venerdì 24 marzo 2017

LA CURA DAL BENESSERE - SALVARE IL SALVABILE?

Dal trailer avrei giurato si sarebbe trattato della copia spudorata di "Shutter Island" di Martin Scorsese, ma per sfortuna mi sbagliavo. Il nuovo thriller psicologico del “regista visionario” Gore Verbinski prometteva di elevare l’esperienza del capolavoro con Leo DiCaprio, arricchendola con un’ambientazione più claustrofobica e una trama maggiormente vicina al genere horror. Così purtroppo non è stato e “La cura del benessere” non ha saputo mantenere le premesse, dilapidando un concentrato notevole di tensione attraverso una sceneggiatura a tratti imbarazzante, che conduce l’opera ad un finale eccessivamente trash e insensato. Ma andiamo con ordine.


Il film comincia con la morte di un pezzo grosso dell’istituto finanziario per cui lavora il protagonista. Il colpo d’occhio iniziale è notevole, getta lo spettatore in un contesto in cui valgono logiche per certi versi inumane. Si percepisce fin da subito lo squilibrio e la disumanizzazione che permeano il contesto modello del mondo occidentale, e la critica di costume si irrobustisce in pochi attimi. Il film fonda sostanzialmente la sua prima metà su questa idea di “Cura dal benessere”, ovvero dalle logiche di dominio di una società finanziaria e burocratizzata. La società per cui lavora il protagonista è in procinto di fondersi ad un altro istituto, ma è necessaria la firma dell’amministratore delegato, che ha fatto perdere notizie di sé rifugiandosi in una casa di cura in Svizzera. Lockhart, giovane fulcro della storia, quindi, per ripagare ad un errore commesso in malafede, viene scelto al posto del collega defunto per andare in Svizzera a recuperare l’amministratore delegato.
Il colpo d’occhio iniziale è suggestivo, un luogo elitario chiuso all’intero di un castello al quale è legata una leggenda misteriosa. Il protagonista arriva nel luogo previsto, ma la richiesta di incontrare il suo superiore gli viene prima respinta, poi rimandata. Sulla strada del ritorno, Lockhart è vittima di un incidente stradale e si risveglia tre giorni dopo all’interno della clinica con una gamba ingessata. Parte da qui il processo che lo porterà a diventare un paziente della casa di cura e gli farà dubitare della sua stessa psiche. Cose strane accadono nella città di Altrove silenziosa Svizzera e starà al protagonista venire a capo di un mistero che fonda le sue radici nella tragica fine della famiglia che possedeva la struttura secoli prima.


Film di questo genere, che sviluppano una narrazione attraverso un sistema di scatole cinesi per cui all’interno di un mistero si trova sempre un altro mistero, possono essere sviluppati in due modi: provocando volontariamente un escalation di tensione data dalla costante risoluzione di alcuni misteri, che vengono celermente sostituiti da altri più profondi, o attuare l’effetto puzzle, il quel prevede che allo spettatore, identificatosi con l’unico protagonista, vengano svelati uno dopo l’altro solamente degli indizi, dei frammenti del quadro generale, per poi fornire una soluzione soddisfacente al termine dell’opera. "Autopsy", thriller-horror da poco uscito nelle sale appartiene al primo genere, mentre il succitato "Shutter Island" è l’esempio più nitido della filmografia contemporanea che si fonda sull’effetto puzzle. Basti pensare ai flash riguardanti Michelle Williams, moglie omicida del povero Leo. Tutto assume un senso compiuto alla luce del finale, purché i pezzi del puzzle siano sempre retti da una logica di fondo solida, solitamente vicina alla logica reale.
Nel caso de “La cura dal benessere” la risoluzione dei misteri forniti durante due ore di visione arriva a venti minuti dalla fine del film. Il restante tempo è quindi occupato dalla perdita totale di ogni sorta di stile narrativo, il ché porta la pellicola a naufragare tristemente verso un cinema di serie C. Addirittura viene meno la componente psicologica dell’opera, quando Lockhart, e con lui lo spettatore, realizza il collegamento tra le parti, lo scontro tra i personaggi, dapprima verbale, sfocia senza regole sul piano fisico. Un finale confuso che non risolve alcuni dilemmi dell’opera e ritrova nel fantastico la giustificazione per una trama quindi frammentaria, non più degna di un film di livello.


