mercoledì 30 agosto 2017

TWIN PEAKS 3 - EPISODIO 16

In molti hanno criticato aspramente questa terza stagione evento sulla base della presenza marginale della colonna sonora originale di Angelo Badalamenti. In risposta a queste malelingue, il sedicesimo episodio costruisce la sua grandezza proprio sulle musiche che fecero grande Twin Peaks. Un uso maestoso della componente sonora, sfruttata per rivivere insieme il passato e per ricollegarci direttamente ad un futuro definitivo e imminente, con la consapevolezza di una terza stagione pregna di spunti, riflessioni e rivelazioni a cui non abbiamo dato il giusto peso. All’alba del tramonto sono i dettagli a ricompensare i più audaci. E le ricompense non fanno rimpiangere né l’attesa di questi diciotto episodi, né tantomeno quella degli ultimi ventisei anni.


L’episodio racconta quattro eventi principali, che tendono a toccare per l’ultima volta quattro narrazioni separate, che saranno presumibilmente riunite nel finale, tra le montagne di Twin Peaks.
Bob, seguito da Richard, verifica le coordinate che gli sono state consegnate nel corso delle puntate. È in possesso di tre coordinate, due delle quali combaciano, mentre una differisce. Ad avergli consegnato delle coordinate sono stati: Ray, Phillip Jeffries e Diane, dopo averle scrutate sul braccio di Ruth Davenport. Le due coordinate che combaciano sono in realtà una trappola ordita contro Bob, di cui cade però vittima un ignaro Richard, scomparendo in un’esplosione elettrica. Probabilmente le due coordinate coincidenti erano quelle di Ray, la cui storia sul mandato di Phillip era vera, e dello stesso Phillip, che ha mascherato dietro una maschera sprovveduta le sue reali intenzioni, legate all’operazione di Mike. Restano quindi le coordinate sul braccio di Ruth Davenport, che - ricordiamo - aveva comunicato al maggiore Briggs prima di finire vittima dei taglialegna. Queste coordinate potrebbero condurre alla loggia bianca, o almeno all’anticamera della stessa, dato il luogo in cui poi Cooper ha ritrovato la testa del maggiore Briggs. Bob potrebbe quindi essere sulla strada della loggia bianca per confrontarsi definitivamente con il Fireman e distruggere la loggia bianca che da decenni ostacola il suo progetto di puro male per il mondo.  Non è ben chiaro dove tutti questi eventi siano geograficamente collocati, ma immagino che l’ingresso della loggia bianca possa essere a poca distanza da Twin Peaks, vista la presenza di Richard con Bob.
Tornando a Richard, il commiato impassibile di Bob tende a confermare la teoria dello stupro in coma della malcapitata Audrey. Secondo quest’ipotesi, l’incontro descritto dal dottor Hayward tra Audrey dopo l’esplosione nella banca e Cooper posseduto da Bob, collocato cronologicamente pochi giorni dopo la fine della seconda stagione, sarebbe culminato con una possessione carnale, che avrebbe quindi generato Richard Horne. Stando a ciò, il comportamento del rampollo Horne potrebbe quindi essere in parte giustificato, essendo egli figlio del male.


Diane svela finalmente gli eventi della notte dell’ultimo incontro con Cooper, che avevamo erroneamente collocato prima delle indagini sull’omicidio di Laura Palmer, credendo si trattasse di una questione amorosa. Invece la storia dimostra di avere tinte molto più oscure: si tratta di un altro stupro per mano di Bob, stavolta subito da Diane. Accecato dalla fame di garmonbozia, Bob avrebbe prima violentato Diane per poi condurla nel convenience store dei taglialegna. Ma la Diane che arriva a raccontare questa storia con un pathos incredibile si rivela essere una “Tulpa”, per dirla con le parole dell’agente Tammy.
I casi plausibili sono due e un particolare potrebbe far pendere l’ago della bilancia. Da un lato Bob sotto mentite spoglie avrebbe potuto rapire Diane per condurla nel quartier generale mobile delle forze della loggia nera, doppiarla e plagiare la mente del doppelganger per sfruttarla in futuro. Secondo questa ipotesi Diane sarebbe stata l’originale prima dell’incontro con Bob. Dall’altro lato, invece, Diane sarebbe potuta essere già una “Tulpa” nel momento dello stupro e quindi Bob si sarebbe limitato a condizionare la mente della donna fasulla con la violenza che gli è propria. Per comprendere questa questione dobbiamo fare un passo indietro sulle modalità della loggia nera e sulle sue possibilità. In questo stesso episodio abbiamo avuto una conferma della procedura per la creazione di copie reali degli esseri umani: il necessario si riduce ad un seme d’oro e ad un “pezzo” della persona che deve essere duplicata, in questo caso specifico una ciocca di capelli. È Mike, dall’intero della loggia ad avere la possibilità di creare una copia. Finora non abbiamo avuto prove che questo procedimento possa essere portato a termine anche ad di fuori della loggia nera, tanto che gli esseri ricreati con il seme d’oro, se muniti dell’anello con il gufo, fanno ritorno nella loggia nera prima di distruggersi. C’è un legame diretto quindi tra il processo e il luogo. Se immaginiamo dunque che Bob non sia mai tornato nella loggia nera in questi venticinque anni di libertà, perché si sarebbe scontrato con Mike, allora dobbiamo ammettere che la possibilità che Diane fosse una copia prima dell’incontro con Bob si rafforza considerevolmente.


