Il giorno era arrivato. Il mio ultimo giorno da immaturo,
almeno per legge, almeno per loro. Mi svegliai molto presto con l’ansia di non alzarmi in tempo e di ritrovarmi la commissione intera in camera per un
colloquio a domicilio. Ancora adesso ogni tanto nella notte scambio l’ammasso
di vestiti che caratterizza la sedia di un under 30 moderno per la silouette
del professore di astronomia. Ah quel professore di astronomia, quante me (ce)
ne ha fatte passare per poi non riconoscerci nelle visite successive alla
maturità. Che smemorato! Comunque mi alzai alle 7 per essere a scuola alle 11.
Diciamo che mi piace fare le cose per tempo. Doccia, shampoo, profumo, acqua, nausea, basta acqua per piacere,
rinuncerò alla colazione. Dopo aver caricato a forza una mia amica nella mia
spaziale autovettura (a forza per le ridotte dimensioni dell’abitacolo, non per
sua volontà) mi apprestai a raggiungere il luogo dell’apocalisse. Voglio essere
sincero: se le tre precedenti prove non le avevo particolarmente sentite dal
punto di vista emotivo, quel giorno ero particolarmente agitato; il fatto di
dover esporre un argomento, la possibilità di non convincere, la possibilità di
avere una sincope, quella di svenire, quella di vomitare sulla commissione.
Tutte ipotesi da tenere presente se si soffre d’ansia e io con l’ansia ormai c’ho
fatto amicizia.
Superata l’agitazione iniziale mi accorsi di essere
arrivato a scuola anche prima dei professori. Notevole direi. Arrivai così
presto da avere il tempo di entrare a vedere il primo orale di giornata (il mio
era il quarto) fingendo di essere un estraneo disinteressato (barba finta e
occhiali da sole). Il mio intento era invece quello di tastare con mano l’umore
della commissione, che, se fosse stato anche solo parzialmente negativo, avevo
già pronto un biglietto per “Altrove”, la città di Leone il Cane Fifone, quello
che vive con Giustino e Marilù. Che poi Giustino è l’italianizzazione
dell’anglofono Justin, come Justin Timberlake o Justin Bieber. Che storia! Si
vede che sto prendendo tempo per evitare di parlare del mio orale?
Non ricordo con esattezza chi fosse il torturato della
prima ora e che domande gli furono rivolte, ricordo solamente che mi stupì dei
miei evidenti miglioramenti: avrei saputo rispondere a tutto, ecco la cartina
tornasole di cui avevo bisogno. Ora ero più sicuro.
Breve recup: testa, ce l’ho, chiavetta con power point
triste (bianca e scientificamente asettica in realtà), ce l’ho, sorriso
piacione di chi sa che passerà ma lo dà a vedere poco, ce l’ho, documenti per
identificazione alla polizia dopo violenta crisi nervosa ai danni di tutti i
presenti, ce l’ho. Avevo tutto. Mi mancava forse un briciolo di maturità per
potermi definire tale, ma poi avevo tutto.
Intanto, mentre io ripassavo italiano e astronomia
insieme (che poi Astolfo va comunque sulla Luna), salì le scale un ex
professore in pensione che, dopo due chiacchiere ansiose, mi chiese il permesso
di entrare a sentire il mio orale. A questi si aggiunsero poi due amici, tre
compagni, un parente alla lontana, un bidello, un mago, un gatto, un topo e un
elefante. Non mancava più nessuno insomma. A parte gli scherzi, ricordo una
folla indefinitamente densa intonare cori da stadio alle mie spalle durante l’esame,
ma forse ho sofferto di allucinazioni in quei giorni. Il tempo passava con le
stagioni a passo di Giava e mancava mezzora alla fine dell’orale precedente al
mio quando, apparizione celeste, uscì la professoressa di matematica e fisica a
chiedere chi fosse il prossimo. Alzai timidamente la mano. Venne da me e mi
disse che quella di lettere (esterna e appassionata di cinema - ma quest’ultima
cosa non centra) avrebbe chiesto entro la fine della giornata Leopardi.
Leopardi. LEOPARDI? Il gobbo di Recanati?!? Io non sapevo Leopardi, e poi cosa
vuol dire “sapere” Leopardi? Io il mio amico Tommaso posso conoscerlo, ma come
faccio a saperlo? Via astronomia, via storia dell’arte. Solo italiano.
Cominciai a leggere, ripetere e immagazzinare dati. Tentai di tatuarmi con ago
e inchiostro bic e le date di nascita e di morte del gioioso Jack sulla mano
senza riuscirci (gli aghi mi incutono timore), ma niente, troppe
cose. Una la imparavo e tre le dimenticavo. Passai quindi ai cari vecchi
riassunti di fine capitolo - Dio li benedica. Non sapevo quindi nulla dei brani. Poi uscì il mio
compagno di classe e chiamarono me, me e tutta la squadra. Sulla porta mi fermò il professore di storia e filosofia per abbracciarmi. Esistono tanti abbracci
nella vita di un uomo, tanti. Pochi sono quelli che il tempo non dimentica,
questo è uno di quelli.
