lunedì 26 settembre 2016

WAYWARD PINES 2 - COMMENTO EPISODIO 6

Ci eravamo lasciati la scorsa settimana con il momento morto continuo che ancora cammina. Non si può dire che la tendenza sia stata invertita in toto, ma indubbiamente questo sesto capitolo spicca sul livello medio della seconda stagione per coerenza narrativa e capacità di costruire una storia su una serie di non detti. Fondamentalmente si tratta di ciò che finora era mancato alla serie: la capacità di intrigare lo spettatore e di fargli credere di avere qualcosa da dire prima della fine. ora qualcosa da dire potrebbe esserci; non intendo sbilanciarmi ma potremmo essere di fronte ad un finale in crescendo.
Il problema della costruzione frammentata è stato parzialmente ridotto attraverso i tagli ad alcune linee ben precise, come quella dei due ragazzi, fratello e sorella, invischiati nei loro problemi sessuali. In questo frangente gli sceneggiatori anno saputo concentrare le loro forze sull’attacco degli Abby, e tutte le sottotrame portate avanti in questo sesto episodio hanno saputo collegarsi in maniera accettabile con il filone principale. Il problema del protagonista invece continua a rappresentare uno dei maggiori punti a sfavore dell’intera seconda stagione. Rispetto alla prima, in cui era Ethan Burke a fare da mattatore, qui non riusciamo ad empatizzare appieno con qualcuno dei protagonisti, sia per questioni di scrittura che, soprattutto, per questioni di tempo. Non seguiamo nessuno nello specifico e non arriviamo ad immedesimarci nelle situazioni vissute da Theo Yedlin, sostituto ideale del compianto Ethan.


Ancora una volta la serie ha peccato nelle scelte relative ai rapporti tra le due stagione, ancora una volta la morte di un personaggio cardine della prima stagione è stata trattata come un momento di poco peo, andando ulteriormente a sfaldare la struttura portante della serie. Non è possibile costruire un progetto su basi solide e poi liquidare queste basi su due piedi. Era necessaria una scrittura più ragionata, più attenta alle risposte del pubblico al termine del primo atto. Ancora una volta la serie ha dimostrato di smarrirsi facilmente senza la guida diretta dei romanzi di Crouch. Ricreare e ricamare sopra un tessuto usato non è cosa da tutti.

Wayward Pines si è decisa a lasciare aperte delle porte per rinnovare l’interesse del pubblico. Il mistero principale è indubbiamente quello di Margareth, unico Abby femmina che, dai test effettuati, ha dimostrato di possedere un’intelligenza superiore a quella umana. D’altro canto però non possiamo affermare che questi nuovi Abby organizzati siano un’evoluzione repentina della razza dominatrice, quanto più che, parafrasando le parole di CJ, essi imitino gli atteggiamenti umani in un brevissimo periodo. Ma cosa si cela dietro l’aberrazione dell’aberrazione? Cosa nascondono i segni in rilievo sulla mano dell’unica donna? A mio parere potrebbe essere nel gene femminile la soluzione all’aberrazione e quindi lo sviluppo della razza degenerata verso la civiltà, oppure potrebbero essere le Abby femmine a comandare gli spostamenti e le azioni di quelli maschi, meno evoluti per una questione naturale.

Altro grande interrogativo è relativo al ruolo di Rebecca e ai suoi rapporti con il gruppo dei rivoltosi che ha tenuto in scacco la città per anni. Credo che prima della fine sia plausibile vedere un revival del finale della prima stagione, con scontri aperti in città tra prima generazione, ribelli e aberrazioni. In ogni caso la sensazione, rispetto al calare della prima stagione, è che sé una verità esiste, essa è là fuori, oltre le divisioni politiche e i dissapori tra coniugi. Le basi per un finale passabile sono state poste, speriamo che Wayward Pines riesca ad accendere una scintilla nel buio prima della fine.

lunedì 19 settembre 2016

NESSUNO BUSSÒ ALLA PORTA

Igor non aspettava nessuno, aspettava qualcuno. Ma quel giorno si presentò nessuno.
Era una casupola accogliente, quella in cui Igor aveva passato gli ultimi anni della sua vita. Prima era stata la casa dei genitori dell’uomo, e prima ancora una rimessa per gli attrezzi appartenuta ad un lontano parente. La famiglia di Igor aveva ereditato un locale dismesso e l’aveva trasformato in una sorta di abitazione vivibile. I lavori erano costati tempo e denaro per l’anziana coppia; tempo prezioso, visto il tempo rimasto. Avevano associato a quell’abitazione un complesso di sentimenti e sacrifici al punto da considerare quelle mura come loro progenie. Curavano le rifiniture con amore. Non lasciavano passare dieci minuti prima di sostituire una lampadina fulminata. Credevano, complice anche la vecchiaia galoppante, che quella casa avesse un’anima, e che spettasse a loro curarsi della materialità per curarsi della spiritualità.