La logica che regge le prime due ore del film, e che quindi dovrebbe tenere in piedi plausibilmente la scoperta delle varie parti del quadro, subisce poi una brusca virata ne momento in cui Lockhart, conscio della situazione, irrompe nella sala da pranzo e cerca di convincere gli anziani della bontà delle sue argomentazioni. La reazione dei pazienti spezza la credibilità di un contesto al limite tra il thriller e il fantastico. E si manifestano davanti agli occhi degli spettatori tutti i momenti del film che cozzano con la soluzione finale e che abbassano vertiginosamente gli esiti di un prodotto nato con grandi premesse, forti speranze. Alcuni comportamenti reiterati smettono di avere senso per lasciare posto ad enormi buchi di trama e anche la componente sociale, molto forte all’inizio dell’opera, viene trascinata verso il basso in questa dabacle totale.


Anche l’aspetto tecnico della pellicola, che inizialmente si stanziava ben al di sopra della media per questo genere di film, risente del crollo verticale della narrazione e Gore Verbinski smette gradualmente di ricercare una "cura" particolare per la costruzione delle sue immagini. La messa in scena, forse vero cuore vivo dell’opera, riesce invece a mantenersi su livelli altissimi per l’intera durata del film, dimostrando ancora una volta le ottime capacità di un autore spesso bistrattato per qualche colpo a vuoto. L’abilità di cineasta di Verbinski riesce quindi a lasciare all’opera un’aura di rispettabilità, seppur la qualità cali a lungo andare, nonostante risulti difficile prendere sul serio l’intera vicenda descritta alla luce del finale. Per questo motivo è doloroso bocciare un tentativo del genere di rimescolare i canoni per produrre innovazione, e ancora più complesso riuscire ad estrapolare gli elementi salvabili dalla completa disfatta finale. E ciò rende ancor più triste la visione di un castello che s’innalza mentre le fondamenta crollano.

“Ecco, già mi vedo l’epigrafe tombale:
Qui giace un astronomo, poeta niente male,
Filosofo, musicista, cavaliere ardente,
Che insomma fu un po’ tutto, e non fu niente”

giovedì 23 marzo 2017

HELL OR HIGH WATER - LA VIOLENZA CHIAMA VIOLENZA

La risposta alla violenza, in un universo governato dall’ordine della dinamica e dal caos, è ancora la violenza. Assume altra forma, si allontana e poi ritorna.

Hell or high water” è un piccolo, marginale spaccato della vita americana che vede nella violenza la molla e la causa di ogni azione. Marcus e Toby, due fratelli molto diversi, ma accomunati dalla medesima necessità di rivalsa, si improvvisano delinquenti per riuscire a sopravvivere in un Texas di fuoco e pignoramenti. L’inizio in medias res ci catapulta con forza all’interno di un quadro arido, già profondamente segnato da un passato violento che chiede un risarcimento. È forse la morte della madre a spingere i due a reagire nella malavita, o forse la violenta uccisione del padre, avvenuta anni prima? Non siamo in grado di stabilirlo, certo è che il mondo in cui i protagonisti della finzione dell’opera esordiscono è già permeato di un profondo velo di violenza reazionaria. Ogni personaggio che appare sulla scena, in perfetto stile texano, si mostra propenso, voglioso, desideroso di esprimere il suo essere nell’annullamento psicologico e soprattutto fisico di chi, vittima di un ideale processo sommario, merita la gogna. E tutto ciò appare perfettamente in linea con il pensiero delle autorità, che nel dialogo devono per legge mostrarsi contrariate, ma che apprezzano con un sorriso lo spirito del taglione della loro popolazione.



