domenica 24 luglio 2016

STRANGER THINGS - COSA ASPETTARSI DALLA SECONDA STAGIONE?

Nell’ultimo commento agli episodi conclusivi della prima stagione avevo posto l’attenzione sugli ultimi dieci minuti dell’ottavo capitolo in cui, in maniera a dire il vero un po’ raffazzonata, gli sceneggiatori hanno tentato di inserire una serie di elementi di continuità interrotta che potessero dare un senso ad una seconda stagione e che generassero un sentimento d’attesa nel pubblico. In questo articolo, dopo aver sviscerato gli elementi significativi del finale, fino alla scena della scomparsa di El, vorrei focalizzarmi sulla preparazione della seconda stagione, ipotizzando ciò che potrebbe essere dei nostri ragazzini preferiti.


Innanzi tutto la gestione della logicità temporale: riguardando l’ultimo episodio mi sono accorto del particolare montaggio di un paio di scene in successione. Se volessimo prendere in un tempo continuato, caratterizzato dalla successione naturale, le scene che ci vengono mostrate, avremmo l’azione telecinetica ultima di El antecedente al ritrovamento di Will nell’Upside down. In seguito a questo evento, veniamo direttamente trasportati all’istante in cui i genitori riabbracciano i figli scappati e Will si ritrova in ospedale con la madre e il fratello. Dobbiamo quindi presupporre che Hop, Joyce e Will siano usciti dall’Upside down attraverso un portale soltanto dopo la scomparsa di El, la quale non avrebbe definitivamente chiuso i collegamenti fisici tra le due dimensioni, ma soltanto scacciato e probabilmente ucciso il mostro che minacciava i protagonisti. Per cui, nella seconda stagione, i legami con l’alta dimensione sarebbero ancora presenti e significativi, al di là della presenza dei mostri (o del mostro) che prima popolavano il bosco negativo. Una scelta complessa, quella di voler mantenere in piedi l’elemento giustificatore del filone narrativo della prima stagione in questo modo, senza dare spiegazioni chiare, ma lasciando degli indizi nel montaggio delle scene.


Dopo la fantastica scena in cui i ragazzini si ritrovano finalmente attorno al letto d’ospedale di Will per raccontare all’amico scomparso i fantastici eventi occorsi in sua assenza, la telecamera si sposta su Hopper, incamminatosi presumibilmente sulla via di casa. Lo sceriffo viene fermato da due uomini in nero che riportano inevitabilmente il pensiero ad un’organizzazione statele, come quella del dottor Brenner. Questi uomini lo invitano a salire in macchina con loro e l’azione si sposta ad un mese dagli eventi correnti. Per capire questa scena, anche noi ci spostiamo in avanti nel tempo per vedere Hopper lasciare delle provviste e dei pancakes in una scatola di legno fissata nel bosco, probabilmente lo stesso bosco che era stato cornice degli eventi del mese precedente. I pancakes ci ricordano volontariamente una delle ossessioni di El, facendoci intendere che la ragazzina sia ancora viva e che si aggiri per il bosco. A questo punto possiamo dedurre che gli uomini in nero avrebbero assegnato a Hopper il compito di vegliare su El, lasciandola allo stato brado nella boscaglia, ma perché tutto ciò? Sorvolando sulla questione della scomparsa di El, evento che, in una serie incentrata sul paranormale, può trovare spiegazioni altre che noi non riusciremmo mai ad immaginare prima di averle viste sullo schermo, perché lasciare che una bambina, seppur dotata di poteri sovrannaturali, passi un rigido inverno dell’Indiana sola nel bosco, quando, attraverso le ricerche di Hopper e Joyce, siamo venuti a conoscenza dell’esistenza della madre di El e soprattutto della zia, decisamente più adatta ad occuparsene? Probabilmente devono esserci dei motivi per trattenere la ragazzina in zona, nello stesso luogo in cui i portali si sono aperti per la prima volta e non sono mai stati richiusi. Riflettendo sulla questione ho ipotizzato che El possa essere la chiave attraverso cui l’organizzazione statale riesca a tenere a freno le incursioni di esseri dall’altra dimensione, una sorta di tappo tra i due mondi, ma per fare ciò è necessaria la sua presenza nella zona esatta della comparsa del primo portale. L’isolamento invece potrebbe essere una scelta della ragazzina stessa, probabilmente intimorita dai suoi stessi poteri, manifestatisi nel momento della scomparsa, durante l’attacco del mostro, e per questo intenzionata a preservare l’incolumità dei suoi giovani amici e delle loro famiglie tentando di vegliare su di loro senza davvero intrattenere dei rapporti diretti con la civiltà locale.