In ogni caso abbiamo la conferma che Diane, la “Tulpa” che abbiamo creduto reale per dieci episodi, non avesse cognizione della sua realtà e che fosse soggiogata alla volontà di Bob. Proprio nel momento che precede il suo ritorno nella loggia nera, sembra prendere coscienza della situazione reale, affermando confusamente di essere “nella stazione di polizia”. Ovviamente il riferimento è alla stazione di polizia di Twin Peaks, dove tendono a confluire diverse storyline, ma queste parole sconnesse non fanno che gettare altra sabbia nei nostri occhi. Chi sarebbe Diane, che possa essere connessa ad uno dei personaggi presenti nella stazione di polizia? Magari a Naido, la donna dagli occhi cuciti?


Audrey riesce finalmente a risolvere il suo dilemma interiore e si dirige al Bang bang alla ricerca di Billy, ma qualcosa sembra essere differente. una leggera sinfonia jazz ci riporta al 1990 e siamo di nuovo incastrati in una scena a metà tra il reale e l’onirico, in pieno stile David Lynch. Audrey balla la  musica a lei dedicata mentre tutti intorno la osservano. Sembra una scena fuori dal mondo, fuori dal tempo, quasi irreale. E proprio quando l’incantesimo si spezza vediamo Audrey in una camera bianca, risvegliatasi da un sogno, mentre si specchia terrorizzata. È complicato destrutturare la scena alla ricerca di dettagli utili, ci restano poche sfumature per ipotizzare che la donna sia in realtà in una dimensione metafisica, dalla quale vive e rivive una vita forzata (basti pensare all’impossibilità di muoversi liberamente in questo mondo) e proprio la rottura di un obbligo, che in lei emerge come morale, squarcia anche il velo di maya per svelare la finzione del dietro le quinte. 


Quando è finita in questa dimensione? Cosa resta di Audrey nel mondo reale? Potrebbe essere lo stesso stupro di Bob ad averla rinchiusa in questa dimensione asettica e paralizzante, o una parte di lei, quella più simile alla ragazza sfacciata delle prime due stagioni,potrebbe essere stata rubata alla sua identità reale per mantenerla in uno stato di dormiveglia. Il finale sarà chiarificatore.


Una settimana fa scrivevo:

Il ritorno del vero Coop è causa per me di una trepidazione maggiore rispetto a quella provata nell’attesa dell’intera terza stagione”


Ebbene l’attesa non è essa stessa il piacere, perché quasi mai una scena aveva suscitato in me emozioni così forti come quella del ritorno di Cooper. Torna la sigla, tornano la classe, il carisma, la gentilezza, la sicurezza di Dale Cooper. Un personaggio meraviglioso che ha fatto la storia della televisione e al quale Lynch riserva il dovuto tributo. E la scena con Janey-E e Sonny Jim riesce anche ad essere toccante, nel complesso delle emozioni scatenate dal culmine di un percorso decennale. Nulla è stato lasciato al caso, ogni personaggio sta trovando il suo scopo in questo puzzle infinito, dai fratelli Mitchum a Bushnell. Per arrivare finalmente a scrivere la parola “fine” che il mezzo televisivo impedì di mettere ventisei anni fa.

domenica 27 agosto 2017

5 MOTIVI PER CUI THE DEFENDERS È UNA DELUSIONE

Dopo un esordio spettacolare con Daredevil, la qualità dei prodotti Marvel Netflix è andata via via calando. “The Defenders”, corrispettivo televisivo del team up più famoso, poteva essere il punto di svolta per l’intero progetto, ma così non è stato.


Vediamo insieme i cinque motivi per cui “The Defenders” non è stata in grado di mantenere le aspettative.



4 - 3 = Un protagonista
La serie si proponeva come una summa delle storie precedenti, che avevano lasciato in sospeso alcuni particolari per confluire poi verso un’unica conclusione. Quattro personaggi, una storia. L’obiettivo era probabilmente quello di livellari i diversi gradi d’interesse dovuti alla scrittura altalenante delle singole serie per generare un nuovo trasporto comune verso il gruppo di vigilanti. La realtà dei fatti racconta invece di un Matt Murdock ancora esageratamente superiore agli altri. Daredevil riesce a dare un altro tono alle scene in cui è presente per una profondità, uno spessore e un carisma a cui gli altri tre “difensori” non si avvicinano minimamente. La scelta di terminare la battaglia finale in quel modo poi non fa che avvalorare la tesi di una finta serie corale, molto più simile ad una terza stagione del diavolo di Hell’s Kitchen.