Questo coinvolgimento popolare nelle scapestrate scorribande dei due fratelli protagonisti genera un flusso di comuni cittadini assetato di giustizia che si spinge alla caccia dei delinquenti. La violenza che contraddistingue il pensiero di fondo di una società così reazionaria prende forma nella partecipazione che conduce all’escalation finale: un climax di tensione che vede nelle premesse la sua stessa conclusione.
Il finale dell’opera poi è esplicativo di un circolo inarrestabile, che non decelera di fronte alla morte e prosegue la sua marcia virulenta fino allo sterminio di massa. La chiusura degli archi narrativi fondanti non conclude una ricerca del colpevole, alle spalle dell’organizzazione statale. È la giustizia che non vede processo, che non ha immediatamente davanti agli occhi le cause di un gesto compiuto di sfuggita, per caso. I giudici sono anche carnefici e questo ha avvelenato da sempre un paesaggio incolto, deturpato, sepolto sotto la sabbia dell’odio viscerale.


Non si tratta del semplice “Stato di natura”, perché questo Texas lacerato tra giusti e defunti ha un’autorità vigente salda, quella delle armi e della guerra, quella della cieca superiorità del modello corrente rispetto ad un’apertura che è ormai un miraggio nella sterpaglia. Esiste un gioco condiviso in cui vince chi non lascia spazio e rincara la dose, chi diffida, chi tradisce per il bene superiore, chi uccide, anche metaforicamente, anche non metaforicamente. Ciò che il film riproduce nel piccolo è un fenomeno tremendamente attuale e diffuso che minaccia di riportare il globo sull’orlo del Novecento, quel passato da cui non abbiamo imparato e di cui questa violenza mai sopita continua a cibarsi.


La rivoluzione sociale a cui siamo chiamati passa dalla capacità di fare vuoto, di non rispondere nella nostra quotidianità all’offesa con altra offesa, alla violenza con altra violenza, per arginare questo circolo vizioso che da sempre corrode l’essenza umana. La parabola discendente di Marcus e Toby colpisce per la crudeltà con cui un contesto permeato di sete di vendetta avvinghia e punisce deliberatamente chi è mosso dalle circostanze a commettere un errore, che genera altri errori, che termina con la deflagrazione dell'intera società. Quando la vendetta si confonde con la giustizia, questa violenza è la fine dell'essere umano.

martedì 21 marzo 2017

10 MINUTI SU RADIO PADANIA

Dov’è finita Carmen Sandiego? Ma soprattutto, che fine ha fatto la pagina “Leggere i post di Salvini per sentirsi una persona migliore”?
Ieri, tornando dall’università e premendo compulsivamente il tasto per cercare una stazione radio che trasmettesse musica orecchiabile, mi sono imbattuto in Radio Padania - che poi sarebbe l’abbreviazione catchie di Radio Padania Libera, dove libera sta per "Secessioneh". Non che fosse la prima volta: in altre occasioni, vivendo in zona, mi ero trovato ad ascoltare casualmente qualche falso storico condito con una spruzzatina di xenofobia, poi era iniziato un coro celtico molto convinto e avevo rapidamente cambiato stazione. Stavolta però, avendo qualche minuto a disposizione causa traffico cittadino, mi sono soffermato ad ascoltare.


Programma delle 14.
L’Arruffapopolo. Nome programmatico.
Sintonizzo e sento: “Radio Padania Libera, la vostra radio populista”.
Ah.
Poi viene mandato in onda un collage di discorsi famosi dei film hollywoodiani incentrati sul tema della difesa dei territori e della ribellione del popolo alle autorità oppressive e dispotiche. Molte fuori contesto. Mi chiedo da che parte stia la rivoluzione.


Terminato il montaggio, il regista del programma mantiene la colonna sonora epica-cavalleresca anche sotto le parole del conduttore Sammy Varin che apre con la lettura di una missiva pervenutagli in redazione. La lettera è di un quarantaquattrenne che quest’anno non andrà a messa a Pasqua per protesta contro l’operato di Papa Francesco, reo di aver venduto la cristianità al terrorismo. Millenni di esegesi buttati.
Sammy è nella parte, cerca anche di tenere la voce bassa per stare in linea con il sottofondo musicale.
Parafrasando: l’apertura del Papa alle altre religioni rappresenta il crollo delle certezze per il popolo dei fedeli, che ritenevano fino a ieri la loro credenza fosse migliore delle altre. I cristiani stanno vivendo il Novecento.