Presa per plausibile questa teoria, ci troveremmo in una situazione di stallo abbastanza delineata, la quale potrebbe essere rotta solamente da un evento improvviso e inaspettato, un’incursione dell’altra dimensione attraverso un canale secondario e imprevisto. Per cercare di spiegare anche quest’ultimo elemento, ci viene in aiuto la sequenza finale dell'ultimo episodio, in cui vediamo la famiglia Byers riunita per celebrare il Natale. In questa circostanza, l’equilibrio venutosi a creare nelle scene ambientate un mese dopo la resa dei conti si rompe inesorabilmente nel momento in cui Will, assentatosi momentaneamente dalla cena, sputa una sorta di tentacolo che ricorda molta da vicino quello attraverso cui era stato intubato nell’Upside down, prima che Joyce e Hopper lo trovassero. Questo significa che qualcosa, di quella vegetazione viva, è ancora dentro di lui e, anche se al momento non lo condiziona nella quotidianità, potrebbe farlo in futuro. Interessante è anche la scena in cui, per qualche attimo, Will rivede le pareti del suo bagno come se si trovasse all’intero dell’altra dimensione. Questo particolare si ricollega alla necessità, espressa poc'anzi, di avere un elemento di rottura nell’equilibrio delle dimensioni, qualcosa che rompa gli schemi che avevamo ormai imparato a conoscere nel corso della prima stagione. Non so se questa presenza nel corpo di Will si rivelerà un principio di trasformazione, se faranno di lui un prototipo del mostro ma certo è che sarà il suo personaggio a portare la serie ad una seconda stagione, aggiungendo il mistero e riallacciando i rapporti tra i nostri piccoli eroi e l’Upside down. In ogni caso questo trapianto all’interno del corpo del ragazzino rapito potrebbe spiegare perché il mostro abbia scelto di non uccidere subito Will, ma di risparmiarlo, a differenza di Barb. Un interrogativo che ci trasciniamo da qualche tempo.

Stranger Things, una serie conclusa in maniera frettolosa, che potrebbe in realtà mostrare un potenziale di mistero ancora inespresso, tra nuovi portali, nuovi mostri e vecchi meravigliosi protagonisti.

sabato 23 luglio 2016

STRANGER THINGS - COMMENTO EPISODI 7 E 8

È difficile definire una serie come “Stranger Things”, o come “Lost”, o come “Wayward Pines”, o come “Flash Forward”. Potremmo dire che il comun denominatore di tutti i prodotti citati sia il mistero, che sta alla base delle premesse, sorregge lo svolgimento, ma inevitabilmente si scontra con le necessità narrative del finale di una storia, e tende quindi a scemare per lasciare posto all’azione. L’azione che sostituisce progressivamente la contemplazione scopica dello spettatore curioso. L’azione che contraddistingue le parti finali dello storie fondate sul mistero si pone come l’esplosione cinetica del potenziale accumulato: più mistero ha alimentato la costruzione del finale, più azione verrà liberata nel tentativo di riordinare un universo televisivo complicato e sconclusionato. Ma non mancano le eccezioni: talvolta il cattivo uso delle potenzialità del mistero porta le serie a subire una sorta di effetto imbuto, per cui, nell’equazione proposta, rimane uno scarto di mistero perduto, che lascia l’amaro in bocca. Qualcosa di rimasto incompiuto, che poteva trasformarsi in combustibile per alimentare un finale di portata maggiore, ma che è rimasto nel mistero. Anche Stranger Things dimostra di subire lo stesso effetto imbuto di Wayward Pines, ma in maniera decisamente più lieve, riuscendo dopotutto a restituire un doppio episodio di qualità elevata, coinvolgente, emozionante.
Queste ultime due punate hanno dimostrato la bipolarità del ritmo di questa serie: da un lato, fino al quarto episodio, una determinata densità di contenuti ed eventi significativi, dall’altro, dopo la scoperta da parte di Hopper del mistero relativo all’operato del dottor Brenner, abbiamo assistito ad una relativa diluizione della concentrazione. Il passaggio significativo del contatto tra lo sceriffo e i loschi esperimenti statali ha rappresentato il punto di svolta in cui le domande hanno iniziato a farsi risposte. Stranger Things ha retto l’urto, proponendo un ultimo episodio incentrato sulle missioni di recupero: quella di Hopper e Joyce e quella del dottor Brenner, terminate fortunatamente in maniera diametralmente opposta.