“È stata una settimana molto dura”
Quanto tempo passa dalla scarcerazione di Luke Cage alla conclusione dell’intera storia? Mi sono posto questa domanda diverse volte durante la visione. Alla fine è Jessica Jones a rispondere: meno di una settimana. Nell’ottica di un tempo così breve, quasi aristotelico, si perde il senso di uno sviluppo morale dei protagonisti e la loro interazione, ridicolmente esplicitata da Daredevil prima dello scontro finale, si riduce ad una collaborazione improvvisata. Manca la maturazione dei personaggi, aggiunta forzatamente verso il finale attraverso quello che dovrebbe essere Il colpo di scena. Ma è giusto interrogarsi su di esso: cosa sarebbe rimasto dell’esperienza dei Defenders senza il telefonato twist conclusivo?



War never changes
Lo scontro con la mano ci viene presentato come il culmine di un conflitto secolare tra i traditori di K’un lun e i casti. Lo stato delle cose è costantemente descritto in termini militari. Guerra, guerra e ancora guerra.
“Chi vincerà la guerra?”
“Questa è la fine della guerra”
“Questa non è la fine della guerra”
Queste ultime due frasi magari pronunciate dallo stesso personaggio a distanza di pochi minuti.
E il rimando immediato è alla vera guerra, quella in grado di annientare intere popolazioni, quella che non si placa con quattro colpi di karate in un ufficio bianco. Eppure la minaccia rappresentata dalla Mano non è mai tangibile: non ci sono attentati, non ci sono duelli decisivi, non ci sono punti di non ritorno. Quella che i protagonisti chiamano guerra è la schermaglia di qualche scagnozzo e un manipolo di vigilanti per evitare che un’organizzazione secolare possa ottenere la chiave della vittoria della guerra, che poi si rivelerà essere un elemento tutt’altro che decisivo. Il pericolo non è mai realmente vicino, né per i protagonisti né per la popolazione di New York. E allora stona incredibilmente il tono epico degli ultimi due episodi, soprattutto considerando che “The Defenders” si colloca all’interno del MCU, e a due passi dal Midland circle ci sarebbe un certo Tony Stark.



La sagra dei clichè
Daredevil aveva rivoluzionato la dimensione del supereroe con una narrazione più intima, profonda che aveva contribuito a rendere più imprevedibili le storie del Diavolo di Hell’s Kitchen.
Da questo punto di vista “The Defeneders” rappresenta un enorme passo indietro. Con uno sviluppo minimo in profondità della narrazione, i prodotti Marvel Netflix tornano a posizionarsi a livello della loro controparte cinematografica, e chiunque abbia visto almeno un paio di cinecomics sarà immediatamente in grado di predire lo svolgersi degli eventi. Mancano reali colpi di scena inaspettati - ad eccezione di quello che spezza l’unità del gruppo verso la metà della serie - e questo, unito alla mancanza di una minaccia reale, spegne il trasporto emotivo per una serie a tratti piatta.



E quindi?
Con l’ultima scena prima dei titoli di coda viene addolcito anche l’amaro finale. Cosa resta dell’esperienza dei Defenders dopo la “guerra” con la mano? Valutiamo la domanda da due punti di vista. Da una parte, per l’universo della serie, il team up ha avvicinato quattro eroi  già contigui, bruciando in otto puntate decine di personaggi validi per futuri sviluppi, sacrificati sull’altare della spettacolarità delle coreografie. Si tratta banalmente di una storia periferica che conclude una narrazione confusa e frammentata senza particolari guizzi.

Dall’altra ci siamo noi spettatori, che abbiamo assistito alla conclusione della “prima fase” di questo sottouniverso dei cinecomic. La serie scorre e si lascia guardare, considerando anche il fatto che si svolga in pochissime ore, si ride a denti stretti in alcuni momenti e si riesce anche a godere delle interazioni tra i protagonisti, ma non rimane nulla più di una copia sbiadita del modello MCU. Manca completamente la peculiarità televisiva che era stata di Matt Murdock prima e di Jessica Jones poi. Manca l’anima dei progetti Netflix, soppiantata dallo spirito Marvel.

mercoledì 23 agosto 2017

TWIN PEAKS 3 - EPISODIO 15

Il quindicesimo episodio rappresenta la conferma dell’unicità di questa stagione evento, che non vedrà altre “Parti” oltre le 18 previste da Showtime. A darne una prova concreta è un unicum per la serie: la conclusione di una sottotrama. E mai conclusione fu più dolce della promessa di matrimonio di Norma e Big Ed. L’attesa ha richiesto qualche anno più del previsto, ma la gioia infantile dipinta sul volto di Ed appena entrato al Double R per dichiarare la fine della latitanza amorosa è impagabile. La conclusione della meta-mini-avventura di Norma con il suo franchise poi arricchisce il messaggio di un senso definitivo che colpisce a cuore di chi era sul divano di casa nel 1991 a tormentarsi sulla fine di Laura Palmer.


Altra conclusione obbligatoria, necessaria e giustamente incensata è la scomparsa della signora ceppo. Perché termina la scrittura di un personaggio storico, iconico della televisione, ma soprattutto perché ci lascia Catherine Coulson, amica di Lynch, professionista esemplare che ha voluto ritagliare del tempo ai suoi ultimi attimi per la realizzazione delle sue apparizioni in questa terza stagione, per essere ancora parte di un progetto meraviglioso. E la serie le ha riservato il dovuto tributo, toccante e sobrio allo stesso tempo, con Hawk che annuncia la sua dipartita in una penombra più vicina agli esordi della serie, più vicina all’inizio che alla fine. Comprendere la visione della morte di una artista dello spessore di David Lynch è un’impresa impossibile, ma cogliere le sfumature di un messaggio d’amore così sincero va oltre l’esperienza televisiva.