E questo è Sammy Varin? Questo è Sammy Varin? E va bene.

Terminata la lettura, accantonata la canzone, il conduttore passa agli interventi da casa. Una signora lombarda propone un sondaggio da casa per verificare l’apprezzamento popolare al Papa. La signora ha sbagliato partito. Un uomo di Lecce dice invece che il suo amico prete, ad una richiesta di confronto sulle politiche del pontefice, avrebbe risposto con: “Viviamo tempi bui”. Potrebbe andare peggio, potrebbe piovere.
Poi devo essermi distratto per una frazione di secondo, ma si è arrivati immediatamente a discutere di immigrazione e gender. Per il conduttore, se un immigrato clandestino non riesce a dimostrare di provenire da un paese colpito dalla guerra, può sempre dichiarare di essere omosessuale e ricevere così ugualmente i TRENTACINQUE - enfasi non mia - euro al giorno. Non ho capito la battuta.
Ma l’apice è stato raggiunto indubbiamente con il pezzo in tema: hit senza tempo dell’immenso Nicola Comparato il cantante ruspante dal titolo esplicativo “Ruspa”.

(Il testo che vedete, inesistente in forma scritta sul web, è frutto della mia trascrizione. Lo faccio per voi!)

Italiani ruspanti
È un nostro diritto la legittima difesa

RIT
Qualcuno mi ha rubato la Vespa
Oggi mi compro la ruspa
X2

Spacciatori sono ratti
Lavorano indisturbati
Io in tasca ho zero contanti
Stanno meglio i migranti
Con le leggi non scherziamo
Il popolo è sovrano
Stiamo sprofondando nell’abisso
Non si tocca il crocifisso

RIT x2

Qui vediamo Sammy Varin intento a.. Ah no, ho sbagliato foto
Questa canzone
Per la mia nazione
Ma arriverò alla pensione?
Il posto fisso è monotono
Secondo me no
Meno alberghi per i clandestini
Asilo gratis per i nostri bambini
Faccio testi scomodi
Laggiù c’è un campo nomadi
Qui c’è troppo disordine
Onore alle forze dell’ordine
Stare al mondo come si fa?
Ma il pompiere paura non ne ha
Io e la mia donna non ci siamo più visti
 Ascoltaci signore lo sappiamo che esisti
Leggo notizie troppo tristi
Io sto coni tassisti

RIT x2

Sono un falso profeta
Rivogliamo la nostra moneta
Per una piccolezza nessuno ti perdona
Chiudi il ladro in casa sequestro di persona
Tiriamo su le mani
Vengono prima gli Italiani
Risolvo da solo il mio guaio
Pago l’affitto e faccio l’opraio

RIT x4

Lui invece non fa opraio

Insomma il programma elettorale dell’uomo tutto felpa e virilità in due minuti.
Tornati in studio, il conduttore elogia il pezzo del cantante ruspante aggiungendo che non passa su radio maggiori perché l’establishment della musica italiana è gestito dai buonisti. Mi voglio fidare.
Poi la mia radio ha scelto di scioperare in nome del buon senso. E del buon gusto musicale, ascoltare per credere.

Mi mancate


Dieci minuti per scoprire gente che non esisteva più. Dieci minuti per ritrovare la pagina “Leggere i post di Salvini per sentirsi una persona migliore”. Grazie Radio Padania Libera, grazie di esistere.

sabato 18 marzo 2017

LO STATO SOCIALE, STAVOLTA NO

Due anni fa andai al concerto di Natale di Rock TV a Milano perché gratuito e potei finalmente osservare da vicino il fenomeno “Lo Stato Sociale”. Un tripudio di energia, nonsense e voglia irrefrenabile di essere qualcosa di diverso. Cosa è rimasto oggi dei tratti caratteristici della band di Bolo?