Purtroppo il ruolo dei bambini, che qualcuno sul web aveva banalmente etichettato come lo stereotipo degli eroi nei film d’avventura, è stato quello più schiacciato dagli eventi. Protagonisti di una litigata che poco ha apportato di significativo allo sviluppo della trama, Mike, Dustin e Lucas sono passati in breve tempo dall’impersonare degli spassosi investigatori dell’occulto a fare da spalla alla protagonista El, tra professori di scienze e budini al cioccolato. Vittime dell’effetto imbuto. Ad ereditare questo spirito d’avventura che per lunghi tratti ha guidato per mano la serie verso la risoluzione delle questioni più misteriose è stato il duo Hopper-Joyce, ormai consolidatisi come cacciatori di mostri, che, in cambio di El, hanno ottenuto la facoltà di tentare la disperata manovra di salvataggio di Will, nel frattempo scovato del mostro senza volto ed intubato con un tentacolo vivo. In questo frangente qualcosa è mancato a livello logico. Fino a quel momento abbiamo creduto che l’Upside down fosse un negativo del nostro mondo popolato da mostri antropomorfi senza volto. Vorrei sottolineare "mostri", al plurale. Nell’ultimo episodio invece la situazione del fronte mostruoso è apparsa abbastanza confusa. Era un solo mostro? Erano due? Abbiamo visto su schermo tutti i mostri presenti nell’altra dimensione o solo quelli che popolavano la zona del bosco limitrofo alla casa dei Byers? Perché Nancy, Jonathan e Steve sono riusciti a tenere testa ad un mostro utilizzando soltanto una rivoltella, una mazza ferrata e una trappola, mentre il corpo di agenti statali al seguito di Brenner è dovuto soccombere nonostante la dotazione militare? Si trattava dello stesso essere? Se Quindi si trattava di un solo mostro assetato di sangue, perché l’organizzazione non ha pianificato spedizioni più numerose all’interno del portale? Una serie di interrogativi che vengono spazzati via dall’exploit finale della giovane El.