There’s some fear, some fear in letting go
You know about death, that is just a change, not an end.


La signora ceppo poi è anche in grado di lasciarci in eredità due frasi criptiche:
My log is turning gold;
Watch for that one, the one I told you about, the one under the moon, on Blue Pine Mountain.

La prima affermazione fa riferimento al legame che intercorre fin dai tempi della prima stagione tra lo spirito de marito intrappolato nel ceppo e il regno delle logge. L’oro richiama il materiale di cui sono fatti gli anelli spirituali che fungono da strumenti di connessione con la loggia nera per gli uomini. È presumibile che la morte di Margareth possa liberare anche lo spirito del marito e quindi permettergli di terminare il suo prolungato trapasso.
La seconda affermazione invece ha una connessione maggiore con la trama e quello che sarà: Hawk è stato precedentemente istruito dalla signora ceppo su ciò che lo aspetta lo notte in cui presumibilmente tutto giungerà ad una conclusione. Un uomo che si manifesterà di notte, sul Blue Pine Mountain, lo stesso sul quale la squadra dello sceriffo Truman ha ritrovato Naido. Suppongo questo sia lo stralcio di una previsione riguardante Bob e il fatto che il suo aspetto attuale possa trarre in inganno il gruppo di Hawk.

La vicenda tragicomica di James (Jim) e Freddie è solamente un pretesto per riunire due armi fondamentali per il Fireman della loggia bianca sotto lo stesso tetto. In attesa di scoprire il senso della presenza d’ubriaco che gronda sangue, il quale - continuo a sostenere - potrebbe essere lo stesso Bill di cui è in cerca Audrey.


Intanto la narrazione torna ad interessarsi di Coop, in attesa che gli ordini di Gordon Cole vengano messi in atto dagli agenti locali e Dougie Jones venga consegnato alle autorità competenti. Dopo aver udito il nome di Gordon Cole alla televisione, Coop viene quindi spinto verso la presa della corrente elettrica e, introducendo la forchetta in uno dei tre fori, sembra rimanere apparentemente fulminato. La speranza condivisa, vista la funzionalità attribuita spesso all’elemento elettrico, è naturalmente quella del risveglio effettivo di Dale Cooper, ricostruendo così una situazione generale molto simile a quella delle prime due stagioni, con un protagonista indiscusso a fare da collante tra le varie bizzarre situazioni secondario. La dispersione voluta di questa terza stagione evento è stata anche frutto della mancanza della figura carismatica dell’agente Cooper, il quale, con il suo ritorno, potrebbe davvero dare la svolta definitiva verso il finale dell’epopea di Twin Peaks. Il ritorno del vero Coop è causa per me di una trepidazione maggiore rispetto a quella provata nell’attesa dell’intera terza stagione.


Ma passiamo al vero cuore pulsante dell’episodio, l’evento che ha ipnotizzato gli spettatori, confondendoli e ammaliandoli: l’incontro tra Bob e Phillip Jeffries. Ci sono delle dovute premesse da fare sull’intero evento. Non è possibile infatti tralasciare il fatto che i discorsi su Judy vengano ripresi direttamente dai “Missing Pieces”, una sezione extra contenuta unicamente nel cofanetto “Twin Peaks the ultimate collection”, distribuito nel 2016. Questo per dire che, a differenza di molte produzioni, anche di successo, Lynch non ha improvvisato nulla nella sua costruzione de capolavoro, ripescando se stesso e autocitandosi in un’opera assolutamente metatelevisiva, che attinge ad un complesso di fonti sconosciute ai più.
In questo episodio vediamo inoltre per la prima volta Bob nei panni di Cooper essere messo alle strette da un concatenarsi di eventi che neanche lui riesce a decifrare. Per la prima volta lo vediamo alzare la voce nel tentativo di avere delle risposte, che sono anche le risposte allo nostre domande, ma che dovremo pazientare ancora per ottenere.
Il luogo attraverso cui Bob arriva a colloquio con Phillip è l’emporio - presentato per la prima volta nel celeberrimo ottavo episodio - che abbiamo riconosciuto come la matrice e il punto di riferimento fisico dei taglialegna (così chiamati nei titoli di coda) dal volto truccato di nero. Dobbiamo correggere un particolare: non è provato che l’emporio possa fare anche da generatore di entità simili, poiché il suono elettronico, unito al fumo bianco, che avevamo collegato ad una generazione è in realtà la modalità attraverso cui questi spiriti viaggiano nelle varie dimensioni e presumibilmente si spostano sulla terra. Bob infatti sfrutta l’emporio per raggiungere il Dutchman, un motel nel quale risiede lo spirito di Phillip Jeffries, intrappolato in una stufa antica. La donna che apre la porta a Bob ci conferma che il motel si trova in una dimensione metafisica.


