SECONDO GIORNO
Rinvengo. Il Sole è tornato a farmi compagnia. La gamba
mi duole di meno ma vene e arterie continuano a pulsare incessantemente. La
macchia viola si espande. Non so se recupererò mai la gamba, ora l’unico
pensiero è uscire da qui, ma sapere come sono finito quaggiù aiuterebbe. Come?
Chi?
Mantengo la calma e mi trascino verso una zona d’ombra
poco distante data dall’inclinazione solare. Ogni spostamento in queste
condizioni sembra un’agonizzante fine. Stringo i denti, sento una brezza.
L’aria è più fresca, respirabile. Ne prendo a pieni polmoni. Deve essere
mattina.
Con la testa finalmente all’ombra riesco a ritrovare una
sorta di lucidità e mi fermo a pensare. Ricordo l’ufficio a serata inoltrata,
la porta d’uscita, il saluto sfuggente di un passante, delle voci confuse, una
ragazza si agita nel tipico fumo dei tombini nei vicoli newyorkesi, una musica
orecchiabile permea l’area, ma è soffusa. Probabilmente viene da un locale
vicino. La scala antincendio scende e comincia a vibrare rumorosamente, due
uomini. Vedo distintamente due uomini e due maschere. Comincio a ricordare
quelle maschere di terrore. Un fumo si addensa per prendere sembianze canine,
antropomorfo con un sinistro sorriso maligno, il naso largo, le narici
spaziose, gli occhi. Occhi malvagi, occhi rossi, il diavolo sembra possederlo.
Qualcosa mi distrae dai miei pensieri. È un insetto, si
sente in lontananza. Un grillo, credo. Un suono familiare mi smuove qualcosa
dentro e una lacrima scende involontariamente e dopo aver segnato il mio viso
precipita seguendo la gravità fino a toccare terra. Quella terra che mi
circonda, mi rinchiude e mi asfissia; quella terra sotto la quale un giorno
tornerò o forse già sto tornando. Tutti muoiono, tutti hanno i giorni contati,
ma sento che i miei si possono contare sulle dita di una mano. Sento freddo, un
brivido lungo la schiena. Una goccia di sudore gelido ricalca il percorso della
lacrima. È vicina.
Mi porto la mano al volto per asciugare il sudore ma
l’allontano immediatamente. È sporca, lercia. Il pungente odore acre del vomito
è ancora presente. Mi calmo e respiro. Il cuore torna a fare il suo senza
esagerare. Continuo a ricordare.
Ricordo una seconda maschera, meno minacciosa ma non meno
inquietante. Un clown con i denti aguzzi mi fissa. La mia mente si riempie di
palloncini fino a diventarne satura. Ci sono tutti i colori del creato che
coprono il buio della paura. Cominciano poi a scoppiare uno dopo l’altro,
sempre con maggior frequenza, finché non ne rimane uno, uno soltanto. Un
palloncino rosso svolazza libero. È rosso. Vedo tutto rosso. Rosso sangue, vedo
solo sangue. Sembra che però il sangue non sia mio. È vecchio, raggrumito,
viene da un passato più remoto. Non c’era sangue in quel vicolo che io ricordi,
solo violenza. E il sangue? Di chi è quel sangue? Mi sforzo di ricordare. Non
so. Non riesco a capire. La mia mente mi supera e divaga. Associazioni mentali
autonome che non Capisco. Vedo una pala. Questa è reale. Vedo davvero una pala,
si trova appena fuori la buca, piantata nel terreno. Vedo in realtà solo il
manico, potrebbe essere un palo, una mazza, ma voglio credere che sia una pala.
Voglio convincermi. Se quello strumento fosse qui al mio fianco sarei un uomo
libero, libero di riversare le mie paure in un movimento meccanico volto a
creare una via d’uscita da questo mondo oppressivo, da questo dannato inferno.
Spero che sia una pala. La speranza è ancora con me. Non sono più solo come
credevo. In questa situazione mi rallegro di poco. Un pezzo di legno di natura
sconosciuta mi ricorda il vento, l’estate sui covoni. I baci innocenti. Un
sorriso nasce e cresce sul mio viso. Mi stupisco. All’inferno sorrido. Poi il
sorriso muore. Qualcuno muore prima di me quindi.
La lucidità ormai riacquistata mi porta a guardarmi
attorno. Mi accorgo solo ora di essere completamente nudo. Il mio corpo a
contatto con la Madre. Mi accorgo solo ora che non urino da giorni. Lo stimolo
sopito sotto strati di angoscia e terrore esce allo scoperto in un attimo di
tranquillità e mi conferma che non mi svuoto da molto, troppo. Mi ruoto
leggermente sulla gamba dolorate e mi libero. Il dolore aumenta, ma la soddisfazione
di una vescica libera è maggiore. Sospiro e chiudo gli occhi. Vorrei provare ad
alzarmi ma la botta alla testa, lo scombussolamento e forse un po’ di
temperatura mi trattengono dal farlo. Poggio la testa sulla parete rocciosa e
umida. Una formica rossa esce e sembra salutarmi. Ricambio. La solitudine in un
mondo saturo di volti è dura da sopportare. Mi fermo a fissare il cielo. Non è
mai stato così azzurro. Sembra il Pacifico nei miei sogni. Forse non ho mai
guardato il cielo davvero, o almeno non l’ho mai fatto in questo modo. Quel
colore infinito, puro e misterioso per me rappresenta ora la libertà. Anelo
all’azzurro del cielo. Intanto il sole si è spostato. L’ombra sta diminuendo.
Devono essere le undici, credo. Mi assopisco.
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