Igor aveva vissuto con i genitori fino ai trent’anni circa, e quel pomeriggio aspettava qualcuno. Era nato in casa, un appartamento poco luminoso in viale Samsa, poi la famiglia si era trasferita in città per trovare un impiego stabile e il piccolo Igor aveva dovuto lasciare i suoi giocattoli in quell’appartamento poco luminoso. Fu difficile ritrovare l’equilibrio, ma i Kums ci riuscirono: Il padre di Igor, Victor, fu subitamente assunto in un ufficio contabile. Non era certamente il lavoro della sua vita, ma per garantire la sicurezza economica al figlio e alla moglie questo ed altro. La porta dell’ufficio di Victor Kums cambiava ogni giorno. Un giorno era troppo bassa, un giorno sembrava essere stata ruotata di novanta gradi. Ogni giorno Victor entrava con una posa differente e rimaneva in quella posizione per molte ore. Come lui, anche gli altri dipendenti dell’ufficio erano costretti ad entrare in modo alternativo, ma tutti nella stessa maniera. E ogni sera le mogli dei dipendenti dello studio cercavano di lenire le pene delle schiene dei loro mariti con massaggi, oli e pomate profumate. Avevano tanti odori differenti questi prodotti, ma nessuno riusciva a togliere quella cattiva postura, sempre diversa, ma sempre la stessa.
Così i Kums ritrovarono una stabilità economica e la tranquillità di un alloggio duraturo. Poi scoppiò la guerra tra fazioni: da una parte i rossi Kumachi, dall’altra i seguaci del Santo col Fioretto. I Kums ripartirono alla ricerca di fortuna. Stavolta Igor dovette lasciare i ricordi, quelli che aveva avidamente custodito e nei quali vivevano ancora i giocattoli abbandonati nel primo appartamento poco luminoso. Passarono gli anni e le abitazioni. In ogni luogo Igor lasciava qualcosa di sé: una volta la bicicletta, una volta il sorriso. Aveva però sempre in mente l’idea di ripercorrere un giorno a ritroso quel percorso per riacciuffare gli averi perduti e tornare in sé.
Un giorno lasciò il nido familiare, perché sentiva di poter continuare da solo. E anche in quell’occasione lasciò qualcosa di sé ai genitori, così che lo ricordassero anche quando fosse stato lontano. Si trasferì a diverse centinaia di miglia da casa, in un condominio buio, con la muffa nera alle pareti e le pareti scricchiolanti. Qui cominciò a vivere, lontano dalle perdite che aveva seminato nel tempo. Si costruì una famiglia, rattoppò le tende alle finestre, tinteggiò le pareti e riempì di luci il suo appartamento nel condominio pensando di allontanare le ombre. Ma un giorno una tempesta estiva spazzò via le tende, allagò la casa e l’umidità riaffiorò dal bianco sporco. Così i genitori si spensero a breve distanza l’uno dall’altro e Igor non fece in tempo a tornare nell’appartamento buio che dovette assistere ad un altro funerale. Il matrimonio finì, senza figli a farne le spese, senza animali domestici, senza sfuriate violente, ma non senza rimpianti cocenti. E Igor tornò a casa, quella casupola accogliente dove la storia ha avuto inizio, per cominciare quel giro a ritroso verso se stesso, ma si fermò alla prima tappa. Non cambiò le lampadine e rimase al buio, ad aspettare qualcuno. Ma nessuno era alla porta. Nessuno bussò e Igor non si stupì. Nessuno entrò, nessuno si sedette con Igor al freddo di una casa spenta. Nessuno portò ciò che Igor stava aspettando da troppo tempo, ma non chi lui davvero attendeva da sempre. Ricordò dove aveva lasciato i giochi, sorrise un’altra volta, nessuno lo vide sorridere. Ricordò ancora quella casa con la muffa alle pareti e la bici, le giornate interminabili seduto dietro la porta ad aspettare il padre che tornava dal lavoro malconcio e acciaccato, piegato per lui. Ricordò l’appartamento poco luminoso da cui scopriva il mondo. Stanco si versò l’ultimo goccio di whiskey e andò alla finestra. Nel riflesso Igor vedeva una lacrima solcare il suo viso e un sorriso arginare la lacrima. Nessuno era entrato, nessuno era uscito. Nessuno andava con passo lento per la deserta campagna d'inverno.