Phillip Jeffries non sembra rendersi conto di avere di fronte l’entità di Bob nel corpo di Coop e non il suo collega. Egli rivela quindi alcuni dettagli che cambiano le carte in tavola rispetto agli ultimi eventi: non sarebbe stato Phillip a inviare Ray ad uccidere Bob, ma Judy, della quale lo stesso Phillip sembra riluttante a parlare. Egli confessa però, pensando di trovarsi di fronte a Coop, che il suo interlocutore avrebbe già incontrato questa persona e rivela quindi a Bob le coordinate per trovare Judy. In tutto questo però, perché Ray avrebbe attribuito a Phillip l’incarico di uccidere Bob quando lo stesso agente non sembra al corrente degli eventi degli ultimi venticinque anni? Phillip è infatti perennemente fuori dal tempo e anche quando, in FWWM torna alla realtà per alcuni frangenti, si inganna sulla vera identità di Coop, deducendo che sia già posseduto da Bob. Due versioni dello stesso personaggio: la prima è onnisciente sul futuro prossimo, la seconda invece non riconosce il presente quando questo bussa alla porta del suo motel. Nel suo essere una stufa antica, il personaggio che fu di David Bowie continua a generare mote perplessità sul suo passato, sulla sua scomparsa e sul suo legame con le logge.



L’attesa della risoluzione comincia a farsi spasmodica e riconnettere insieme tutti questa aspetti dello stesso intero potrebbe regalare una conclusione spettacolare. Lynch ha dichiarato che tutto avrà un senso, alla fine tutto troverà un posto. Mi auguro che ciò avvenga, senza però eccedere nella finitezza, perché la magia di Twin Peaks e del ritorno tra i suoi boschi si è nascosta proprio nell’infinità di una storia che non può terminare per sempre. Dovrà vivere ancora nelle nostre menti, come è stato per venticinque lunghissimi anni.

giovedì 17 agosto 2017

TWIN PEAKS 3 - EPISODI 12, 13 & 14

Riprendere il filo di una creatura così dispersiva e meravigliosamente contorta dopo tre settimane di assenza potrebbe essere un’operazione complessa. Perché a Twin Peaks è una sfumatura che fa la differenza tra la totale immersione e la visione di un corpo estraneo. Perché questi tre episodi rappresentano un trittico ideale che porta avanti in modo significativo la trama poggiandosi proprio sui più reconditi dettagli degli episodi precedenti. Il dodicesimo, tredicesimo e quattordicesimo episodio sono infatti costruiti su un crescendo di tensione e terrore che trova il suo compimento nel sogno di Gordon e nel volto di Sarah Palmer. Molte parole per dare un senso ad immagini passate, ma non abbastanza da chiarire il quadro generale. Lynch, nella sua caparbia artisticità, diventa Norma e rincara la dose a quattro episodi dalla conclusione, introducendo altri elementi di disturbo nel complesso di alcune sottotrame che tendono a convergere verso un unico punto indicato da tutte le coordinate mostrate: Twin Peaks, Washington. Non c’è da stupirsi se la soluzione ad enigmi precedenti possa trovare la sua chiave risolutiva proprio in funzione di un dettaglio successivo. Così non avremmo mai potuto raggiungere la verità con le nostre gambe, ma abbiamo creduto di poterlo fare, e tanto è bastato per spingerci alla ricerca.
Sarebbe inutile e pedissequo soffermarsi su situazioni dei singoli episodi che hanno avuto uno sviluppo significativo nel corso delle puntate successive, quindi tenteremo di procedere tirando le fila del discorso fino al momento corrente.


Dopo averne discusso ampiamente, dopo aver fantasticato sul senso di un’immagine irreale, veniamo finalmente accontentati con una spiegazione definitiva sulla rosa blu. “Blue Rose” non si trova in natura, è l’appellativo della particolare sezione dell’FBI composta da Gordon e Albert che si occupa appunto di investigare su omicidi legati a fenomeni paranormali di doppelganger. “Blue Rose” era ciò in cui eravamo invischiati da venticinque anni senza conoscerne il nome. Eppure nella task force non era presente il maggiore Briggs, attorno al quale aleggia ancora una densa coltre di mistero. Eppure proprio il maggiore Briggs, nel mare viola della loggia bianca, pronunciava ad uno smarrito Cooper le parole “Blue Rose”. Che sia stato un monito arrivato da un personaggio conscio della vera natura della duplicità del mondo o solamente una costatazione ulteriore del processo nel quale era ed è tuttora invischiato l’agente speciale Cooper? Dove si trovano i doppelganger di Phillip Jeffries e di Chester Desmond? Se ipotizziamo, come è possibile dedurre dal finale della seconda stagione, che i doppelganger della loggia nera possono accedere al mondo reale se e solo se la loro controparte umana resta rinchiusa in una dimensione alternativa come quella della loggia, allora delle copie degli agenti potrebbero essere a piede libero e contemporaneamente gli originali potrebbero essere ancora rinchiusi nella loggia nera, da dove Phillip avrebbe contattato Ray per uccidere Bob nel corpo di Cooper.


