Ri-benvenuti
in questa piccola piccola rubrica gentilmente ospitata su questo Blog, rubrica
che con oggi arriva alla sua sedicesima puntata. Almeno credo, non do troppa
importanza ai numeri. Eppure dovrei, che sono importanti: per esempio è appena
uscito l’album numero dodici dei Green Day, che potrebbe essere una gran bella
notizia se non fosse per altri tre numerini, Uno!, Dos! e Tre!. Al quatro tentativo non ci casco. Se però è successo il miracolo e Revolution Radio – questo il titolo
dell’album – è perfino meglio di American
Idiot allora ditelo, o scrivetelo che rimedio. Nel frattempo vi consiglio
come al solito cinque pezzi novi novi che potreste esservi persi nel vorticoso
turbine settembrino.
Ben
quattro anni hanno aspettato i Dirty Projectors per fare nuovamente capolino
dal luogo magico da cui provengono. Dopo l’abbandono di Angel Deradoorian ci
sarà quindi un seguito agli ottimi Swing
Lo Magellan e Bitte Orca, giusto
per citare gli ultimi e probabilmente
più celebri loro album. Da un primo ascolto di Keep Your Name però, pare che
davvero il nome sia tra le poche cose, se non l’unica, rimaste dei “vecchi”
Projectors: mancano i riff di chitarra alla Steve Howe, mancano i continui
cambi di ritmo, manca quella la complessità, quell’intreccio di voci tipico dei
loro lavori. Di fatto Keep Your Name è un pezzo hip-hop e l’unica labile
traccia del passato sono le classiche percussioni gommose udibili di tanto in
tanto (oltre ad un loop di piano preso in prestito da Impregnable Question, come qualcuno ha fatto notare). Forse i fan di lunga data
storceranno un poco il naso ma per quanto riguarda il sottoscritto Keep Your Name
è un gran bel pezzo e fa ben sperare per questa inedita versione della band statunitense.
Capito
a Berlino qualche settimana fa e ovviamente non manco di fare una tappa a
Kreuzberg per osservare da vicino la fauna hypster nel suo habitat naturale: i
ristoranti vegani (ossimoro?). Nel pieno della mia deriva psicogeografica la
mia attenzione viene catturata da un gigantesco murales che occupa tutta la
facciata di un palazzo. È davvero immenso, anche perché per qualche oscura
ragione i palazzi a Berlino non hanno le finestre sui lati, quindi lo spazio
per dipingerci è notevole. Su l’intera parete campeggia quindi un numero, 715,
un testo piuttosto criptico, ma soprattutto l’altrettanto criptica copertina
del nuovo album dei Bon Iver. La trovata pubblicitaria è geniale, ma a dirla
tutta non era poi così necessario un tale dispendio di energia (e vernice):
ogni album della band di Justin Vernon è di per sé un evento, considerando che
tra una pubblicazione e l’altra passano ere geologiche.
Su 22, A Million si potrebbero fare un mucchio di considerazioni, ma mi limito
a parlare di uno dei pezzi secondo me migliori dell’album: 33 “GOD” sintetizza al meglio lo spirito che permea
l’intero l’album, la sua anima comunque ancora folk, la sua veste elettronica e
tuttavia mai fredda o asettica e i frutti raccolti dopo i vari flirt con l’hip-hop.
Hanno
cambiato nome ma la sostanza è rimasta quella ermetica, misteriosa e
celatamente violenta – in una parola post-punk – di prima. I Preoccupations
(f.k.a. Viet Cong) sono tornati con un album eponimo che per molti versi sembra
il fratello del precedente. Nello specifico Memory potrebbe essere la “sorella”
di Death data la durata simile (10/11 minuti)
ma le somiglianze si fermano qua. Se nella sorella maggiore Matt Flegel cantava
praticamente per tutta la durata del pezzo, accompagnato da schitarrate
aggressive in un crescendo caotico, nella nuova si contano poche, indecifrabili
righe, una linea di basso preponderante, drum-machine e una lunghissima coda
strumentale, quasi ambient, che data la posizione centrale della canzone (è la
quarta traccia) spezza letteralmente l’intero album in due metà.
In
quel di Los Angeles sono ormai lontani i tempi del punk hardcore o del
glam-rock che ne facevano nel bene e nel male un punto di riferimento della
musica d’oltreoceano e non solo. Non è blasfemo dire che oggi la Città degli
angeli non ha più una “forma” definita, almeno dal punto di vista della musica.
Non è quindi così strano che una delle novità più interessanti di quelle parti
non mantenga nessun legame con la tradizione. Cherry Glazerr è il progetto –
inizialmente solista, poi evolutosi in vera e propria band – di Clementine
Creevy e il loro nuovo singolo sembra attingere dalla scena rock britannica di
una decina di anni fa (Arctic Monkeys e compagnia per capirci) piuttosto che
dalla scena autoctona. Il potente riff di chitarra in particolare ricorda
quello di The Fallen dei Franz Ferdinand, come
mi è stato fatto notare. Al di là delle influenze che si possono o meno
trovare, Told You I’d Be With The Guys è una bella canzone e questa ragazza è
da tenere d’occhio.
Per
chi non li conoscesse, i BADBADNOTGOOD sono un gruppo jazz canadese. Dire jazz
in realtà è piuttosto riduttivo, in realtà non disdegnano affatto incursioni in
altri generi. Quest’anno hanno pubblicato un nuovo album, ma soprattutto hanno
messo lo zampino in una caterva di altri dischi, con risultati è sempre ottimi.
L’ultima manina l’anno offerta all’esordiente Mick Jenkins – di cui è appena
uscito l’album The Healing Component
– nel singolo Drowning. La canzone e il video sono già di per sé densi di
significato, soprattutto se contestualizzati nell’America di questi ultimi mesi
– difficile rimanere indifferenti a quell’ “I can’t breath” ripetuto più e più
volte – e l’andatura flemmatica della linea di basso che accompagna tutti i sei
minuti del pezzo cla perfettamente l’ascoltatore nella parte, ti inonda i
polmoni fin davvero ad affogare, schiacciato dalla realtà che la voce calda del
giovane rapper ti posa placidamente nel piatto.
Marsha Bronson
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