venerdì 16 settembre 2016

WAYWARD PINES 2 - COMMENTO EPISODIO 5

Sovvertendo l’ordine naturale rispettato finora, Fox decide di allungare questo brodo annacquato e di scaglionare le prossime puntate in maniera da portare Wayward Pines fino a metà ottobre. Poco male, avremmo più occasioni di analizzare lo spreco di potenziale che la serie sta proponendo da un più di un anno a questa parte.
Anche in questo lentissimo e antiadrenalinico quinto episodio, gli sceneggiatori non riescono a trovare un filone narrativo che, tra i tanti riesca, a sorreggere l’intera narrazione e la suspance creata dalla fine del quarto episodio svanisce come nulla nelle molteplici e poco ispirate sottotrame. Dovrebbe interessarci la questione sentimentale del ragazzo dubbioso riguardo la propria sessualità e della ragazza titubante all’idea di riprodursi? No. Dovrebbe interessarci la situazione matrimoniale di Theo, tradito tre anni prima del risveglio, ma duemila anni dopo essere caduto in un sonno profondo? No. Dovrebbe interessarci una lotta ristretta per la leadership? No. Dovrebbe interessarci invece la vicenda dell’Abby femmina e dello sviluppo della nuova razza? Forse. Tirando le somme, solo quest’ultima sottotrama dimostra di avere la forza di trainare la serie alla triste conclusione, ma la gestione dei tempi, la volontà di allargare lo spettro su narrazioni secondare slegate dal mistero principale, porta l’intera serie a perdere di mordente nei confronti del pubblico.


Ma proviamo a prendere quello che di buono Wayward Pines ha messo in gioco finora. Da una parte abbiamo una ricostruzione non immediata del periodo trascorso tra le due stagioni e soprattutto del progetto iniziale di Pilcher. Il Flashback dedicato all’architetto del progetto, nonché compagna del nuovo protagonista, è stato costruito in maniera intelligente, aggiungendo dettagli alla linea narrativa di fondo e caratterizzando discretamente i personaggi coinvolti nella storia. Rimangono però gli interrogativi riguardanti il reclutamento nel progetto di Yedlin. Sono nebulose le circostanze che hanno portato il gruppo di Pilcher a voler rapire il dottore; sembra che ci sia qualcosa oltre il legame che lo lega alla moglie, anche perché, in quel caso, i governanti li avrebbero dovuti svegliare nello stesso momento, o comunque a distanza di poco tempo. Non avrebbe senso crioconservare due coniugi per farli ritrovare in un futuro remoto per poi svegliarli a distanza di tre anni l’uno dall’altro e nel mentre assegnare alla moglie di Yedlin un nuovo marito. Credo ci sia un piano costruito attorno a Theo, qualcosa che ci verrà svelata solo in seguito seguendo il doppio filo della narrazione futuro-passato.


Dall’altra parte abbiamo invece gli Abby in piena evoluzione. La previsione del precedente commento potrebbe rivelarsi inesatta. Avevo immaginato si potesse presagire uno scontro razziale tra gli ultimi umani rimasti in vita e gli Abby, sviluppatisi in maniera da raggiungere un livello d’intelligenza considerevole. Avevo sopravvalutato il potere dell’evoluzione, per cui le aberrazioni, ripresentatesi sullo schermo dopo un episodio di assenza, hanno dimostrato di aver compiuto dei passi in avanti nella loro linea evolutiva, ma non così importante da rendere plausibile uno scontro per il dominio del pianeta. Sono ancora allo stato brado, nonostante l’agguato finale lasci intendere  la loro rinnovata pericolosità.
Interessante è, come detto, anche la questione dell’unico esemplare femminile. Tutte le femmine di Abby sono così o ci troviamo di fronte ad una mutazione dell’aberrazione? È possibile che sia nel gene femminile la chiave dello sviluppo delle mutazioni verso una soluzione umana? Cosa si cela dietro il nome Margareth, pronunciato da Megan con una significativa enfasi?

Questa seconda stagione sembra ancora lontana dall’ingranare la marcia decisiva che accenda la fantasia degli spettatori. In una serie del genera il coinvolgimento è fondamentale, per questo Lost riusciva a mantenere milioni di telespettatori incollati allo schermo, per la capacità di gestire i tempi, le risorse e di non farsi trovare mai impreparata, mai un momento morto. Al di là di una trama eccezionale. Wayward Pines invece è un momento morto continuo che barcolla da tempo. E con questa camminata titubante non mi aspetto più che riesca a regalare colpi di cosa degni d’interesse.

martedì 13 settembre 2016

DON’T BREATHE - NON RESPIRATE

Siamo abituati al sovrannaturale, allo slasher, al teen-slasher, al gore, al fantathriller, alla fantascienza. Siamo abituati a combinazioni multiformi di questi generi. Siamo abituati a catalogare ogni evento che ci accade, ogni momento, ogni film che vediamo; eppure non riusciamo a collocare questa pellicola senza perderci una parte della sua anima. Perché “Don’t Breathe” - arrivato a noi come “Man in the Dark” - riesce, nella sua semplicità, a innovare e dare freschezza ad un filone di thriller claustrofobici di cui avevamo perso notizia.

La trama è molto semplice nella struttura: un gruppo composto da una ragazza e due ragazzi adocchia il colpo della vita nella figura di un reduce dalla guerra in Iraq che vive solo, in un quartiere isolato e custodisce in casa un’ingente somma di denaro consegnatagli come risarcimento per aver perso la vista in Medio Oriente. Rubare dei soldi ad un anziano cieco e solo sembrerebbe più facile di rubare le caramelle ad un bambino. Ma non bisogna assolutamente sottovalutare le risorse di un ex militare. Espressa in questi termini la trama potrebbe sembrare spoglia, ma andare più a fondo nella spiegazione delle dinamiche che poi si formeranno nell’abitazione potrebbe rovinarvi un prodotto diverso, tutto da scoprire.