Entrai, salutai e strinsi mani a destra e a manca. Mi
sedetti con le mani nelle mani tese e feci il riconoscimento. Solite frasi di
alleggerimento del presidente tipo “Ma chi è questo giovine nella foto? Non sei
tu vero?”. Risatina ebete di circostanza, magari anche tirando su col naso che
è peggio. Era tutto pronto, dovevo cominciare a parlare. Mi recai come un
alcolista alla lim e cominciai a discorrere. Inizialmente le parole uscivano a
fatica, come quando passi una serata fuori e ci sono meno di meno dieci gradi.
Poi la mascella cominciò a sciogliersi e le parole a fluire meno
problematicamente. Arrivai ad un certo punto in cui, legato al tema dei
wormhole, avrei dovuto citare Donnie Darko, ma il fato volle che la mia mente
si svuotasse completamente in quel momento.
“E quindi troviamo il tema dei paradossi temporali anche
in… ehm, in…” panico, silenzio, panico ancora. Goccioline di sudore che
scendono già ghiacciate. Guardai il pubblico in cerca di aiuti, tipo il 50:50,
ma niente. Guardai la commissione. I cinque secondi (d’estate - ma non volevo
scriverla questa) più lunghi della mia vita. “In Donnie Darko!”. Il mio esame
era ancora in carreggiata, solo una piccola deviazione.
Finì la mia esposizione e la professoressa di lettere mi
chiese da dove volessi cominciare, ambito scientifico o umanistico? Alla
commissione dissi che era indifferente, ma dentro mi sentivo come Harry quando
si sottopone alla prova del cappello. “Non Serpeverde, non Serpeverde”, “Non
scientifico, non scientifico” e infatti cominciai dall’umanistico. Il cappello
non sbaglia.
Bene storia e filosofia, meno italiano. Leopardi. Parlai
dieci minuti ininterrottamente della vita e degli aneddoti dei gelati killer,
poi cominciarono le domande e anche i rumori dei vetri su cui mi arrampicavo.
Tutto sommato però, a parte una diatriba maligno-matrigno, italiano andò più
che discretamente. Di inglese mi chiese un argomento di quarta che
fortunosamente ricordavo e quella di arte si limitò a farmi riconoscere qualche
opera di Picasso. Tutto bene. Tutto perfetto fino ad astronomia. Dieci minuti
di un uomo sulla sessantina che cerca di far dire ad un diciottenne “Lingue di
fuoco” mimandolo a gesti mentre questo, in preda alla disperazione, butta
l’occhio qua e là in ricerca di una rivoltella, preferibilmente carica. Non
voglio dire disastro, ma quasi: un intero colloquio in cui il professore
parlava della sua materia e io intervenivo di tanto in tanto per dire qualche
parola, tipo telequiz, magari anche sbagliata. Che vergogna.
Poi arrivò fisica. Ah fisica, praticamente la mia mappa.
Avrei dovuto saperla a menadito, e invece…
“Mattia, devo dirti la verità, a me Donnie Darko non è
piaciuto”.
E qui si vede il maturando in crisi che apre la bocca senza pensare.
E qui si vede il maturando in crisi che apre la bocca senza pensare.
“È perché è difficile, si deve capire per apprezzare”
“Mi stai dicendo che non capisco di cinema? Che sono
stupida?”
“Ma noooooo. Cioè anche mia mamma non capisce”.
Fine della frittata e vergogna che sale a dismisura.
Volevo nascondermi. Poi domande sulle risposte che avevo inventato una
settimana prima e silenzi infiniti. Non sapevo rispondere, come per astronomia,
solo che almeno qui la professoressa si limitò a trattenermi un paio di minuti.
Il colloquio era finito; già lo sentivo, quel vento di
libertà che soffiava fuori dall’aula. Dopo le solite domande di rito e una
stretta di mano generale guardai la commissione e vidi uomini. Coloro che mi
avevano intimorito per un quasi un mese ora erano padri e madri, semplicemente
persone come me, come i miei genitori, che nulla avrebbero mai fatto per
mettermi in difficoltà. Paure superflue. E mentre mi allontanavo da quei banchi
sentivo catene sciogliersi e ali aprirsi al vento della vita. Quelle mura mi
sarebbero mancate sempre; quei volti, quei voti, quelle gite, quelle emozioni
condivise. Tutto, tutto già mi mancava.
Ragazzi, la maturità non conta niente. È un voto, un
numero come tanti che qualche mese dopo dimenticherete. Una passerella per i
più meritevoli e un’agonia ingiustificata per i sessantini. Quello che
ricorderete saranno gli anni passati in quel posto magico fuori dal mondo
chiamato Scuola, o casa se lo vivete nel modo giusto. Perché finché siete lì
quel posto può essere casa vostra, i professori i vostri genitori e i compagni
i vostri fratelli. Un momento che non tornerà più. E mentre mi allontanavo da
quei banchi sentivo che il termine "maturità" non faceva al caso mio. Su quella
soglia, per l’ultima volta, non potevo dire di sentirmi maturo, ma forse un po’
meno immaturo di prima sì.
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