FILM: Southpaw (2015)
Se andassimo a controllare la filmografia di Fuqua scopriremmo che, Trainig Day escluso, i suoi film sono sempre partiti con ottime aspettative per poi accartocciarsi su loro stessi a causa di strutture poco solide, ripetitive e raramente innovative. Questa volta il regista afroamericano decide di tuffarsi nel mondo della boxe per descrivere la caduta e la rinascita del solito pugile tormentato. Dopo l’entusiasmo iniziale la mia mente si è focalizzata su tutto ciò che avrebbe potuto decretare la cattiva riuscita di questo ambizioso e costoso progetto (viva l’ottimismo). Il sottogenere sportivo trattato è decisamente saturo di prodotti di altissimo livello quali Toro Scatenato, Million Dollar Baby, Ali e Cindarella Man, per non parlare della saga di Rocky. La struttura annunciata del film, ovvero la perdita di tutto, la caduta, per poi ottenere un’emozionante ma telefonatissima rivincita finale, inoltre conta ormai troppe forme di imitazione in vari generi e sottogeneri del cinema mondiale e non può più reggere da sola un film che non fondi anche altrove le basi per un potenziale successo. Tutto ciò si traduce in due ore di noia senza un colpo di scena che non fosse previsto dal copione standard che tutti noi abbiamo nella nostra mente, il nostro archetipo, e quando ad un film così, fondato sulle emozioni, togli la sorpresa e i colpi di scena togli anche la possibilità allo spettatore di stupirsi e di mostrarsi disponibile ad accogliere l’aspetto emotivo-empatico della pellicola. Lo spettatore medio rimane distaccato dalla storia toccante del protagonista e le scene che dovrebbero lasciare posto alle riflessione si rivelano il definitivo tonfo del progetto di Fuqua: quando il protagonista non è sul ring infatti lo spettatore medio preferirebbe pulire il water incrostato, pelare patate a tempo perso (di quelle vecchie che hanno più radici che superficie pelabile) piuttosto che continuare ad ammorbarsi con questa noia infinita. Neanche l’ottima prova dell’ormai veterano di Hollywood Jake Gyllenhaal (il buon vecchio Donnie che non sbaglia mai un colpo) riesce ad invertire le sorti di questo fallimento annunciato. Sconsigliato se non per qualche sporadico momento d’interesse. VOTO: 5
FILM: Il Centenario che Saltò dalla Finestra e Scomparve
(2013)
Un anziano signore di cent’anni (di cui solo gli ultimi di
solitudine), senza neanche accorgersene, scappa dall’ospizio in cui risiede,
ruba involontariamente una valigetta piena di soldi e comincia un lungo viaggio
in fuga dai malviventi a cui ha sottratto l’ingente somma di denaro. Questo è
solo l’incipit della commedia svedese che non riesce mai a convincere fino in
fondo. Gli Svedesi non sono certamente famosi per la loro dissacrante comicità, lo sono più per le alci, il freddo e i chewingum (ma questi potrebbero essere stereotipi, lo ammetto) e infatti il grande problema di questo film è che non fa ridere, mai. Ogni
situazione descritta sullo schermo, da quella più credibile a quella
estremamente surreale, può strappare qualche sorriso, ma poi l’atmosfera, i
tempi comici, la mimica dei personaggi e il doppiaggio obiettivamente pessimo
smorzano l’entusiasmo e frenano ogni risata che rimane come una smorfia
accennata sul volto di chi guarda. Non voglio essere così duro e critico con
questo film in quanto riconosco le enormi differenze tra la cultura italiana e
quella svedese e comprendo quindi che il problema della comicità di questo
prodotto potrei essere io stesso, io che non riesco ad empatizzare con il
personaggio principale, io che baso i miei criteri di comicità su quello che ho
visto e vedo tutti i giorni nel Bel Paese. Forse sono io. Magari un giorno
conoscerò un ragazzo svedese alto e biondo, con la barba possente e la camicia
da taglialegna, un appassionato di cinema che mi spiegherà la comicità di
questo film. Ma per ora non l’ho ancora conosciuto. Quanti stereotipi. VOTO: 5
ALBUM: The Beauty Behind the Madness (2015)
The Weeknd, ossia il fenomeno del momento. Un ragazzo di
venticinque anni che in pochi mesi, attraverso scelte stilistiche azzeccate e
qualche brano orecchiabile, ha raggiunto centinaia di milioni di views su
Youtube. Risultato ancor più apprezzabile in relazione alle visualizzazioni
ottenute da pezzi a mio parere molto più validi come gli ultimi singoli dei
Muse, senza voler scomodare artisti indie sottovalutati e sotto visualizzati, ma
rimanendo in ambito commerciale e globalmente conosciuto. Cosa dire allora dell’ultimo
lavoro di tale Weeknd (a cui manca evidentemente una lettera)? L’album in sé è
passabile, degno di nota per quanto riguarda qualche singolo, ma molto
ripetitivo e talvolta privo del guizzo che possa renderlo interessante ad un
ascolto prolungato. Dopo un inizio tutto sommato discreto, il cantante canadese
si perde in brani troppo simili, lenti e dai testi molto banali. Amore, amore e
ancora amore. The Hills convince, Can’t Feel My Face trascina, ma nulla più;
nulla di significativo per la storia della musica.
Perché dunque tutto questo successo? Perché solo ora il
pubblico si accorge di un cantautore che, a mio parere, aveva mostrato qualità
migliori e assai più singolari nei precedenti lavori? La mia risposta è “i
capelli”. Sono i capelli la chiave di tutto. I capelli uniti alle movenze, all’enorme
pubblicità su tutte le piattaforme frequentate da abituali fruitori di musica
online e Cinquanta Sfumature di Grigio, film nella cui soundtrack è presente un brano del suddetto artista. Tutto questo ha contribuito a creare un
personaggio che ha parzialmente oscurato la persona. Sento odore di manovra
commerciale, ma l’album è promosso, per ora. VOTO: 6.5
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