Sostanzialmente il film si svolge in un solo luogo, ovvero la casa del rapinato, ma nonostante questo il regista, il giovane Fede Alvarez, riesce a ricostruire e a caratterizzare in maniera assai diversificata diversi ambienti e situazioni al punto da allargare gli spazi e ampliare le possibilità del film. Ogni scena è infatti intrisa di un gusto particolare che cerca di sperimentare nel genere, magari andando a citare alcune opere che hanno segnato il cinema horror negli ultimi anni (riferimento a Cujo su tutti). Attraverso questa profondità innovativa, raggiunta soprattutto attraverso le capacità tecniche, Alvarez riesce a dare un volume ad una storia di per sé piatta e poco significativa.
A fare da padroni però sono il ritmo, incalzante e sostenuto, e la messa in scena, funzionale all’oggetto o la stanza che i protagonisti dovranno raggiungere. Il ritmo in particolare prende lo spettatore dal primo attimo, fin da quando le sequenze iniziali di presentazione dei personaggi non fanno presagire grandi scossoni all’orizzonte. Da quel momento in poi “Don’t Breathe” è un’escalation di pathos ed emozioni forti che coinvolgono lo spettatore e lo immergono appieno nell’opera. Lo fanno sentire nella casa dell’anziano reduce di guerra, lo costringono a trattenere il respiro. Nell’articolo ho voluto deliberatamente usare il titolo originale perché, a dispetto della locandina raffigurante la protagonista femminile, credo fermamente che l’imperativo “Don’t Breathe” sia rivolto allo spettatore e all’effetto che il regista aveva intenzione di provocare in sala. A mio parere questo obiettivo è stato pienamente raggiunto in un’opera sì puramente d’intrattenimento, ma che fa della qualità visiva e costruttiva lo strumento attraverso cui creare il legame con lo spettatore. Non ci troviamo di fronte ad una pellicola banale e scontata, ma tutto è in bilico, tutto è determinato dal particolare.


È lo stesso impareggiabile ritmo a fungere anche da copertura per gli errori di sceneggiatura, le forzature e i buchi di trama che il film presenta. Spesso infatti vi ritroverete a vivere pienamente una determinata scena e la costruzione logica dell’insieme rappresentato passerà in secondo piano. Soltanto in un seondo momento potrete ricostruire l’accaduto concentrandovi sugli errori, purtroppo talvolta grossolani, che stanno alla base dei difetti principali di quest’opera imperfetta. E lo farete solo in un secondo momento perché il ritmo, le atmosfere, le interpretazioni e l’ambientazione del film vi hanno portato ad immergervi completamente nella storia, e, quando ci si ritrova in una questione di vita o di morte, non sempre si ha il tempo di valutare eventuali errori di sceneggiatura.

Un film che difficilmente otterrà l’attenzione che merita, ma che dovrà ottenere la vostra attenzione, soprattutto se siete in cerca di qualcosa che vi avvolga e vi coinvolga, nella paura di essere scoperti. Chi ha spento la luce?

