenza che aleggia da sempre e sempre accompagna i protagonisti nel viaggio verso l’oblio; quell’essenza che io chiamo “Il Suono della Contea”.


Il Suono della Contea è probabilmente il primo personaggio che ci viene presentato all’inizio del primo atto dell’opera cinematografica, e fin da subito qualcosa ci colpisce nel profondo: percepiamo la quiete di un popolo libero, sentiamo l’aria leggera della festa e la voglia di costruire un futuro fondato sulle immense distese e sulle case dalla forma caratteristica. La voglia di vivere con animo pacifico la Contea. Quella melodia celeste che appartiene solo al luogo in cui si trova la nostra casa. La quiete viene però rotta dalle parole sconnesse del torturato Gollum, “Contea. Beggins”. Due parole che, pronunciate con quella sofferenza, al cospetto delle armate avverse, gettano l’aria di casa nello sconforto, nel buio della notte dell’assalto. Ciò costringe i protagonisti alla fuga, lasciandosi alle spalle una casa avvolta nel mondo delle tenebre della guerra. Ma quando il Suono della Contea viene coperto da quello delle lame e Frodo sembra destinato a soccombere lontano dalla casa di Bilbo, ecco che quel suono armonioso risorge dalla cenere e ridà al protagonista e al fido Sam la forza di proseguire nel viaggio contro la morte, anche nel cuore di Mordor, anche alle porte della fine. È la Contea che popola i discorsi di speranza dei due hobbit quando Gollum, vittima bipolare dell’anello, tenta di separarli per recuperare il suo tesoro, motivo di sopravvivenza oltre il tempo e lo spazio della natura. Il luogo natio è la chiave per tornare a credere in un futuro migliore, per se stessi e gli altri. E i progetti che prima erano imminenti ed ora sono remoti tornano con più forza a vincere la paura dell’oblio, diventano lo slancio che dal fondo riporta alla luce della vita.
Il suono leggero della Contea rappresenta la forza di andare avanti, con la speranza nel cuore di tornare indietro, quando quest’avventura sarà finita e gli hobbit svestiranno i panni degli eroi per tornare ad essere nella loro dimensione di comuni mezzuomini. Soltanto alla fine delle infinite peripezie dei nove dell’anello, Sam, vero fulcro dell’opera insieme al combattuto Frodo, potrà realizzare il suo sogno di un suolo fertile, in una casa hobbit splendente di vita.



Perché Casa è il mare fratello, dove sentiamo di essere nel momento, dove ci rinvigoriamo con gioia e amiamo col cuore, mettendo in secondo piano le fatiche che ci hanno portato fino a quell’istante. È dove tutti vogliamo tornare, anche chi non ha una casa, anche chi ha paura, anche chi non la dimostra, anche chi fugge con la morte nel cuore, anche chi protesta per andare ancora più lontano, anche chi ha sangue fraterno che bagna le mani tremanti. Ci sono posti che viviamo con leggerezza, altri che sopportiamo con animo tenace, altri ancora che subiamo e temiamo. E c’è un posto che chiamiamo Casa, quando, di ritorno da un viaggio, risentiamo i nostri odori, rivediamo i colori del nostro tramonto nel Sole che si perde tra le colline e il mare. E una musica leggera ci scalda il cuore e carezza il viso; è il Suono della Contea. Andare avanti per tornare indietro. Un giorno.

mercoledì 17 agosto 2016

PERCHÈ LA PRIMA STAGIONE DI SCREAM È “NÌ”

Ci sono le vacanze. Il corpo va in vacanza e lo spirito e la mente si accodano. Ma, quando ti prende la passione per le serie tv, te le porti dietro anche se vai dall’altra parte del mondo. Cambiando lo stato mentale, deve cambiare però anche il tipo di serie tv; e allora si passa dalle complicate "The Knick" e "Mr. Robot" a sitcom leggere, a teen drama, a serie appena appena horror, di quegli horror che le porte cigolano. In quest’ottica, l’incontro di mistero, teen drama, slasher e gore costituito da “Scream” rappresenta il massimo che un appassionato di serie tv potrebbe desiderare da un prodotto fresco, estivo e al gusto di limone. Mi correggo: Scream “rappresentava” il massimo, prima che arrivasse l’immensità di Stranger Things; ma quella è un’altra storia.


