Le parole per descrivere questo personaggio unico sono
finite da tempo immemore. Il percorso che porta alla leggenda necessita di un tempo di
assimilazione delle conflittualità per poter restituire un artista coerente;
per quelli che riescono ad entrare nel modus pensandi di Woody questo processo
ha già avuto inizio da tempo. Queste persone riescono a vedere nel piccolo e
nevrotico Newyorkese allo stesso tempo l’uomo e il mito che un giorno sarà
chiaro a tutti.
L’ultima non-fatica di Allen è Café Society, opera
agrodolce che ci porta nell’America degli anni trenta, abbracciando
contemporaneamente la poetica New York e la teatrale e sfarzosa Hollywood.
Jesse Eisenberg è Bobby, giovane ebreo dell’Ovest in cerca di nuove possibilità
nella terra del cinema, dei divi e delle feste agghindate. Kristen Steward è
invece Vonnie, affascinante segretaria dello zio del protagonista. L’incontro tra i due porterà alla passione amorosa e ai progetti di vita, ma non sempre la
donna giusta rimane fino alla fine della festa. Non sempre la donna giusta
resta.
Con Café Society, Allen prosegue il suo mosaico di una
civiltà in continuo movimento, ingabbiata dai fuochi dell’amore e della
razionalità. Tutto si gioca su questi due piani tangenti e intangibili. I protagonisti
dell’opera tentano di far valere le loro speranze e aspirazioni al di sopra
dello scorrimento del fiume della vita, ma restare asciutti risulta
impossibile, e allora ci si veste di ciò che si trova sulla riva. Si rubano le
movenze di chi galleggia e si resiste. Si vince, talvolta per fortuna, talvolta
per caso, ma cosa resta del sogno che ci aveva mossi all’azione? Allen indaga
questo complesso rapporto tra realtà differenti che finiscono sempre per
trasportare gli individui al di là dei loro lidi, portandosi via anche i
valori, e con loro i veri protagonisti. Il Bobby che ritroviamo dopo il salto
temporale ha ormai adottato un abbigliamento che non gli apparteneva, quando
sognava di sopravvivere d’amore a Greenwich Village. La prima giacca con cui
si presenta a Hollywood è di un triste e spento marrone, l’ultima con cui
festeggia il capodanno dell’anno più triste è di uno splendente e candido
bianco. Tutto ciò che ci circonda è in movimento, viviamo a cavallo delle sfere
personali di miliardi di individui, e molto spesso le sfere più adiacenti allo
nostra rientrano nel nostro universo per effetto di una fagocitazione insaziabile. Così facendo non
siamo più protagonisti indiscussi delle scelte che reggono il timone della
nostra barchetta nel fiume tempestoso. Un giorno ci rendiamo conto di essere
arrivati dove non credevamo, e forse non volevamo. Dal Marrone allo splendore:
dove è finito Bobby? È probabilmente rimasto nella bettola messicana, luogo di
infiniti sguardi incondizionati. È questo infatti l’unico modo per sopravvivere
in una società mascherata che vive di posizioni sfarzose, nomi altisonanti e
bicchieri di champagne, mantenere attiva una realtà sognante. Mantenere viva la
possibiltà di attraversare il paese con la mente per ricongiungersi con chi
avremmo voluto essere, le giornate di sole che avremmo voluto trascorrere in
riva all’Oceano, le cenette romantiche a lume di candela e respiro di vino. Non
è una consolazione, ma lo scarto reale che ci tiene incollati alla nostra vera
vita, che scorre lenta e silenziosa dietro il frastuono degli spari e dei
flash.
Il finale lascia con l’amaro in bocca. Un gusto che
permane ancora, perché quello di Allen è ancora un crudo realismo vestito da
armonioso allestimento. Sulle note finali, con sguardo sognante, ci rendiamo conto di
aver sacrificato qualcosa per arrivare fin qui. Ma per chi? Forse per
continuare a galleggiare e non andare a fondo nel fiume senza fine, che a volte
ci stringe le caviglie come sabbie mobili e ci ruba il pensiero.
Il fiume è senza fine, ma ahimè le anime che lo compongono
un giorno lasceranno il posto ad anime nuove. La morte è presente anche in
questo film, come in molti altri capolavori del maestro dell’ipocondria. La falce
segue attenta le vicende e non manca di colpire. Il discorso sul paradiso degli
ebrei è una riflessione da non sottovalutare, che ridà un altro significato ad
alcuni momenti di decadenza pura dell’opera. Cosa abbiamo concluso, cosa sarebbe stato giusto. Cosa ha senso se tutto ha fine certa? Ogni anno Woody Allen ci riprova,
e aggiunge qualcosa al suo meraviglioso affresco. Ogni nuovo film di Woody Allen
potrebbe essere l’ultima pietra miliare di un’immensa carriera, e quindi, ogni
volta che guardo un suo film, so che manca una pellicola in meno all’ultima
opera, e questo mi rattrista. Ancora rido per un gruppo di gangster che risolve
le questioni di vicinato nel cemento, ma rido a due facce. La falce del metacinema
pesa.
Grazie ancora una volta e sempre, Woody.
Nessun commento:
Posta un commento