FILM: Burke and Hare (2010)
John Landis è uno della vecchia guardia, di quelli che facevano film per passione, di quelli che avevano qualcosa da dire e soprattutto di quelli che sapevano fare i registi. No scrittori, musicisti o politici prestati al mestiere. Un maestro che in passato ha sfornato capolavori del calibro di Animal House e soprattutto The Blues Brothers, immortale. Poi il crollo e un vuoto durato dodici lunghi anni, decisamente troppi, e infine il ritorno, con questa commedia inglese cruda e cupa. Burke and Hare non vuole essere nient’altro: niente filosofia, niente lezioni di vita, niente buonismo, solo la dura realtà di un periodo poco luminoso per la popolazione anglosassone. I protagonisti sono Pegg e Gollum, entrambi ben calati nella parte, anche se ci si sarebbe potuto aspettare di più dal Re, e la storia principale ruota attorno ai loro business legati alla vendita di cadaveri agli ospedali bisognosi. I veri problemi iniziano quando i protagonisti sono costretti a “crearsi” i cadaveri da rivendere per far fronte alle spese familiari e alla mafia. Decisamente una trama sporca che potrebbe non far pensare immediatamente alla commedia classica, e invece Landis riesce a far ridere di azioni illegali e scene assai crude al punto da portare lo spettatore a pensare di essere una persona cattiva godendo di tutta quella dissacrante ilarità (me compreso). Non un capolavoro ma un buon prodotto impreziosito da un finale che prende di mira il buonismo e gli sputa in faccia senza remore. Provare per credere. VOTO: 7
FILM: La Ragazza Del Mio Migliore Amico (2008)
Commedia americana che vorrebbe ricalcare i successi di
altri modelli più famosi, ma allo stesso tempo, sfruttando anche la presenza
nel cast del Jim di American Pie, aggiungere una componente demenziale e spinta,
legata prevalentemente al sesso, che mirerebbe ad accalappiare un pubblico
basso e per lo più giovanile alla ricerca di risate facilissime. Il risultato è
un miscuglio grumoso di già visto e di volgarità gratuite. La fotografia e il
sonoro dimostrano il discreto budget della produzione, ma questo da solo non
basta a fare un buon film, mai. Alec Baldwin cerca poi di risollevare la
pellicola attraverso un’interpretazione volutamente sopra le righe, ma non
riesce nel suo intento e anzi affonda ancor di più il prodotto. Di solito,
arrivato a questo punto della receimpressione dico che tutto sommato il film è
riuscito ad intrattenere ugualmente lo spettatore e per questo non è da
bocciare su tutta la linea, ma questa volta no. Non ci sono "ma". Non fa quasi
mai ridere e questo basta per riporlo nel cassetto degli errori di una vita. Il
mio errore è stato guardarlo. VOTO: 4
FILM: Liberi (2003)
Film low budget trovato per caso su Sky on demand che mi
ha fatto passare due ore discretamente piacevoli. Le storie narrate sono due,
parallele e collegate per alcuni aspetti: un padre di famiglia vicino alla
pensione viene licenziato a seguito della chiusura della fabbrica in cui
lavorava da anni ed è costretto a ricominciare e a riprendere il filo di una
vita scappata di mano, il figlio invece ha vent’anni e vorrebbe scappare dal
paesino in cui vive dalla nascita per conoscere il mondo, l’incontro con una
ragazza potrebbe essere la sua via di fuga, ma questa soffre di attacchi di
panico non appena sale su un mezzo pubblico. Queste due storie si intrecciano
per dare vita ad un semplice agglomerato di dramma generazionale, film
romantico e drammatico all’italiana. Le narrazione in sé non dimostra di avere
grandi guizzi degni di nota ma una divisione inusuale degli spazi incuriosisce
e mostra un minimo di coraggio. I colpi di scena sono abbastanza annunciati e
non riescono a colpire al cuore lo spettatore nonostante vari tentativi, ma ciò
che davvero mi ha colpito è la credibilità che ogni personaggio ha e che
mantiene fino alla fine. i protagonisti sono un po’ piatti, sì, ma ogni battuta
o espressione calza a pennello alla maschera che hanno dimostrato di indossare
una volta davanti alla macchina da preso. Questo è un buon esempio di realismo
all’italiana: sopperire a mancanze strumentali ed economiche con la precisione
e l’accortezza nella pochezza. Un prodotto medio da non disprezzare. VOTO: 6
ALBUM: Let Them Talk (2011)
Mi aggiravo qualche giorno fa alla Feltrinelli vicina all’università,
che ormai è diventata casa mia al punto da aver richiesto il cambio di
domicilio, quando vedo la sua faccia. Barba, occhi chiari, sorriso sornione. Gli
mancava solo il bastone ma era lui: il Dr. House, compagno di molte serate
negli anni passati. Greg (che poi si chiamerebbe Hugh ma noi continueremo a
chiamare Greg) è anche musicista e ha inciso un paio di album negli ultimi
anni. Oggi parliamo del primo, ossia Let Them Talk. Il prodotto in sé non
rispecchia molo le mie aspettative, ma probabilmente è a causa dei miei gusti
in ambito musicale. Il genere del dottore è infatti un blues-jazz molto
armonico che punta assai sul piano e sul ritmo. Le atmosfere sono quelle
giuste, i suoni anche. Il tutto é pulito e preciso, quasi chirurgico (capita la
battuta?), ma probabilmente non è il disco adatto da ascoltare in macchina la
mattina per tenersi svegli dopo aver perso il momento del caffè causa ritardo fisiologico.
Lo immagino più suonato dal vivo in un bar caldo, rosso e bordeaux, con il
palco appena sopraelevato, uno strano profumo di whiskey e donne nell’aria e i
tavolini circolari da bistrò francese molto vicini tra loro perché il suono non
si disperda inutilmente nel vuoto. Se esistesse un posto così e Greg ci
suonasse questo album probabilmente questo diverrebbe il mio preferito, ma qui
dietro il computer non rende come dovrebbe. VOTO: 6.5
Nessun commento:
Posta un commento