Non è tutto oro però quello che ha trovato l’uomo zoppo che ha imparato a zoppicare andando con la gatta a lardo nella mezza stagione che non esiste più, e nel corso della prima stagione di “Scream” alcuni elementi che ne determinavano l’immediatezza e la leggerezza, marchi di fabbrica propri della serie, sono degenerati nella loro semplicità, andando talvolta ad inficiare la qualità dello show. I personaggi in primis non sono riusciti a manifestare un’evoluzione degna di nota, sembrando spesso delle copie di loro stessi nel tempo. Difficilmente si sono scrollati di dosso lo stereotipo a cui erano stati associati nel corso della presentazione iniziale dei vari protagonisti. Anche quelli che sembrerebbero aver subito i cambiamenti più significativi, come Emma, in realtà paiono incastrati in uno sviluppo ciclico che li riporta sempre nella medesima condizione e li spinge a voler ricercare un equilibri che appartiene ad una situazione passata. Questa tendenza porta i protagonisti a svolgere spesso le medesime attività, a formulare pensieri sempre molto simili in situazioni differenti, e ciò non giova affatto allo sviluppo differenziato e originale di una storia più complessa nel corso di una serie.
Associata alla staticità delle personalità coinvolte nella serie, emerge la questione della gestione dei tempi, probabilmente il tasto più dolente che si possa toccare nell’analisi di questo prodotto giovanile. Se valutate con un minimo di raziocinio, le reazioni dei protagonisti sono completamente sbagliate nei tempi. personaggi che subiscono un lutto molto prossimo e la scena dopo si aprono alla vita perché la stessa è breve e non può essere sprecata a piangere i defunti, altri che dubitano di un loro caro per poi riabbracciarlo come se niente fosse appena trenta secondi dopo, gente che continua a dare feste da centinaia di invitati, tutti rigorosamente minorenni, nonostante ci sia in giro un assassino da ben OTTO puntate. Direi che OTTO puntate - che, tradotte in tempo terrestre narrato nella serie, sarebbero qualcosa come tre mesi - potrebbero bastare a farti assumere un comportamento leggermente differente da quello delle bionde sprovvedute nei film horror anni ’90. O dei neri, quelli in qualsiasi teen slasher, che muoino per primi. Molti dettagli, reazioni, relazioni e stati d’animo non collimano e mai potrebbero farlo con la realtà dei fatti che vorrebbero presentarci sullo sfondo delle vicende adolescenziali dei giovani abitanti di Lakewood.
Ma la vera scelta che mi ha fatto storcere il naso di circa 180° è stata quella relativa al finale, all’assassino, alle sue motivazioni e allo svolgimento successivo alla risoluzione del caso che ha aperto le porte alla seconda stagione. A questo punto però devo avvertirvi della presenza di spoiler, pericolosi, vista la tenera età della prima stagione in questione, conclusasi appena un anno fa.