A proposito di Ray, attraverso un interrogatorio al cardiopalma, viene aggiunto un ulteriore elemento alla questione degli anelli della loggia, che si ricollega direttamente alla scomparsa di Chester Desmond in FWWM. Ormai sappiamo che gli anelli, infilati al dito spirituale, legano l’anima dell’individuo alla loggia nera. Ray infatti, come Dougie Jones, nel momento del trapasso finisce al cospetto di Mike. La mossa di Bob sembra essere un chiaro smacco al suo rivale senza un braccio, che dallo loggia nera tenta in ogni modo di contrastare la diffusione del male assoluto nel mondo reale. In questo gioco di forze continuo non si spiega però né la sparizione di Chester Desmond nell’istante esatto in cui ha sfiorato l’anello sotto la roulotte in FWWM, né l’utilizzo talismanico che Laura Palmer faceva dell’anello in suo possesso. La risposta a tutto ciò potrebbe essere una complicazione situazionale ulteriore: l’anello potrebbe essere uno strumento neutro che lega generalmente un essere umano alla loggia, e, in base alla fattura eseguita sull’oggetto mistico, potrebbe cambiare anche il suo funzionamento, entro certi limiti. Una spiegazione che io per primo non ritengo sufficientemente soddisfacente, anche alla luce della precisione di alcuni dettagli lynchiani. Aspettiamo quindi di comprendere appieno il senso di questo elemento ricorrente.


Dopo mesi passati ad aspettare che un dettaglio aprisse la via ad un’unificazione delle trame capillari, ecco che Diane, personaggio meraviglioso, fisicamente introdotto solo nella terza stagione, chiude il cerchio con Janey-E e con Dougie Jones. Finalmente gli ultimi tasselli trovano una corrispondenza per confluire fluidamente verso l’epilogo della storia. L’elemento del doppio torna anche in questo caso, con due donne simili ma diverse che tendono alla ricerco dello stesso uomo, che ha le fattezze del marito dell’una, ma nasconde l’anima del presunto amante dell’altra. Intanto Diane continua il suo doppiogioco con Bob, e suppongo anche che le sue doti di ex-agente dell’FBI, sopravvissute ai fumi dell’alcolismo, la rendano conscia che anche la squadra “Blue Rose” sia a conoscenza delle sue azioni.


La spedizione dei quattro agenti di polizia locali sul Blue Pine Mountine porta all’impensabile: se potevamo prevedere un incontro diretto tra Hawk - anima del gruppo - e le forze sovrannaturali, è lo sprovveduto Andy a fare la parte dell’eroe e ad intrattenere una conversazione ideale con quello che si presenta come “Fireman”, il pompiere, colui che combatte il fuoco della loggia nera. Consapevole inaspettato della realtà dei fatti e dell’origine del male assoluto, seppur per un tempo breve, Andy trae in salvo Naido, la donna con gli occhi cuciti, per poi tornare ad essere il goffo poliziotto di sempre. Chi è Naido? L’incontro del gruppo - che potremmo ricondurre a quelli che furono i Bookhouse Boys - ha quindi una funzione ben precisa che è quella del recupero di Naido, visto che Andy sembra non essere consapevole del suo viaggio dimensionale e che gli altri membri del gruppo presentano un vuoto di memoria comune sull’accaduto. Naido è la chiave del piano del maggiore Briggs e quindi del “Fireman”. La donna, molto simile all’essere che ha generato Bob dopo l’esperimento nucleare nel ’45, potrebbe essere una delle armi finali nell’arsenale delle forze della loggia bianca. Un’altra arma, esplicitamente convocata dal “Fireman” in territorio statunitense è l’anglofono Freddie, collega di lavoro e amico di James, che, proprio seguendo le indicazioni del custode del bene, è entrato in possesso di una forza sovraumana grazie ad un guanto da giardinaggio. Al di là dell’ironia del racconto, l’evento ricorda da vicino la storia di Nadine all’epoca della perdita di memoria, durante la seconda stagione. Che si sia trattato anche in quel caso di un intervento di forze superiori nella vita quotidiana della cittadino di Twin Peaks?


Finalmente, dopo dodici lunghi episodi - e un’attesa durata venticinque anni-, torna a mostrarsi il personaggio di Audrey, e lo fa spiazzando lo spettatore. Non è la ricca ereditiera snob che potevamo attenderci, non sembra essere la donna di potere dietro il progetto della scatola di vetro a New York. Si tratta invece di una frastornata e confusa donna di mezz’età, incastrata in un matrimonio decisamente infelice con quello che non sembra essere l’uomo dei suoi sogni. La sua sottotrama, introdotta a sorpresa quando altre andavano chiudendosi, lascia interdetti sulle prime, apparendo completamente slegata dal contesto globale, quasi fosse fuori dal tempo, fuori da Twin Peaks. Ma sul calare della conversazione con il marito sull’amante Bill, Audrey afferma di non essere in grado di andare a controllare al Bang Bang Bar la presenza di Bill. Qualcosa, una forza oppressiva più forte della sua volontà le impedisce di agire. Negli ultimi istanti del quattordicesimo episodio, la figlia di Tina, l’ultima che avrebbe visto Bill, racconta ad una sua amica una scena inquietante che ricorda direttamente il finale della seconda stagione “Oltre la vita e la morte”. Bill potrebbe essere quindi l’uomo dal volto sfigurato, ancora grondante sangue, che siede nella cella accanto a quella di Naido e che ripete ogni suo verso. Questo puzzle manca di troppi elementi per poter essere ammirato, ma Bill, come lo è stato Coop alla fine della serie originale, potrebbe essere posseduto da un’entità della loggia. Si troverebbe quindi ad una grata di distanza due personaggi fondamentali per il prosieguo della trama. Ma resta l’interrogativo sulla situazione di Audrey, indubbiamente sinistra.