Dopo una pausa di riflessione, condita da un libro e qualche spettacolo teatrale, il gruppo torna ad incidere un album in studio. “Amore, lavoro e altri miti da sfatare” arriva quasi tre anni dopo “L’Italia peggiore”, che era riuscito ad ampliare il pubblico di Lodo e compagni, ma allo stesso tempo aveva rappresentato un passo indietro nelle intenzioni della band, che aveva giustificato la mancanza di un’ambizione artistica palese dietro la scusa delle “canzonette”. Il secondo album aveva trasformato il gruppo in un vero e proprio fenomeno di massa; orde di giovanissimi spinti a canticchiare, scrivere sui muri i loro testi talvolta insensati, talvolta così superficiali da sembrare profondissimi. Ero tra i fan della prima ora, non della primissima, e riconobbi un calo nel secondo lavoro, pur apprezzando molto i toni, lo stile e il senso dell’opera. Era una piccola produzione che non si prendeva sul serio, ma riusciva a coinvolgere, a restare impressa nelle menti degli ascoltatori.
Al suddetto concerto di Natale, durante l’esibizione de Lo Stato Sociale, si scatenò sotto il palco un delirio memorabile. Persi i miei amici nella calca, rimediai qualche gomitata gratuita e mi bagnai del sudore di altri. ma il pubblico intero cantava i loro testi a memoria. Era segno che qualcosa stava cambiando. In meglio per i ragazzi, in peggio probabilmente per la musica e i puristi della nicchia. Era una svolta, quantomeno riusciva a modificare il registro del primo album quel tanto da giustificare un nuovo tour, una nuova attenzione mediatica e popolare.


Pochi giorni fa ha visto la luce il loro terzo lavoro in studio, e stavolta non è andata esattamente come ci si poteva auspicare. “Amore, lavoro e altri miti da sfatare” perde decisamente la bussola, perde l’anima irriverente, il tono sincero e genuino, la musicalità elettronica fresca e accattivante. Perde Lo Stato Sociale che aveva saputo conquistare un posto nella mia libreria musicale per seguire in toto la svolta iniziata con il precedente album e votarsi definitivamente all’approvazione del grandissimo pubblico. Manca completamente la volontà di stupire l’ascoltatore, soppiantata dalla necessità del consolidamento di uno stile sicuro, ma la musica è ben altro: il passo verso l’innovazione è breve, ma decisivo. Lo Stato Sociale non ha saputo rinnovare un format stantio, ormai obsoleto in un panorama indie italiano frenetico, segnato dalle esperienze musicalmente superiori di Iosonouncane, Cosmo e Motta. Anche i testi perdono il loro mordente, eccedendo nelle due dialettiche discorsive che il gruppo ha intrapreso da tempo con un’ipotetica figura femminile e con una fetta stanca della gioventù affumicata italiana, segnata dalla crisi dei trent'anni, o dalla fine dei vent'anni.


Niente di nuovo sotto il sole, pochi synth ripetuti in differenti pezzi, pochi guizzi e un disinteresse crescente che lascia una voglia impalpabile di continuare a sperare in un gruppo probabilmente sopravvalutato nel suo breve percorso artistico. Possiamo ricollegare il successo del primo album - e parzialmente del secondo - ad una mancanza discografica, all’interno della quale Lodo and Friends era stati capaci di inserire perfettamente le loro qualità non eccelse, rendendo probabilmente al si sopra delle loro reali possibilità. Un colpo a salve è un lusso concedibile a chiunque, a lasciare interdetti è piuttosto una parabola discendente che ha coinvolto il rapporto stesso del gruppo con i suoi fan e conseguentemente il clima infame che si è creato attorno ai ragazzi in questo ultimo periodo. Lo stesso Lodo, frontman della band, aveva ironicamente chiesto sui social che gli fosse spiegata la motivazione della cattiveria dei detrattori. Prendendo le distanze dai frustrati di tastiera inabili all’argomentazione, posso ritrovare in una mancanza di meriti e nell’incongruente costanza di atteggiamento il connubio giusto di cause scatenanti per una reazione che sintetizza un malessere generale verso un’esperienza graffiante, dissacrante e malamente lasciata per strada.


L’autoironia ha un limite, quando si raggiungono determinati traguardi, mostrando interessanti doti differenti dalla massa, è il momento di compiere una scelta: alzare l’asticella o ammettersi Rovazzi.