SPOILER ALERT

Scream, la serie di film, è sempre stata fondata sul gioco che si instaurava tra il regista e lo spettatore, invitato a crearsi una sua idea sull’identità dell’assassino, idea che sarebbe poi stata smontata sistematicamente ogni pochi minuti, per essere poi riformulata in un continuo duello cerebrale. Il primo film, quello del 1996, è senza dubbio il migliore dell’intera quadrilogia, perché riusciva perfettamente a far dubitare di tutti e il finale lasciava spiazzati perché, attraverso l’espediente del doppio, psicopatico serial killer, venivano automaticamente smontate tutte le ipotesi “usuali” formulate dal pubblico. Un espediente narrativo unico, che infatti, sfruttato nel primo film, ha relegato tutti gli alti capitoli successivi della serie ad un gradino inferiore. In ogni caso, nonostante la scelta doppia, gli spettatori ebbero comunque la soddisfazione della scoperta piena del serial killer, senza appendici o strascichi forzati.
Nella prima stagione della serie tv il gioco si è ripetuto, con gli spettatori chiamati ad aguzzare la vista in cerca di indizi nei momenti cardine, ossia quelli degli agguati dell’assassino vestito da Brandon James. Nel mio caso, dopo un inizio titubante, mi sono deciso a prendere carta e penna e segnare, per ogni apparizione del serial killer, il luogo in cui sarebbero dovuti essere tutti gli altri personaggi, per verificare poi, a conti fatti, alibi, versioni e situazioni. Secondo i miei calcoli l’assassino sarebbe dovuto essere il professor Branson, ma l’espediente già usato nel primo film della serie ha vanificato ogni gioco d’ipotesi. Se per il film però l’essere sostanzialmente canzonati per un’ora e mezza poteva essere anche divertente, per quanto riguarda una serie di dieci episodi il gioco scherzoso comincia a farsi pesante se riletto sotto queste luci posteriori. E così perde d’interesse l’assassino con tutti i suoi perché. A contribuire a questo momento non all’altezza, una costruzione delle sequenze finali non all’altezza: tutto si è svolto in maniera eccessivamente veloce, non abbiamo capito i dubbi riguardanti l’identità di genere del figli di Daisy e Brandon né i piani della psicopatica giornalista. Tutto è sfumato sul più bello, lasciandoci frettolosamente alle consuete scene riappacificanti, rotte infine dal riassunto del nuovo indagatore dell’incubo di Lakewood e dalle sue supposizioni.

FINE SPOILER


Si potrebbe però anche parlare del divertimento, dei riferimenti ai capisaldi del genere, del meta cinema e delle citazioni dalla serie originale, di Noah e di Audrey e di tutti gli aspetti positivi che fanno di Scream una serie appassionante e coinvolgente, ma nel titolo c’è scritto “NÌ” e di “nì” vi ho parlato. La serie di Netfix è comunque riuscita a tenermi incollato allo schermo con leggerezza, dosando perfettamente momenti a diverse velocità per non stancare mai. E così facendo è volata in un lampo, allietando pomeriggi e serate afose. Per cui, se avete amato l’omonima serie di film, non potete assolutamente lasciarvi sfuggire questo piccolo cult televisivo, con tutti i problemi e le umane imperfezioni; se invece cercate solamente una serie d’intermezzo per passare le vuote giornate d’agosto, Scream potrebbe fare al caso vostro. E se invece avete già visto la prima stagione cosa ne pensate? Siete rimasti soddisfatti dalle scelte conclusive? Pensate anche voi che i Lakewood Six tramano ancora qualcosa? Ops, rispoiler.

lunedì 15 agosto 2016

TRAUMI INFANTILI - LA MORTE DI MUFASA

Correva l’anno 1997, apice del cosiddetto “Rinascimento Disney”. Era l’epoca in cui lo studio d’animazione sfornava un capolavoro all’anno, ma alcuni erano più capolavori di altri. E ancora oggi si discute e ci si vanta del cartone animato Disney uscito nel proprio anno di nascita nelle discussione da bar tra amici. C’è chi può tirare in ballo “La Bella e la Bestia”, chi “La Sirenetta”, chi “Aladdin”. Io capitai male e mi dovetti accontentare di “Pocahontas”, di cui tutti parlano bene, ma che nessuno in realtà riguarderebbe più di due o tre volte. Uno di quei capolavori meno capolavori di cui parlavamo prima. Ma torniamo al 1997, anno in cui avevo un anno e i miei genitori cominciavano ad acquistarmi delle ingombranti VHS per tenermi impegnato nelle ore pomeridiane. Di lì a pochi mesi avrei imparato precocemente ad inserire le videocassette nel videoregistratore, a farle partire e a non mandarle indietro prima di riporle nella custodia (Be kind, rewind!). Di lì a pochi mesi avrei bruciato pellicole, rotto custodie a furia di aprirle, collezionato (quasi) tutti i personaggi di Space Jam, ma quella è un’altra storia.


