C’era un periodo in cui Las Vegas rappresentava uno stile
di vita, quando The King cantava “Viva Las Vegas”, quando The Voice calcava i
palchi del Nevada, quando tutti credevano al sogno americano ed erano stati
convinti dalla facciata della città del peccato. Tutto sembrava fantastico:
mentre nel resto del mondo le persone erano costrette a tirare la cinghia per
andare avanti, a Las Vegas ciò non era contemplato, si vedeva solo ciò che si
voleva vedere, ossia lo sfarzo, le luci accecanti della città, i celebri
casinò, i night club, la prostituzione, l’alcool e le droghe.
Tutto ciò che
poteva essere associato al divertimento sfrenato era presente nella città più
pazza d’America, dove tutto poteva succedere; ma il Mondo cambia, le situazioni
si evolvono, mutano, e Las Vegas ha smesso di essere al passo coi tempi e ha
cominciato a soffrire di un fortissimo narcisismo. Ha cominciato a specchiarsi
e a vantarsi di un’immagine di facciata, finta, che poteva funzionare negli
anni ’50 e ’60, ma non oggi, non nel mondo evoluto in cui viviamo. Ai giorni
nostri Las Vegas trasmette solo tristezza e ipocrisia, l’emblema di una
maschera difesa dagli Americani per diversi decenni. Decaduta, sfarzosa,
barocca, vuota. Una città che aveva ospitato i più grandi artisti degli anni
’50, che aveva rappresentato un centro culturale in cui molti musicisti
potevano incontrarsi, mescolare le loro influenze e produrre nuova arte. Oggi
invece una città spiritualmente morta e finta sembra non poter più produrre nuovi
fenomeni artistici freschi, innovativi e degni di nota. Ed è proprio quando le
aspettative finiscono che dalle ceneri della città del peccato risorge la
novità, risorgono i “Killers”.
Brandon Flowers, frontman del gruppo, nel 2001 decide di
formare una rock band dopo aver assistito ad un live degli Oasis nella sua
città di origine. Contatta attraverso riviste specializzate altri tre musicisti
e dà vita al fenomeno dei Killers. Il gruppo fin da subito mostra le proprie
tendenze e ispirazioni artistiche, lo stesso Flowers infatti non perde
occasione per ricordare quanto il brit-pop e l’alternative rock britannico
abbiano influito sulla formazione musicale di ciascuno. In realtà il bagaglio
artistico della band non si limita solo ad una copia delle sonorità inglesi, ma
queste vengono abilmente fuse alla storia personale dei membri del gruppo,
ossia la città di Las Vegas, e ciò che si ricava da questa commistione di
generi molto diversi tra loro è un new wave kitsch rock elettronico, un genere
che non esiste insomma. I Killers riescono infatti a prendere la freschezza,
l’orecchiabilità, i suoni semplici e i riff di chitarra britannici e a
mescolarli con l’esagerazione, la facciata sfarzosa e le sonorità barocche
tipiche del Nevada. La novità nata dal passato.
Nel 2004 i quattro ragazzi pubblicano il loro primo album
e forse unico grande lavoro degno di lodi: “Hot Fuss”. In questo sono presenti
tutte le caratteristiche sopracitate che poi diventeranno il marchio di
fabbrica della rock band americana. Il riff elettronico che si ripete in “Mr.Brightside”, la carica del ritornello di “Smile Like You Mean It”,
l’indimenticabile linea di basso al centro di “All These Things That I’ve Done”,
la voce ovattata di “Everything Will Be Alright”. Tutti piccoli dettagli che
innalzano a dismisura il livello del prodotto, trascinandolo ad essere uno dei
migliori album d’esordio di sempre.
La novità dei Killers è stata appunto quella di non
introdurre sostanziali novità ma di reinterpretare tendenze ed influenze
passate in chiave più moderna e accessibile a tutti. Una scelta che ha poi
decretato il successo della band. Hanno scelto di rischiare e di andare oltre i
confini mentali che un’adolescenza nella fatiscente Las Vegas impone. Hanno
scelto di evolversi e andare avanti piuttosto che continuare a fregiarsi di un
passato che non esiste più. Tutto è già stato detto, tutto è già stato scritto
nella storia millenaria dell’uomo sulla Terra. L’innovazione artistica al
giorno d’oggi sta nella rielaborazione del passato e nella contaminazione tra
tendenze diverse, sta nella sperimentazione.
Troppo spesso le persone tendono a specchiarsi e a
riversare nel passato del loro paese troppe responsabilità e troppi meriti. È
più facile guardare il passato e vantarsi di quello che era piuttosto che
accantonarlo e rivolgere lo sguardo al futuro, quello che sarà; il passato è
sicuro, fermo, il futuro è incerto, pericoloso, ma è anche nostro, solo nostro.
Ciò che manca al popolo italiano è la consapevolezza che
il passato non basta, che elogiare ancora la Roma imperiale è dannoso oltre che
inutile, che continuare a calcare e sponsorizzare terreni musicali ormai aridi
porta alla morte artistica del paese, che la commedia italiana per come la
conoscevamo è morta da un pezzo e che è ora di andare avanti. Il passato esiste
ed esisterà sempre. Esso aiuta a formare artisticamente e culturalmente un
popolo, aiuta a creare una coscienza, ma non basta, non basta mai da solo.
Il futuro non è domani, il
futuro è oggi. “I got a soul but I’m not a soldier”.
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