Dal punto di vista stilistico invece l’ultimo episodio ha raggiunto l’apice dell’intera stagione. Ultimo episodio che io definirei “Le Luci” visto la perpetrata volontà di riprendere un elemento chiave, e tuttora ancora misterioso della serie, per sfruttarlo dal punto di vista registico e per dare un tocco di autorialità alle scene d’azione che hanno contraddistinto gli scontri finali tra le varie fazioni. Due momenti su tutti: la steadycam rotante tra i colori natalizi nell’affumicata casa Byers e le luci stroboscopiche della scuola nell’attacco dei giganti mostri, anche se in questo secondo frangente il limite dell’attacco epilettico è stato quasi sfiorato. Una scelta,quella di dare uno spazio scenico da protagonista alle luci, che ha dato personalità a dei momenti che senza avrebbero magari peccato di poca originalità.
Questo finale, tutto sommato coerente, piacevole e adrenalinico, è però purtroppo finito nel classico difetto dei finali multipli, di quelli alla “Signore degli Anelli”, per intenderci. Dopo la scomparsa di El in seguito all’azione finale che ha scacciato definitivamente il mostro, scena che io considero il vero finale della prima stagione, si sono susseguite diverse sequenze riguardanti la ripresa di Will e i momenti successivi alla fine dei mostri senza volto, fino ad arrivare alla narrazione di eventi distanti un mese dal termine ultimo delle ricerche di Joyce. Una scelta in controtendenza con l’uso dei tempi sostenuto fino al quel momento, contraddistinto da un presente lineare e un sistema di flashback atto a ricostruire un passato burrascoso. Credo che questa scelta sia stata fatta alla luce di una seconda stagione, e in quest’ottica emergono alcuni errori di scrittura che hanno appiattito l’interesse per un’eventuale, probabile seguito: limitandoci alla scena dello scontro tra El e il mostro, possiamo affermare con certezza che ogni mistero proposto era stato portato per mano ad una risoluzione accettabile, coesa con la svolta finale presa dagli eventi. In questo modo la suspance era ormai scemata, gli interrogativi risolti, la pace riacquistata. A questo punto l’errore, il voler forzatamente rimescolare le carte per andare a posizionale furbescamente le basi per una seconda stagione nel corso degli ultimi minuti utili. Gettare legna su un braciere morente. Probabilmente potrebbe attecchire ancora una fiammella, la quale potrebbe anche poi espandersi ed incendiare il mondo (l’altro), ma fondamentalmente è stata una mossa meno elegante rispetto allo stile mantenuto dagli sceneggiatori e dai Duffers nel corso di sette episodi e quaranta minuti.



Volendo fare un bilancio generale della prima stagione di Stranger Things, non è possibile affossare le immense qualità di un fulmine estivo a ciel serenissimo muovendo critiche a partire dalle ultime scelte del finale di stagione. La serie dei fratelli Duffer, figlia degli anni ’80, citazionistica, celebrativa e nostalgica, è stata la vera sorpresa di questo 2016. Un prodotto fondato sulla qualità, sulla recitazione, sul mistero abilmente giostrato e sulle fiction italiane(?). Esatto, le fiction italiane. Qualche giorno fa mi è capitato di leggere questo articolo di serialminds.com che ha scherzosamente paragonato Stranger Things ad una fiction di Rai Uno, di quelle tranquille, rilassate, in cui i cattivi non sono cattivi, davvero. Il loro intento, come esplicitamente dichiarato, non era tanto quello di denigrare aspramente la serie Netflix, di cui hanno saggiamente riconosciuto il livello, quanto quello di proporre una riflessione sull’atmosfera di Hawkins. Ciò che contraddistingue Stranger Things è la leggerezza, l’aria di famiglia, la tranquillità che quel gruppo di bambini, quella coppia improbabile, lo sceriffo burbero e la madre considerata pazza riescono a trasmettere nel caos del mistero interdimensionale. Stiamo in tensione senza mai angosciarci, respiriamo il profumo della nostra vecchia casa, ci divertiamo e soprattutto vorremmo che gli episodi non finissero mai. Perché ci stiamo bene in quella situazione, che ci ricorda un altro mondo, non alternativo, ma passato. Quello di quando eravamo più piccoli e ci piaceva immaginare, vedevamo i giocattoli prendere vita, macinavamo chilometri con le nostre biciclette e vivevamo esperienze anche oltre il paranormale, nella nostra mente, e in quella degli altri bambini che condividevano con noi un’amicizia incondizionata e disinteressata, come quella di Will, Mike, Dustin e Lucas, il vero fulcro di quest’omaggio fantastico alle nostre fantasie.



Anzi, ora che mi ci fate pensare un dubbio mi è rimasto, qualcosa che in verità non ci è stata mostrata: siete sicuri che il portale sia chiuso?