Una delle prime VHS che i miei genitori mi acquistarono fu il classico dei classici, successo planetario del 1994, “Il Re Leone”. La prima volta che lo vidi ero nella mia cameretta, la classica camera anni ’90, con il tappeto per le macchinine al centro, la cesta dei giocattoli e Topo Gigio sul letto. Ero nella mia camera, presumibilmente nel seggiolone - ora non ricordo con precisione, ma molto probabilmente ancora stentavo a camminare - quando mia madre diede inizio all’epopea di Simba nella savana prima di dileguarsi alla ricerca di faccende domestiche. Ricordo un incipit epico, seguito da momenti molto leggeri e spensierati in cui il piccolo protagonista faceva esperienza della sua nuova casa. Poi il dramma, il trauma: Simba che, ingannato da Scar, si trova in pericolo di vita, ma viene salvato dal fiero padre, leone coraggioso e valoroso. Quando però la situazione sembra risolversi per il meglio, ecco che rispunta il perfido Scar, e il futuro della famiglia reggente ripiomba nelle tenebre. Un salto nel vuoto, una carica di gnu e la fine precoce di un sovrano encomiabile e di una padre amorevole. Poi Simba che, passata la mandria, scende dalla rupe per soccorrere il padre. Ricordo un forte senso di smarrimento per quello che stava succedendo sullo schermo, mi dispiacque molto quando vidi il corpo esanime di Mufasa, ma è con la reazione di Simba che pesanti lacrimoni cominciarono a segnarmi il visino e a finire nella bocca salata. Piansi a dirotto pensando a Simba e alla sua perdita, all’improvvisa scomparsa della colonna sulla quale di fondava la sua infanzia. Mi sentì lì, in quella gola, al fianco del cucciolo, incapace di ridargli la speranza. In quella gola scura e polverosa, nella quale erano morti anche i colori della savana selvaggia.

Mia madre entrò in quel momento e mi vide in lacrime alla famosa scena della morte di Mufasa e pensò che, nonostante la tenera età, avessi già coscienza della morte. Il periodo in cui cominciava a credere di avere un figliolo genio, ma no genio tipo Spinoza che fa le battute che fanno ridere, tu le leggi, ridi, e quando la risata diventa espressione normale aggiungi “Genio”. No, proprio genio tipo Einstein o Montalcini, o anche quello di Aladdin, per rimanere in tema Disney. Ah mà, che abbagli che prendi!

Potreste però obiettare che io non possa avere ricordi di quando ancora dovevo spegnere a fatica due candeline. Ma si tratta di un ricordo prolungato, una serie di sensazioni ripetutesi nel tempo e arrivate fino a me oggi, mutate nella forma ma non nella sostanza che le contrassegnò all’epoca della prima visione. Ancora oggi, quando riguardo “Il Re Leone”, provo una fitta al cuore nel momento della dipartita violenta del baluardo dell’ordine e della speranza di Simba. Perché la morte è una parte di vita e, come tale, ne facciamo esperienza, la introiettiamo al pari di altri elementi e la portiamo con noi. Ognuno si trova un giorno a dover affrontare la morte, nelle sue diverse forme e rappresentazioni. Alla mia generazione, il trauma di Mufasa ha insegnato la mancanza di qualcosa quando essa c’è e un attimo dopo sparisce, nella polvere della savana grigia.

mercoledì 10 agosto 2016

PERSI IN PILLOLE? - 2


LE MANI AI CONCERTI
Un dubbio che mi trascino da tempo è la posizione delle mani ai concerti. Ho provato a tenerle in tasca, incrociate, a batterle a tempo, ad agitarle nell’aria come a voler lanciare un insulto verso la band, ma niente: continuo a sentirmi inappropriato. Ci vorrebbe un modo per muoverle in armonia col corpo senza sembrare un reduce del Vietnam.