Il momento più alto di questi tre episodi è però certamente il racconto del sogno di Gordon in cui è presente una Monica Bellucci in grado di indicare la verità. In un meraviglioso bianco e nero, attraverso un crescendo di inquietudine, Lynch ci mostra il senso di un’opera visto da ancor più distante, in un’accezione teologica. Chi è il sognatore? Monica Bellucci ricorda anche a Gordon l’episodio della riapparizione di Phillip Jeffries (David Bowie - alla cui memoria è dedicato l’intero episodio) e la sua accusa a Cooper, precedentemente visto in FWWM. La definitiva conferma della teoria del doppelganger dietro il caso Dale Cooper per gli agenti della “Blue Rose”.


Chiudiamo quindi con il personaggio più raccapricciante del trittico di episodi, ovvero Sarah Palmer. La madre di Laura, presente sullo schermo con una frequenza sempre maggiore, sembra vivere un conflitto interiore incredibilmente profondo che sfocia nella scena dell’assassinio dell’uomo nel bar. Come Laura, anche Sarah è ormai solamente l’involucro di qualcosa di infinitamente più grande di lei, ma se per Laura potrebbe trattarsi del sommo bene, ciò che si nasconde dietro il volto di Sarah è l’oscurità assoluta. Questo elemento tende a confermarci che la ragazzina dell’ottavo episodio, quella nella cui bocca si faceva largo la rana alata nata dagli esperimenti nucleari, sia effettivamente Sarah. Non è chiaro quanto la donna sia ancora presente a se stessa e quanto sia consapevole eventualmente della sua situazione. In alcuni momenti sembra la madre disperata delle prime due stagioni, mentre in altri appare in accordo con l’essere che dimora dentro di lei. Ma questo essere è in grado di uscire allo scoperto? Dalla visita di Hawk a casa Palmer dopo l’incidente del supermercato si direbbe di sì, e anzi quella stessa sequenza proverebbe anche la connivenza tra la donna e il male che alberga in lei. Un’ulteriore freccia nella faretra della loggia nera e una conferma sulla predestinazione del storia, fin dai suoi primi capitoli.



Questo triplo episodio è caratterizzato da riferimenti ricorrenti al doppio, che è anche la prima immagine che venne proposta da Lynch: Twin Peaks. Tutto ruota attorno alla questione delle due logge e dei doppelganger, che spesso viene ridimensionata ad uno scontro ideale tra forze del bene e del male, ma che nasconde sfumature filosofiche ben più profonde. Tutto aveva un senso definito fin dal principio, legato ad un filo rosso di predestinazione che per decenni abbiamo seguito senza esserne consapevoli. Questa terza stagione non è un sequel, è un risveglio spirituale, e l’elemento meta televisivo del doppio nel nome e nella locandina è la conferma definitiva di una vita spesa per la sua arte.

mercoledì 16 agosto 2017

IL CAMPO DI GRANO NERO - SECONDA PARTE

Clicca qui per la prima parte

Passarono alcuni giorni prima che potei tornare alla mia attività di esploratore. Mia madre mi mise in punizione e fui costretto a passare eterni pomeriggi a leggere libri sgualciti e sfogliare giornali ammuffiti sul vecchio divano che avevamo in salotto. Mark era riuscito a scampare alla sua punizione per aver nascosto il mio coltellino oltre la linea dei covoni e lo vedevo scorrazzare fuori dalla finestra con altri ragazzi più grandi, che abitavano verso il centro del paese. Ero invidioso e arrabbiato, ma morivo anche dalla voglia di raccontagli per filo e per segno la mia avventura nel campo di grano nero.