Se Lo Stato Sociale ha scelto il suo nome giocando ironicamente sulle mancanze della nostra società imborghesita, il titolo di quest’album potrebbe essere tranquillamente “Musica, innovazione e altre capacità da RItrovare”.

mercoledì 15 marzo 2017

AMORE TOSSICO E CECITÀ

Prima delle sciagurate vicende di Cesare e Vittorio nel crudo “Non essere cattivo”, c’erano i disagi e lo squallore di Cesare e Michela, protagonisti loro malgrado del delirio reale di “Amore tossico”. Erano gli anni ’80, quelli di ferro, di Regan e della Tatcher, e mentre il resto del mondo era distratto ad ammirare la magnificenza della storia che conta, sul lungomare di Ostia i protagonisti di questo piccolo cult tentavano di “svoltare” la giornata, tra una pera di roba e una dose di metadone.
Amore tossico è lo sguardo imparziale di Caligari sul degrado di una generazione allo sbando, inerme nel mezzo di un capitalismo galoppante e di un pianeta che gira ad una velocità insostenibile. L’unico modo per sfuggire alla morte è rifugiarsi nella morente routine della droga, della prostituzione e della delinquenza. Piccoli furti a favore di fugaci momenti di sopravvivenza e nostalgia, di quando la vita era differente e si poteva fantasticare sul futuro. Quello che manca al gruppo di protagonisti di “Amore tossico” è proprio uno sguardo reale al futuro in grado di conferire lo slancio necessario al superamento del presente. Ciò che appare evidente è l’annebbiamento della vista di chi non riesce a guardare oltre la prossima pera, di chi vive per il dilemma amletico “Coca o ero?”. Un dilemma sporco, lercio, come è lercio il contesto in cui queste anime buie si muovono: angoli delle piazze, discariche, case abbandonate. Luoghi spogliati di gioia e dignità che si fondono all’astinenza nel grigiore di una Roma vera. Non la città eterna, non lo sfarzo di Jep Gambardella, solo la realtà delle piccole cose. Una fredda panchina di marmo al sole, un cumulo di immondizia e siringhe usate, un defibrillatore inutile.


La realtà della costa ostiense è troppo dura per crederla reale, sarebbe più semplice per lo spettatore e per i ragazzi protagonisti rifugiarsi nell’immaginazione, nella spettacolarizzazione di una vita al limite, come è stato in grado di fare Danny Boyle nel suo cult, ma il limite della vita di un tossicodipendente nella Roma degli anni ’80 era il limite inferiore, quello tra la vita e la morte, non quello a contatto con la gloria dell’attimo.



Nella storia di vincitori e vinti restano invisibili gli ultimi, i provinciali, coloro che non hanno un peso e vagano senza una meta, aspettando una fine che non pare il male maggiore. Nella dialettica storica è palpabile la necessità di includere anche coloro che non riescono a rientrare in questo scontro societario, ma lo stato volta le spalle a coloro che perdono di vista la partecipazione, cullati dai fumi dell’alcool e della droga. In tutto il film infatti non compare alcun rappresentante della giustizia, eccezion fatta per il tragico finale, in cui la corsa stentata di Cesare alla metaforica ricerca di una spiraglio viene fermata da un proiettile, sparato dalla pistola di chi sta dalla parte giusta e non sa vedere oltre l’abito moribondo. L’accusa più sentita di Caligari, forse l’unico momento in cui riesce davvero a prendere una posizione sulla condizione del reale. La cecità dilagante del sistema in cui la droga ammutolisce e lo stato si volta è un rumore insopportabile. Non è storia, non è democrazia.

giovedì 9 marzo 2017

T2: TRAINSPOTTING È UN FILM INUTILE?

Sono ormai passate due settimane dall’uscita di “T2: Trainspotting” ma il dibattito acceso sull’utilità della pellicola non accenna a placarsi. Entrambi i partiti - coloro a cui il film è piaciuto, quelli che l’hanno odiato ancor prima di entrare in sala - si muovono dall’assunto dell’inutilità del ritorno di Rent e i suoi compagni di siringa. Io credo le due opere siano da intendere profondamente legate, come i due volumi di Kill Bill o i film dedicati a Davy Jones, e da questa certezza bisogna partire per provare ad interpretare il messaggio di un film enorme come Trainspotting 2.