LE MANI AI CONCERTI
Sono stato ad un altro concerto. Confermo i dubbi. Appena trovo una soluzione scrivo un saggio su come perdere tempo senza sprecare nemmeno un minuto.



NOVANTA
Abbiamo paura dell’Isis. Paura reale che qualcosa arrivi fino a qui. Una paura umana, generata da un movimento che punta a creare terrore nella popolazione, e punta a creare un’associazione inconscia e inscindibile tra religione e terrorismo.
A volte non possiamo fare a meno di provare paura.
Abbiamo paura dell’Islam, del burqa, delle atlete di beach volley che giocano col corpo costretto, degli Imam, del ragazzo seduto al nostro fianco sull’autobus che porta chissà dove. Una paura umana che viene alimentata da un pensiero contorto e troppo semplice per poter essere specchio del reale.
A volte possiamo scegliere di non avere paura e rompere la catena dell’odio.

GIGGI
Gigi d’Alessio all’inaugurazione di Casa Italia a Rio. Pellegrini si consola con il record di tappi spacciati.

I RUMORI DI FONDO
Temer, facente funzione di presidente del Brasile alla cerimonia di apertura delle olimpiadi, ha dichiarato “aperti i giochi” sotto una bordata di fischi, che a noi sono arrivati modificati in modo da parere gridi di acclamazione. Siamo quasi liberi di sapere, i Brasiliani sono quasi liberi di esprimersi, su Infrizzy ci sono quasi tutti i film di Totò. Perché il futuro è quasi. Clemente Mimun docet.

DALLE STELLE AI VOLI PRESIDENZIALI
Nibali conduce la gara.
Cade a telecamere spente.
Doppia frattura della clavicola.
Sogno olimpico infranto e medaglia d’oro al Belgio.
Viaggio di ritorno in Italia a bordo dell’aereo presidenziale.
Dieci ore di Renzie.

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La gazzetta.it, l’indomani dell’argento nella spada individuale di Rossella Fiamingo, dedica un video collage di immagini in costume dell’atleta, titolando “Rossella Fiamingo, La scherma è sexy”. Libero chi?

L’ORA ESATTA
Ieri mattina mi sono alzato alle 6 per bere e ho trovato soltanto una bottiglia mezza vuota di the. Mentre tracannavo l’ultimo goccio dalla bottiglia, ho sentito in lontananza riecheggiare la canzone dell’ora esatta di canale 5. Mi è pianto il cuore.

venerdì 5 agosto 2016

DOWN - PRIMO GIORNO

Anf.. anf… La gamba è il mio primo pensiero. Mi duole terribilmente; un dolore lancinante, un migliaio di insetti famelici che divorano avidamente l’osso e il muscolo che lo circonda. Fa male, deve essere rotta, credo. La luce è accecante. Il caldo umido si sente sulla pelle e sulle labbra: in che mese siamo? Luglio, ma non ne sono sicuro. Non sono sicuro di nulla. Provo a ricordare, la testa mi fa male, forse una botta, un gonfiore, smetto di pensare. Svengo.