Una settimana dopo l’accaduto fui libero di tornare alla libertà. Mio fratello era già uscito coni suoi nuovi amici. Andai quindi a cercarlo per riprendere da dove eravamo stati interrotti. Uscì di casa dalla porta principale e mi incamminai verso il municipio. Passai appena la vecchia locanda quando un bracciò mi tirò per un vicolo lercio, umido.
Mark mi mise la mano davanti alla bocca perché non stillassi e la tolse solo quando mi fui calmato.
“Ti sei divertito con i vecchi giornali di papà, eh Kev?”
Non risposi. Sapeva perfettamente come farmi irritare.
“Mentre eri impegnato non sono rimasto con le mani in mano. Avevi balbettato qualcosa su un campo di grano nero, giusto?”
Annuì.
“Ecco, i ragazzi che ho conosciuto in città sapevano qualcosa. Ero sicuro che lo sapessero, ma prima che mi raccontassero qualcosa mi sono dovuto guadagnare il loro rispetto. Da quello che mi hanno detto, in passato questa città ha vissuto momenti bui. Molti anni fa vi fu un periodo di carestia e i contadini si spinsero oltre i loro confini. Arrivarono a coltivare anche i campi verso nord, quelli aridi dove ho nascosto il coltellino di papà”.
Imbronciato lo corressi: “Il mio coltellino”.
“Sì sì, il “tuo” coltellino, come vuoi. Inizialmente, dicevo, il grano crebbe alto e la carestia fu superata, ma contemporaneamente si verificarono alcuni incidenti: un bambino finì in fondo ad un pozzo senz’acqua e lì morì pochi giorni dopo, un altro inciampò in un attrezzo e morì di tetano. Una bambina invece fu trovata senza vita nel suo letto, strangolata dal suo stesso foulard. E a questi si aggiunsero molti altri casi, di cui i ragazzi neanche ricordano i dettagli. Si sa solo che in un anno morirono in circostanze misteriose diciotto bambini, tutti figli di contadini che avevano contribuito a coltivare la nuova terra”.
Mentre ero così preso dal racconto di mio fratello, non mi ero accorto di avere una scarpa quasi completamente immersa nel fango putrido del retro della locanda, che emanava un odore acre. Mark mi tirò per la maglia e ci spostammo verso la strada principale.
“Cominciò a diffondersi l’idea di una maledizione legata ai campi a nord. Alcuni bambini parlarono ai loro genitori di una casa dalle finestre nere, ma nessuno fu in grado di trovare un luogo del genere, finché un giorno, superata la carestia, gli stessi contadini che si erano spinti a nord non decisero di dare tutto alle fiamme. Bruciarono ettari ed ettari di terreno per evitare che la maledizione della casa nera colpisse altre bambini innocenti. Alcune versioni della storia affermano anche che, durante l’incendio, si potessero udire chiaramente grida femminili provenire dalle fiamme più lontane.”
“Io ho sentito una voce” dissi senza pensarci.
Mio fratello mi squadrò per alcuni secondi, poi riprese.
“Da quel giorno in molti, soprattutto ragazzi, hanno cercato invano la casa con le finestre nere. Poi con il tempo l’interesse è scemato e la gente ha smesso di addentrarsi nei campi a nord, fermandosi alla linea dei covoni”.
“Ma io l’ho vista!”
“Io ti credo. Gli altri ragazzi invece hanno riso di me quando ho cercato di spiegargli cosa ti era accaduto. Mi hanno dato del bugiardo, dicendo che mi ero inventato tutto per far colpo su di loro. Ma io ti credo”.
Non avevo mai visto Mark così convinto. Nei suoi occhi ardeva uno spirito d’avventura travolgente.
“Non puoi esserti inventato tutto - continuò - la casa nera, il grano bruciato, la voce. Deve esserci davvero qualcosa oltre quei covoni.”

La mattina seguente andammo alla ricerca di ulteriori informazioni che potessero svelarci il mistero che aleggiava sulla città. Qualcosa di cui tutti sapevano, ma di cui nessuno osava mettere bocca. Chiedemmo prima alla locanda, ma fummo malamente cacciati dal proprietario, poi decidemmo di percorrere la strada sterrata verso i covoni per intervistare gli abitanti più vicini ai campi aridi. Dopo circa dieci minuti di cammino ci fermammo davanti al cancello della signora Lathimer. Mark mi disse di aspettarlo lì, poi scavalcò la staccionata secca e arrivo fino alla porta di casa. Busso prima piano, poi con più veemenza, ma non ci fu risposta. Passammo quindi alla fattoria degli Smith, che non vollero sapere più nulla dopo che Mark ebbe nominato la casa dalle finestre nere. Sconsolati e senza uno stralcio di informazione, ci stavamo incamminando verso caso, quando scorgemmo la signora Lathimer in lontananza, che sembrava in attesa di qualcosa o di qualcuno.
“Aspettavo voi”.

Entrammo nella casa in legno e lamiera. Ogni oggetto, custodito come il più prezioso cimelio di un museo, emanava l’odore tipico delle case vissute da generazioni. La signora, una piccola donnina ricurva, ci fece accomodare nel salotto, su delle poltrone stranamente immacolate, preservate da vari strati di cellophan.
“Vedo nei vostri occhi la ricerca” esordì cripticamente.
Io e Mark ci guardammo in faccia, non sicuri di aver capito. E lei, senza scrutarci, incalzò:
“So che siete alla ricerca della casa. Avrete sicuramente sentito molte storie su quel luogo maledetto. Sui pargoli scomparsi”. Fece una pausa.
La signora Lathimer era dotata di una flemma ipnotica; io e Mark eravamo affascinati dalle sue parole, sia per la musicalità del suo racconto, sia perché potevamo essere vicini alla verità tanto agognata.

“Ebbene potrei esservi d’aiuto, nonostante la mia età e la vista. Avrete sentito parlare dei bambini che denunciarono per primi la casa nera in mezzo ai campi a nord. Devo confessarvi che fui io, ormai molti anni fa, la bambina sopravvissuta alla casa, la prima che parlò ai contadini del mistero dietro le diciotto morti”. 

Continua