venerdì 9 settembre 2016

DIALOGO SUL VIAGGIO DEL TEMPO CHE RESTA

- Ti ricordi di quel viaggio che volevamo fare?
- Quale, quello a Berlino?
- No, quello prima. Quello a piedi.
- Il viaggio a Capo Sud, il viaggio a Reggio Calabria. Perché poi non l’abbiamo fatto?
- Perché ci siamo dentro fino al collo e non riusciamo a scappare da questa vita. Volevamo evadere, ma le catene erano troppo spesse.
- Avevamo anche avvicinato la meta, ricordi?
- Sì, poi volevamo andare a Livorno. Bagnare i piedi nell’acqua e tornare indietro. Pensavamo che quell’acqua ci avrebbe purificati, ma sai cosa? Ci sono stato a Livorno qualche anno dopo, e non è che fosse questo gran ché l’acqua.
- Forse all’epoca non l’avremmo trovata così. Ma quanto tempo è passato?
- Non ricordo bene, ho perso il conto. Ma sembra ancora ieri che ci sentivamo per organizzare. Gli zaini, i ricambi, il doppio fondo nel quale avrei nascosto qualche banconota, perché diciamoci la verità: alla fine non saremmo partiti del tutto sprovvisti.
- Anch’io avevo pensato di nascondere qualcosa in fondo allo zaino, ma non volevo dirti nulla. Avevo anche trovato la posizione perfetta per tenere un telefono, uno di quelli antichi. Ricordi i vecchi Nokia coi tasti? Uno di quelli lo avevo già chiesto a mio zio.
- Forse non eravamo davvero pronti per lasciare tutto e andare. Forse eravamo già incastrati nelle nostre vite allora, come lo siamo stati dopo. Forse è per questo che non l’abbiamo fatto.
- Già, io ci ho pensato anche le estati seguenti, partire sempre con te, magari cambiando ancora itinerario, ma sulla falsa riga del viaggio iniziale. Quello che avevamo immaginato insieme. Ma niente. Non ti ho neanche più scritto.
- Anche io ci ho pensato molto, ma ogni volta che ci pensavo mi prendeva una sorta di malinconia, una nostalgia di casa. Anche allontanarsi con l’immaginazione comporta uno sforzo. E dopo lo sforzo cominciava la paura incontrollabile di trovarsi in un’altra situazione. Forse è per paura che non l’abbiamo fatto.
- Per me non è stata la paura. Io avevo voglia di partire, ma qualcosa mi ha sempre bloccato. Volevamo diventare ciò che non eravamo, ma si può davvero lasciare tutto e andare?
- Non saprei. Non sono mai partito davvero. Ho sempre tenuto casa nel cuore e ho sempre atteso di rivarcare la porta verde, quella difettosa che non si chiudeva. Di mangiare ancora nel mio posto, da cui si vedeva bene la tv. Saremmo dovuti andare e lasciarci tutto alle spalle, invece siamo rimasti ad unirci alle pareti ed siamo diventati parte del paesaggio immobile. Ma quanto tempo è passato?
- Più ricordiamo e più mi sembra vicino, ma sento che queste memorie sono in un posto lontano.
- Alla fine quelle paure non le ho superate, me le sono portate dietro per tutta la vita, come un peso sullo stomaco e la gola che continua a comprimere la vita che scorre. La vita che esce a stento.  Pensavo che quel viaggio ci avrebbe liberato anche da noi stessi. Io dai miei fantasmi e tu dalle tue preoccupazioni. Chissà se qualcosa sarebbe cambiata nelle nostre vite. Ha presente Sliding Doors. Magari sarebbe stato tutto diverso con quel coraggio in più.
- Magari è una questione di amor proprio, che non abbiamo mai avuto veramente. Ma non credo che alla fine quel viaggio ci avrebbe cambiati così tanto. Io ho provato a cambiare me stesso anche dopo, ma diventare qualcun altro è difficile. Le persone non cambiano poi molto.
- Credi che tutto quello che è venuto dopo sarebbe successo alla stessa maniera? Gli studi, la laurea, le scorribande con gli amici, l’amore, i figli, la malattia.
- Dai troppo peso a quel viaggio. Non è una lunga passeggiata a cambiare il passo della vita.
- Invece ho sempre sentito di aver perso l’occasione di trovare me stesso a Capo Sud, o a Livorno. Comunque alla fine della strada. Credevo davvero che sarei riuscito a cambiare la mia casa andando lontano. Ma forse hai ragione, forse sarebbe cambiato poco. Era una vacanza in fin dei conti.
- Credo di sì.



- E se invece avessimo perso l’occasione di deragliare? Pensaci: se tutti noi fossimo in qualche modo condizionati dalla nascita nelle nostre azioni, nei pensieri, nei modi di essere, e quel viaggio fosse stato la chiave per uscire da questa circolo viziato? Per rompere la predestinazione?
- Adesso cominci con la predestinazione e il filo che deve passare nelle crune?
- Non sto dicendo questo, parlavo di una predestinazione dalla nascita. Un condizionamento assoluto che si conferma di continuo. Più che un filo una corda da marinaio.
Pensa al tuo matrimonio, a quel ruolo che avresti voluto assumere nel laboratorio, alla malattia di tuo figlio. Pensa a tutto ciò che non è andato per il verso giusto.
- Non esiste un verso giusto ed uno sbagliato, le cose accadono. Il divorzio, la disoccupazione, la morte. Fa tutto parte del gioco, e non vale la pena penarsi per ciò che non è stato.
-  “Passiamo troppo velocemente dall’età in cui si dice ‘un giorno farò così’ all’età in cui si dice ‘è andata così’”.
- Questo me lo ricordo.
- Quanto tempo è passato?
- Ora lo sento tutto.
- Le cose hanno preso una piega e si è fatta subito sera. Senza che ci accorgessimo della destinazione. Senza che ci godessimo il viaggio.
- Non lo so cosa ci è mancato in questa vita, ma forse saremmo dovuti andare.
- Ci è mancato qualcosa.
- Ora ci manca il tempo.
- A te quanto resta?
- Forse un giorno. A te?
- Credo di essere morto ieri. Ormai è tardi per partire.