Mi risveglio. Devono essere passate delle ore perché il sole è fuggito, ora una luce biancastra mitiga il buio di una notte senza stelle. Poggio le mani, è friabile. Terra, tocco la terra nuda, calda, tocco la terra arida. Il solo tocco del terreno mi riporta alla mente un’estate che non fu più, quelle emozioni mai riprovate. Torno in me, il mal di testa si è affievolito. Apro gli occhi.
Ciò che mi si para davanti dopo un primo momento di cecità passeggera è una parete di terra. Sono circondato dalla terra. Uno spazio circolare, uno spazio circolare mi circonda. Un cerchio perfetto rinchiude la mia anima tre o quattro metri sotto terra. Sono in una buca, sono in trappola. Mi agito, un senso di claustrofobia mi impedisce di prendere aria, smetto di respirare per qualche secondo, mi sento venire meno, la testa torna a pulsare violentemente, il cuore mi scoppia in petto. Poi un dolore improvviso mi distrae e impedisce al mio cervello di controllare il mio corpo e l’ansia cala leggermente. Respiro. Il dolore era la gamba, devo averla mossa inavvertitamente. La guardo. Le mie paure trovano terribile conferma. Circa dieci centimetri sotto la rotula la gamba ha assunto una colorazione violastra, una piega strana. Sembra che possa compiere lo stesso movimento del ginocchio anche in quel punto. Tibia e perone mi hanno salutato da un pezzo. È uno spettacolo orribile, raccapricciante, rivoltante. Sale un conato di vomito, non riesco a trattenerlo. Mi pulisco come posso, le mani si sporcano.
Raccolgo le idee. Mi trovo in una buca circolare scavata a diversi metri di profondità. La precisione con cui è definito il perimetro dell’angusto cerchio nel quale sono costretto suggerisce una mano umana dietro tale progetto. Qualcuno ha scavato questa fossa, ho paura. Comincio a tremare senza un preciso motivo, la paura irrazionale mi assale. Non voglio assolutamente cedere alla mia stessa paura, ma una parte di me mi dice che morirò qui. La paura mi travolge. Chiudo gli occhi. Raccolgo tutto me stesso, tutta la mia paura e la scarico in un grido. Un grido lungo, spontaneo. Lo sento, è il mio grido. Un grido di paura. La paura echeggia nel cielo della notte. TumTum. TumTum. TumTum
Scaricata la tensione provo a concentrarmi. Ho appena gridato alla Luna, se c’è qualcuno in questo posto sconosciuto mi avrà certamente udito. Cerco di rallentare il battito del mio cuore che mi impedisce di sentire al di fuori di me. Ci riesco. Rimango in ascolto di qualcuno o qualcosa che possa avermi sentito e che sta giungendo in prossimità della buca in mio soccorso. Passano i minuti, non sento altro che uno scorrere lento. Probabilmente un fiume. Non sento altro. Devo essere lontano dalla civiltà, lontano dal mondo. Il cuore riparte, il dolore mi assale.

Come sono finito qui? Chi mi ha portato qui? Non riesco a ricordare, non riesco a pensare ad altro se non alla gamba martoriata e alla paura. Sento una mano fredda sfiorare la mia spalla. È scheletrica, trasmette tristezza. La mano della morte mi sfiora, la fine non è mai stata così vicina. Un moto di sopravvivenza mi allontana della falce. Ricordo una macchina. Una macchina scura. Non faccio in tempo a creare un’immagine definita nella mia testa che il sonno mi assale, Morfeo vuole le mie spoglie. Sudato e sfinito cado in un sonno profondo.

martedì 2 agosto 2016

PERSI IN PILLOLE?

Rieccoci, dopo una settimana di immeritato riposo tra le spiagge croate. Che avevano detto essere anche sabbiose, e avevano ripetuto essere anche sabbiose. Io ho portato a casa i sassi gialli di Golden Bay per riprova. Cosa è successo in questa settimana d’assenza? Molto, troppo. Il mondo è andato avanti; qualcuno è nato, qualcun'altra è andata. Qualcuno ha aggiornato l’app del momento. Qualcuno è una lota. Qualcuno vuole cambiare il mondo e qualcun altro non andrà a Rio. Ma andiamo con ordine.