Le droghe non fanno lo stesso rumore di un tempo, oggi sono altre le dipendenze che segnano la vita degli individui, sono i social, la certosina creazione e cura dell’isola che non c’è, nella quale siamo tutti abbronzati, tutti impegnati, tutti sorridenti. È però il Porno, l’altra vita che abbiamo e nascondiamo, a determinare davvero la nostra direzione, ciò che singolarmente andiamo perdendo, globalmente smarrito da tempo. Cerchiamo il guadagno, lo status, senza curarci dell’altro. Il primo capitolo di Trainspotting metteva in luce proprio la superiorità dell’occasione sui legami nel momento del tradimento. Ma non abbiamo mai smesso di ricercare l’idillio di una vita pacata, in compagnia dei nostri amici d’infanzia, nella vecchia e confortevole Edimburgo. Alla luce di questo, l’eroina, protagonista del film del ’96, è solamente un passaggio nello sviluppo della tematica centrale, ovvero la dipendenza dai legami, contrapposta alla spietatezza di un mondo famelico.
Ci si rende immediatamente conto che in realtà lo scippo che chiudeva le avventure dei ragazzi di un tempo ha segnato le vite dei protagonisti più per il tradimento di un’amicizia fondamentale, che per l’effettiva perdita economica. Un trauma che ha segnato la fine della gioventù bruciata e l’inizio di un percorso di stenti alla ricerca del giardino dell’Eden passato. Una corsa contro il tempo che il cronometro vincerà sempre. Vent’anni dopo i ragazzi di Trainspotting sono uomini assenti, personaggi scissi che non riescono a partecipare alla farsa dell’attualità, ma allo stesso tempo hanno perso il senso della loro diversità. E ciò che resta è una spietata resa dei conti per attribuire le colpe di un crollo verticale senza precedenti.


T2 è un’opera che riesce a riaprire le porte di un cult senza tempo, dando un senso diverso al suo predecessore e ponendosi l’obiettivo di realizzare un progetto incompiuto. Crea una plausibile necessità e la soddisfa, nella cornice di una realizzazione tecnica fenomenale. Nell’ottica della ricostruzione di un passato più antico del primo film, è logico aspettarsi da questa pellicola un occhio particolare per le immagini delle origini dei protagonisti, che non solo riescono brillantemente a rigenerare un film appartenente ad un’altra generazione, ma creano pure una nuova sinergia tra i personaggi. Questa costruzione, segnata da intenti precisi e legittimi, si serve senza misteri di un profondo e radicato fan service, che saprà colpire al cuore i più affezionati.


Alcune sequenze, come i ricordi di Spud o le scene conclusive, sulle note della meravigliosa Silk, riescono a rendere appieno quel senso di nostalgia per una vita che non è andata come doveva andare, e ha lasciato immancabilmente un buco nel torace dello spettatore e dei quattro protagonisti. Riuscire ad empatizzare è necessario per dare corda ad una scrittura poco innovativa. Presa singolarmente, la sceneggiatura di questo secondo capitolo potrebbe risultare banale, scontata e a tratti forzata, ma il lavoro emotivo che regge l’apparato non può mancare nell’approccio a questo gradito ritorno.
Una delle critiche più frequentemente mosse a Trainspotting 2 è che il seguito non sarà mai all’altezza del primo. Il secondo capitolo non raggiungerà mai l’opera prima per l’assenza di un impatto sociale così estremizzato, per la mancanza di situazioni realmente iconiche, per la collocazione che ha avuto in questo mercato cinematografico e per il culto che invece era riuscito a generare il suo predecessore. Ma non per questo deve essere messo ideologicamente in secondo piano. La dipendenza del primo era tangibile, manifestazione di un disagio generazionale che scatenava una reazione. La dipendenza del secondo capitolo è invece subdola e si nasconde dietro l’apparente sensazione di benessere e appagamento che dà l’essere succubi di una società malsana, malata. Un mondo che uccide l’ideologia e vive del ricordo di un passato irraggiungibile avvelena per sempre la ricerca della felicità. L’eroina era un altro modo per morire. Postare foto con le orecchie da cane è un altro modo per morire.
Scegliere la vita oggi è quanto di più lontano possibile dalla felicità. 

venerdì 3 marzo 2017

MA QUALCUNO L’HA VISTO MOONLIGHT?