giovedì 8 settembre 2016

WAYWARD PINES 2 - COMMENTO EPISODI 3 E 4

La seconda stagione di Wayward Pines viaggia spedita verso un luogo sconosciuto, ma è il percorso sconnesso a preoccupare. Il terzo episodio, tra alti e bassi, e con un ritmo rivedibile, a reinserito nel cast un personaggio chiave della prima stagione, Pam Pilcher, che io davo erroneamente per defunta, e che invece viveva ai margine della società per aver ucciso il fratello durante l’insurrezione guidata da Ethan Burke. In realtà l’intera narrazione trova una conclusione fine a se stessa nell’arco dei quarantacinque minuti dell’episodio, facendo sembrare l’intera sottotrama del tutto non indispensabile. La breve apparizione dell’ex infermiera vuole essere lo slancio per narrare la storia del primo bambino nato a Wayward Pines e cresciuto con la convinzione di essere il responsabile del futuro della razza umana. Quel bambino era Jason e personalmente non ho disprezzato né la scelta di ampliare in questo modo il personaggio, né la caratterizzazione data al nuovo reggente. Detto ciò non posso esimermi dal rendere pubblici alcuni problemi evidenti: innanzitutto la figura di Jason appare sempre più come sconnessa dallo stesso ambiente che lui ha costruito sulle volontà del patrigno, poiché una caratterizzazione così approfondita di un personaggio chiave non può essere anticipata da un’intera stagione, la prima, in cui Jason sostanzialmente non esiste. Quasi a voler confermare il fatto che l’idea di inserire questo personaggio sia nata dopo alcuni avvenimenti della prima stagione, probabilmente addirittura dopo l’ultimo episodio. Sembra che ogni sfumatura che viene data con vigore a questo dispotico leader voglia in qualche modo rattoppare gli errori di sceneggiatura compiuti nella prima stagione. Non ho apprezzato poi, in linea generale, l’uso dei personaggi chiave della serie in questi primi episodi: finora tutti coloro che erano sopravvissuti fortunosamente all’avvento della prima generazione stanno malauguratamente morendo, chi suicidandosi, chi divorato dagli abby, chi strangolato. Anche in questo caso, un personaggio tridimensionale, una colonna portante dell’intera serie poteva essere trattata con più riguardo.
Sono rimasto contrariato anche dalla posizione assunta da Yedlin nel caso dell’episodio di Pam. Non riesco ancora ad inquadrare dalla giusta distanza il nuovo medico di Wayward Pines, ma in ogni caso il suo comportamento nei confronti del regime sembrerebbe avere più di qualche incongruenza: da una parte il sospetto e la volontà di rovesciare il sistema autoritario, dall’altra un collaborazionismo silenzioso, nonostante il coltello dalla parte del manico rappresentato dal fatto di essere l’unico medico qualificato in città. Ethan Burke, che a questo punto possiamo definire più acuto del suo alter ego Theo Yedlin, non avrebbe gettato al vento la possibilità di indagare sulla misteriosa rivoluzione d’ottobre attraverso le parole della testimone oculare Pam.



Ma, se nel complesso sono riuscito a godere della costruzione gerarchica e delle attitudini reazionarie con cui sono stati caratterizzati gli uomini d’ordine nel terzo episodio - facendo ancora riferimenti espliciti all’epoca dei totalitarismi - non posso dire lo stesso del quarto episodio. In questo caso il problema principale è stato la mancanza di un protagonista. Finora abbiamo seguito le vicende da diversi punti di vista, e il fatto che nessuno di essi sia ancora riuscito a prendere il sopravvento porta inevitabilmente la serie ad un saliscendi si ritmi poco interessante, piatto e soporifero. Si passa rapidamente dalla storia del sopravvissuto alle spedizioni alla moglie di Theo alle prese con le bambine feconde. Tanti spunti, poco pathos, nessuna struttura portante attorno alla quale costruire una narrazione solida e innovativa. Lo spettatore salta di palo in frasca, continuando  perdere interesse per tutto ciò che riguarda la civiltà del futuro. Se dovessi però indicare una trama, tra le altre, che abbia attirato minimamente la mia attenzione, quella è l’evoluzione e l’organizzazione degli abby. Appare evidente che dietro la migrazione delle aberrazioni e dietro la frase enigmatica del sopravvissuto riguardante le abitudini dell’altra linea evolutiva ci sia una sviluppo psicologico di quelle che finora sembravano essere delle bestie, guidate unicamente dall’istinto animale e dalla legge della natura. Ora, tralasciando le sottotrame che da qui in poi si svilupperanno - momenti di televisione, aimè, sempre più bassi - risulta interessante il discorso etico. E se, come pare, gli abby si evolveranno in un futuro prossimo in una razza simile a quella che li ha preceduti, se la mutazione degli abby fosse solo una deviazione nella linea evolutiva e il futuro fosse ancora in mano ai nuovi umani, che senso avrebbe l’intera impresa dell’arca? Pilcher potrebbe aver sbagliato i suoi calcoli, cancellando così completamente la vita di migliaia di persone appartenenti per natura all’anno 2014. E se gli abitanti di Wayward Pines, indottrinati e non, scoprissero di essere stati parte di un piano globale in parte inutile e in parte mortalmente pericoloso, cosa sarebe dall’ultima roccaforte della vecchia umanità? Questi interrogativi, insieme al destino di Ben, restano gli unici motivi per continuare a credere nel progetto morente di Shyamalan.

martedì 6 settembre 2016

SERIE DI CUI NON PARLERÒ: BROADCHURCH

Perché voi non pensiate che io abbia una vita sociale attiva al di fuori del blog, dello studio e delle serie di cui abitualmente vi parlo, ho deciso di parlarvi anche delle serie che ho visto in questi mesi e delle quali non vi ho ancora parlato. Che Dio ti maledica, Netflix!