Sliding Doors
Questa settimana sono venute a mancare due personalità di spicco del mondo della cultura e dello spettacolo italiano: Marta Marzotto e Anna Marchesini. Vorrei soffermarmi soprattutto sulla seconda, non avendo avuto modo di conoscere e apprezzare il lavoro della prima.
Il trio era di un’altra generazione e non è arrivato a noi 90s. Chi li ha visti era passato per caso su un Da Da Da o un Teche Teche Tè, perché nella fascia tra il Tg e Don Matteo mettono sempre qualche riempitivo. Ma quel riempitivo era diverso: fresco, nuovo, divertente, qualitativamente alto. Non erano i nostri comici, ma sono stati i comici di tutti. E riguardando ora alcuni pezzi storici ci si accorge della linea di demarcazione che distingue l’autorialità professionale dall’amatorialità del chiunque può. Perché Anna Marchesini poteva, e noi no.
 
Immagine d'annata, dannata qualità


Il ritorno dei Pokemon
Premessa: non spreco il mio tempo preziosissimo a camminare con la testa china sul telefono per avere dei mostri virtuali che poi in realtà non esistono.
In questo periodo si è parlato molto e a sproposito della nuova app di Niantic, Pokemon Go. Non sarò io ad elencare gli strabilianti numeri del gioco. Ciò che volevo proporre è un pensiero sulla fetta d’utenza a cui l’applicazione è destinata. Nelle ultime settimane i media si sono accaniti, alla ricerca di facili click, contro questi fantomatici allenatori di Pokemon, e la stessa utenza si è spaccata tra coloro che stanno amando alla follia la realizzazione del loro sogno d’infanzia e coloro che hanno preso la palla al balza per rincarare la dose di guerra social al grido di “Fatevi una vita!uno!”. Dicono che si è grandi per certe cose. Quello che penso io è che i Pokemon, i primi 151, appassionarono milioni di bambini nel mondo. Erano destinati ad un pubblico giovane, spopolarono nella fascia d’età compresa tra gli 8 e i 14, tutti armati del fido Game Boy (Color) e di pile ministilo, che altrimenti la console si sarebbe spenta esattamente nella grotta celeste. Per informazioni chiedere a Murphy. Quei bambini che negli anni ’90 pretendevano solo prodotti marchiati Pokemon oggi sono cresciuti. L’app di Niantic prevede che il giocatore disponga di uno smartphone con un determinato sistema operativo (per android Kitkat 4.4), gps e abbonamento internet. Tutti elementi che io, a sei anni, non conoscevo minimamente. E credo neanche i bambini di oggi. Perché questo Pokemon Go non è un gioco per bambini, ma da ragazzi. Perché l’operazione nostalgia ha senso quando hai l’età per provare nostalgia. E allora i nuovi allenatori non sono adulti fuoriposto, vestiti da bebè mentre cavalcano un cavalluccio di legno sofferente, ma esattamente il prototipo, per età e dotazione tecnologica, a cui l’app è rivolta.

Le rivoluzioni non si fanno sul divano
E poi due giorni fa è uscita la nuova patch. Io preferivo le orme.

Mia moglie mi vota!
Non ho ben capito il ruolo dei coniugi dei candidati nelle elezioni presidenziali americane. E se uno non avesse una moglie? E se uno fosse Bertolaso?

La filosofia della lota
Quanto è quotata oggi una pipita da 36 carati?

Cujo
I cani sono belli. I Cani sono bravi. Quel cane invece è proprio irascibile.

Le ferie
Uno studia tutto l’anno, perché deve prendersi una Laura. Poi va in vacanza per tutto il mese d’agosto, abbandonando la sua attività al destino, oppure va in ferie solo l’ultima di luglio e poi torna più carico che mai, pronto a pubblicare un articolo ogni due giorni. Recensioni, analisi, pensieri, commenti, Salvini e racconti. E pillole, come potete vedere.
Tutto ad agosto, come se non ci fosse un settembre.

Le ferie 2
Schwazer ha comprato un biglietto aereo per Rio.