mercoledì 5 ottobre 2016

SERIE DI CUI NON PARLERÒ: MASTER OF NONE

Fino a poco tempo fa, per me Aziz Ansari era il medico svogliato di Scrubs, quello che faceva penare Cox per le sue capacità sprecate a causa dell’innata pigrizia. Solo qualche settimana fa, grazie al mio abbonamento-sanguisuga a Netflix, ho potuto scoprire il vero volto del comedian statunitense, che ha avuto la brillante idea di ricalcare le orme dell’irresistibile Louie e di proporre una serie TV originale Netflix in cui egli impersona una sorta di sua controparte televisiva. Dev Shah infatti non è altro che una versione romanzata dello stesso Ansari, e ciò lo si nota da alcuni punti di contatto notevoli tra le due figure, che vanno a creare i veri e propri pilastri su cui si regge la serie. Per questo, eliminando ogni sorta di espediente narrativo creato ad hoc per Dev, rimane il vero Aziz, con le sue manie, le sue preoccupazioni, le sue radici e le sue ambizioni. Ed è proprio questa veridicità di fondo a dare quel tocco di autorialità che caratterizza la serie e porta a pensare che il vero Master of None del titolo non sia tanto Dev, quanto Aziz, quanto una generazione schiacciata dalla globalizzazione e dalle aspettative, dalla convenzione sociale e da un futuro in regressione.



La serie si struttura saldamente attorno al protagonista, tanto da tralasciare spesso i personaggi principali, ma tutto è funzionale alla traduzione televisiva del fumo grigio e viola che ispira i creatori della serie. Attraverso Dev veniamo trasportati con molta leggerezza ed eleganza nella New York dei giorni nostri, e ci ritroviamo a seguire le vicende professionali e personali di un giovane aspirante attore. I temi principali di questa prima stagione dello show sono legati principalmente alla realizzazione dell’autore nell’ambiente spesso ostico in cui si trova. Discriminazioni, sciacalli, feste al sapore di nulla e ancora discriminazioni. Nel complesso, la prima stagione potrebbe essere presa come uno spaccato della vita di un semplice trentenne in una città che comprime. Il punto più alto della prima stagione, almeno a mio parere, è l’episodio in cui ripercorriamo medi di relazione con Rachel, la ragazza del preservativo bucato nella prima sequenza del primo episodio. In trenta minuti riusciamo a scorgere la passione, l’amore incondizionato, l’arrivo della routine, la fine delle emozioni travolgenti e ancora l’amore. Il perfetto bilanciamento di questi momenti produce un grande spettacolo per il piccolo schermo, e conferma ancora le incredibili capacità di scrittura del duo Ansari-Yang, senza le quali Master of None sarebbe un’altra sitcom, l’ennesima. E invece Master of None non è una Sitcom, è qualcosa di più dal punto di vista intellettuale, ma non qualcosa di meno da quello comico. La comicità di Ansari è irriverente, sfacciata, scorretta e comunque perfettamente allineata con la natura dello show, che rimane critica e intelligente. In questo ha pesato molto l’attività di stand-up comedian dello stesso autore, il quale ha travasato il suo estro per plasmare una commistione di elementi poco innovativi e dare vita a qualcosa di unico.

Le puntate di Master of None scorrono senza che ci si accorga del tempo che passa; lasciano lo spettatore incollato allo schermo. Sono divertenti, leggere e scanzonate, ma trasmettono anche qualcosa di indefinitamente oppressivo . È il disagio che si prova ad immedesimarsi in una generazione schiacciata dal mondo, quelli che stanno vivendo cambiamenti epocali senza una preparazione adatta, e si sentono a loro agio solo quando si sentono persi nel caos che li circonda. Perché, se per far piangere non c’è bisogno di piangere, riflettere non è l’unica via per generare riflessione, ma un sorriso nasconde il mondo.

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