Leggendo sul web di questa serie inglese, ormai datata 2013, mi ero imbattuto in recensioni entusiaste e pareri non richiesti di anonimi utenti che paragonavano Broadchurch a Twin Peaks. Così mi si è accesa una lampadina, come la scintilla che ti prende quando senti il nome di una persona cara che non vedi da tempo e vieni pervaso subito da una voglia irrefrenabile di riscoprire quella relazione. Ma la gente cambia e non torna mai alla stessa maniera. Complice l’uscita su Netflix della serie e vista la breve durata di due stagioni da otto episodi ciascuna, ho deciso quindi di fiondarmi a capofitto su Broadchurch e di cercare il mio Lynch nei sorrisi degli altri che non sorridono mai come te. Ebbene, quanto c’è dei Picchi Gemelli in questa serie? Poco, quasi nulla. Qualche similitudine per quanto riguarda l’incipit incentrato sulla figura del bambino ritrovato sulla spiaggia e poso altro. Niente FBI, niente Logge, niente gufi, né giganti, né nani. Niente di tutto quell’apparato metafisico che faceva di Twin Peaks l’opera lynchana per eccellenza. Non ho quindi trovato ciò che mi aspettavo, ma mi sono imbattuto in una grandissima produzione, una perla degli anni duemiladieci (si dice così, no?). La struttura semplice viene man mano ampliata andando a scavare nelle vite dei personaggi che risultano essere indagati nel merito dell’operato di Hardy e Miller, in particolare ho empatizzato molto con Gazza di Hogworts, vittima indiretta degli eventi.
Ciò che colpisce di questa serie è la precisione con cui si incastrano gli eventi, la cura con cui i dialoghi dipingono i personaggi e le relazioni che intercorrono tra essi in maniera impeccabile. A tenere in piedi tutto il complesso di sospetti, indizi e false pisce costruite ad hoc ci sono i due protagonisti, interpretati da David Tennant e Olivia Colman, perfetti in ogni frangente, dall’odio iniziale, alla collaborazione forzata all’amicizia più sincera.


La prima stagione si sviluppa su una linea retta, lasciando al passato ciò che ribolle dal passato e concentrandosi sugli eventi mirati alla scoperta dell’assassino. In questa struttura viene sapientemente introdotto l’effetto Scream, ossia viene lasciata allo spettatore la possibilità di speculare sugli eventi mostrati e di formulare tesi alternative. Come l’opera cardine della serie di Wes Craven, anche Broadchurch pretende e ottiene che gli spettatori costruiscano una mappa investigativa nella loro mente, tengano un block notes virtuale degli eventi, degli indizi e dei sospetti. Proprio in questo senso, il duo di sospettati che emergerà circa a metà della prima stagione saprà rimescolare le carte in tavola per sbaragliare ogni aspirante detective nella conclusione finale. Questa scelta dinamica degli sceneggiatori porta lo spettatore ad entrare fisicamente nella cittadina costiera di Broadchurch per ottenere informazioni di prima mano e giungere al nome dell’assassino del piccolo Denny Latimer prima dei protagonisti, prima che sia troppo tardi, come fu per un altro caso.


La seconda stagione invece non si fossilizza sullo schema che aveva fatto le fortune della prima, ma riesce ad estrarre qualcosa di totalmente nuovo dal cilindro: ciò che è stato ritorna, e ciò che poteva essere non sarà, per ciò che nel passato ci è sfuggito di mano. In questo caso la situazione si sviluppa su due frangenti differenti, entrambi molto lontani dalla quieta ma angusta composizione della prima stagione. Da una parte abbiamo il processo all’assassino di Danny, i nuovi indimenticabili personaggi legati al processo e gli sviluppi di una sentenza non scontata, mentre dall’altro i nostri protagonisti tornano ad investigare sul caso che aveva quasi distrutto la carriera di Hardy mesi prima che egli venisse spedito in punizione a Broadchurch. I fili si ricollegano e chi pensavano che fosse la vittima si rivela il carnefice di un duplice scempio che ha lasciato solchi indelebili sulle fronti corrugate di molti. Il nuovo modello adottato dalla serie abbandona l’indagine interattiva per aumentare la qualità dei colpi di scena e il ritmo di un’indagine frenetica, spezzato solamente dalle sequenza ambientate in tribunale. Un’altra stagione perfettamente riuscita, coinvolgente e impeccabile.