Siparietto divertente, miglior film a Moonlight e tutti contenti. Sul web si è sviluppata in brevissimo tempo un aspro astio contro La La Land di Chazelle, in molti lo hanno criticato solo dopo la cerimonia degli oscar e le modalità dell’assegnazione del premio non hanno certamente aiutato l’immagine del musical. Ma i detrattori più accaniti dell’opera magna dedicata ai sognatori hanno davvero visto Moonlight, vincitore a sorpresa?


Moonlight è un buon film, questo non può essere messo in dubbio, ma, nel genere in cui si colloca e cerca di trovare una posizione innovativa, si confonde nella marea di cloni strappalacrime che raccontano una storia difficile con un tatto particolare. All’opera di Barry Jenkins vanno riconosciuti alcuni meriti, come la realizzazione eccellente della ghettizzazione nera, o l’attenzione ai particolari nello sviluppo delle tre fasi della vita di Piccolo; ma, allo stesso tempo, non mancano debolezze che impediscono all’opera di stagliarsi al di sopra degli altri film di questo 2017. Moonlight si caratterizza per un ritmo che cerca di mimare il reale - grazie anche ad alcune scelte registiche azzeccate - ma spesso questo realismo, sfruttato all’interno di un contesto non innovativo, si traduce in un senso di già visto, e le sequenze, talvolta tirate troppo per le lunghe, lasciano intuire allo spettatore lo svolgimento dell’azione molto prima che questa si realizzi - fatta eccezione per la scena della sedia -. Detto in altro modo, Moonlight soffre di un problema di ritmo, che nasce dalla volontà dichiarate di perseguire un insistito e toccante realismo del ghetto.
A tenere in piedi la pellicola per la prima mezz’ora ci pensa Mahershala Ali, il Cotton Mouth fresco di Oscar. La presenza scenica dell’attore afroamericano è imponente e riesce a calamitare lo sguardo dello spettatore semplicemente attraverso un paio di risate e il tic del labbro secco. Con il passaggio all’età adolescenziale e quindi con l’allontanamento del personaggio di Blue il film comincia a rallentare pericolosamente, perdendo di mordente e reggendosi fondamentalmente su poche scene decisamente riuscite, come la prima esperienza omosessuale del protagonista o la sequenza di presentazione di Black. Pochi momenti di buon livello tenuti assieme da un collante diluito senza misura dell’attenzione in sala.
Ciò che purtroppo manca a Moonlight è un sostrato che approfondisca la lineare storia di fondo e possa in qualche modo generare un senso di attesa per un finale troppo prevedibile. La pellicola è quello che appare, legata indissolubilmente al razzismo di cui non fa mistero, all’omofobia che regna sovrana fin dalla prime battute. È tutto sullo schermo: le emozioni del protagonista, la relazione con la madre, l’assenza del padre. Una maniera di scrivere il cinema che non vuole andare oltre ciò che si vede o si sente. Una maniera di fare cinema che poco aggiunge al dibattito contemporaneo e alla storia di quest’arte.


Manca inoltre quel tono ampio che lascia la sensazione di aver visto e vissuto un’esperienza significativa, unica, ma qualcosa riesce a sfuggire alla banalità del reale, nell’ultima inquadratura. Quando il bambino in riva al mare guarda cosa è diventato, e in se stesso vede la strada tortuosa che ha dovuto percorrere, ci si rende conto di aver assistito ad una vita degna di essere raccontata e qualcosa del film riassume una parvenza di superiorità, pur rimanendo al di sotto delle aspettative.

Moonlight resta un film interessante, ben girato, dotato di una fotografia perfettamente calata nel contesto sporco e malfamato del ghetto nero, ma che non riesce a distinguersi abbastanza da essere considerato un capolavoro, da portare con noi nel tempo. Resterà l’esperienza di una visione o poco più. La La Land resterà per molto tempo.