Si prospetta ora la possibilità di una terza stagione, dopo il flop del remake statunitense. Sinceramente, dopo le belle parole spese ad elogiare i primi due atti di quest’opera riuscitissima, devo dissentire; spero infatti che Broadchurch si limiti a ciò che ha mostrato finora, tra moltissimi picchi e bassi trascurabili. Mi auguro, nel caso in cui venga prodotta una terza stagione, che gli sceneggiatori sappiano trovare un’altra struttura, ancora nuova e differente dalle precedenti, per dare ancora una volta un tocco di personalità, un elemento di unicità al terzo atto di un piccolo gioiello. Una serie già cult.

sabato 3 settembre 2016

CIRCLE, UN FILM POLITICO

In questi anni abbiamo perso interesse per l’attivismo diretto e la tecnologia ci ha resi sedentari a discapito di una voce popolare che si affievolisce. Il cinema è sempre stato specchio della realtà, con alcune eccezioni: nei primi anni settanta, in Italia abbandonavamo la commedia nostrana, ormai vuota, per ridere con gli spaghetti western e riflettere con i film più impegnati, politicamente attivi sotto una veste educata ed elegante. Pellicole storiche come “Indagine su un Cittadini al di Sopra di Ogni Sospetto”, “Amici Miei” e le opere di Pasolini. Anche le produzioni straniere non erano da meno, forti della possibilità di spaziare in diversi generi per tradizione e questioni finanziarie. Anche l’America capitalistica riusciva a proporre un dibattito politico sostenuto da capolavori della cinematografia, ormai pezzi di storia.


Ma i tempi corrono e le società mutano costantemente verso un equilibrio instabile, ma accettabile per la maggioranza della popolazione. Ci siamo così ritrovati a credere di poter separare la vita dal continuo e acceso fuoco dell’impegno politico. Abbiamo pensato di costruire uno strato superficiale fatto di superficialità che ci allontanasse dalla preoccupazione del futuro condensata nella mancanza di certezze, che emerge dalla funzione dialettica di un confronto acceso in cui non pare esistere una risposta univoca. E questo scudo di cartone è diventato il nostro modo di vivere il mondo, allontanando le questioni cocenti e limitando il raggio d’azione delle nostre possibilità di pensiero. Preferendo la bassezza vicina alla magnificenza lontana dalle nostre menti. In questo frangente, anche il cinema, specchio del reale, ha risentito pesantemente della nostra chiusura, abbandonando lentamente l’impegno politico e sociale per una funzione di puro intrattenimento che non richiede particolari sforzi allo spettatore. Esistono però delle eccezioni, esistono sempre delle menti che scelgono di andare controcorrente e di infrangere il fiume di incoscienza in cui navighiamo senza meta né consapevolezza. “Circle” è un esempio delle eccezioni che dimostrano la vita cerebrale del genere umano sotto tonnellate di pubblicità, disinformazione disinteressata e ignoranza ostentata.
La struttura è molto semplice: cinquanta persone si risvegliano in una stanza circolare e ad ognuna di loro è assegnato un posto in piedi che non possono lasciare per nessun motivo, pena la morte immediata. Ogni due minuti un timer comincia a scandire il tempo che passa in maniera sempre più frenetica, per poi uccidere uno dei cinquanta con una scarica elettrica. Poco dopo l’inizio del massacro, i malcapitati individui si rendono conto di poter controllare le uccisioni attraverso un sistema di votazione anonima. Da quel momento in poi si apre il dibattito più acceso riguardante il ruolo degli persone intrappolate, la loro collocazione e l’utilità che essi possono avere al di fuori della stanza circolare. Il cerchio ha la capacità di far emergere la realtà bruta e violenta sopita sotto le maschere che l’uomo giornalmente indossa. Un volto animalesco fondato sull’istinto di sopravvivenza.


All’interno della stanza della morte spiccano personalità di ogni razza, ceto sociale e religione, quasi a voler confermare la presunta natura sperimentale dello straordinario evento. La multiculturalità che oggi fiancheggiamo con orgoglio o denigriamo con lo sdegno che si confà alla situazione corrente, potrebbe mettere alle strette i malcapitati, presi nella necessità di trovare alleati nella composizione dei cinquanta per cercare di arrivare vivi alla fine o per far valere la propria umana posizione. L’avvicinarsi della morte ridà alle personalità presenti nella stanza circolare un’aura politica, intesa nel senso più lato del termine di rapporto tra individuo all’interno di un gruppo, una società, una comunità prossima al collasso. Emergono così limiti, paure e maschere ormai incastrate a vita sui volti dei più finti. Attraverso questa struttura relativamente semplice, “Circle” rimette in gioco la necessità di dare voce alle dinamiche relazionali presenti nella nostra società, al di là degli slogan di partito e delle avventure che vogliono lo spettatore esule sull’isola della noncuranza. Perché la natura propria del dibattito è la curiosa capacità di autoalimentarsi all’infinito, mostrando problematicità sempre nuove, ma sempre ricorrenti, nella storia dell’uomo. Perché, se non abbiamo imparato dal Secolo Breve, c’è ancora bisogno di parlarne e di tenere viva la voglia di un futuro migliore, la speranza di una società rinnovata.


Chi sopravvivrà al cerchio? Il padre di famiglia, la coppia misteriosa, il politico del sud o la bambina? Chi merita di vivere quando ne deve rimanere solo uno? Cosa sareste disposti a fare pur di rivedere la luce del Sole?