venerdì 22 luglio 2016

STRANGER THINGS - COMMENTO EPISODI 5 E 6

Stranger Things rallenta, comincia a prendere delle pause e diluisce i colpi di scena. Esempi di questo lieve cambio di rotta sono la chiamata di Hopper nel quinto episodio e la reazione di Mike contro il letto improvvisato di El nel sesto. Un leggero cambio di rotta che dà il tempo allo spettatore di assimilare gli eventi delle due puntate in questione e anche quelli rimasti in sospeso; risulta più semplice infatti interrogarsi riguardo la natura e le cause degli eventi paranormali che vengono mostrati sullo schermo. In questo modo sorgono dei dubbi propriamente logici rispetto agli eventi che hanno portato alla situazione corrente, e a questi dubbi la serie risponde con l’ormai usuale espediente del flashback in seguito ad un particolare che richiama un momento passato. Una tecnica che non spicca per originalità e probabilmente non rientra perfettamente nei canoni del tempo prefissati dalla narrazione contemporanea, ma indubbiamente corrobora la struttura della trama complessiva, andando ad espandere indietro nel tempo le fondamenta delle azioni presenti.
Questi due episodi vedono il trio di amici girare senza una precisa meta, Nancy e Jonathan sperimentare il paranormale e Hopper e Joyce proseguire la loro indagine sull’organizzazione statale retta dal dottor Brenner. I primi due casi dimostrano come in realtà le strade percorse dai vari gruppi di personaggi stiano confluendo verso un’unica direzione che prende il nome di multidimensionalità. Confermando le nostre supposizione sollevate nel precedente commento, dobbiamo in qualche modo chiarire a questione terminologica. Appare a questo punto errato continuare a riferirsi agli abitanti dell’Upside down come “alieni”. Si tratta infatti di piani paralleli, l’intracorda o l’altra faccia della corda del professore di scienze. Esseri in parte umanoidi, violenti e predatori che dominano il negativo del nostro mondo, un regno in tutto e per tutto simile, contraddistinto da una tonalità bluastra e da residui organici nell’aria. Come intuito nel quinto episodio e confermato nel sesto, El è stata, attraverso il suo potenziale telecinetico, la causa dell’apertura del portale principale che ha permesso alle due dimensioni di entrare in contatto. La bambina scomparsa, ormai ricondotta ad un presunto rapimento avvenuto dodici anni prima, sarebbe dunque la matita che ha avvicinato i fogli spaziotemporali e li ha forati, creando un collegamento diretto.


Resta però in piedi una questione fondamentale riguardo il funzionamento di queste porte dimensionali, in particolar modo legata al rapimento di Will. Nella prima puntata vediamo infatti un cambio drastico nell’atmosfera di casa Byers e non sembra esserci nessuno in casa, all’infuori del cane. La colorazione blu che domina le scene lascerebbe pensare che il ragazzino si trovi già nell’Upside down al momento del rapimento, ma, seguendo la regia dei fratelli Duffer, non siamo stato spettatori di un passaggio in una porta. Le cose si complicano ulteriormente se consideriamo il rapporto tra i cosiddetti “mostri” e le porte: la loro capacità di comparire a piacimento sembra andare contro la teoria pseudoscientifica del professore secondo cui per aprire un varco spaziotemporale c’è bisogno di un’ingente quantità di energia. A questo punto vorrei focalizzarmi sulla fisionomia di queste porte o portali, che sembrano godere di vita propria. Sono esseri organici che possono aprirsi e chiudersi a piacimento, e la loro esteriorità sembra propendere più per una vicinanza al mondo mostruoso. Come se queste porte stessero al volere dei mostri che abitano l’Upside down. Certo però che, come evidenziato nel sesto episodio, la loro capacità presenta dei limiti legati alla zona d’azione, finora confinata al bosco adiacente la casa dei Byers. Cosa si cela dietro questa limitazione palese? Forse la presenza della piccola El garantisce alle porte l’energia necessaria per aprirsi a piacimento, ma nel primo episodio, seguendo l’ordine cronologico, prima Will è stato rapito nella rimessa degli attrezzi, e poi El ha fatto la sua comparsa nella tavola calda, braccata dalla squadra di finti assistenti sociali ed elettricisti della zona. Potrebbe essere la presenza della porta “madre”, la prima ad essere stata aperta dal potere della bambina, ma ancora non mi è chiara la geografia del posto e la collocazione del laboratorio sotterraneo rispetto al bosco.


Dagli eventi narrati in questi due episodi appare relativamente chiaro il rapporto iniziale tra Brenner e i bambini dell’esperimento, gruppo di prescelti di cui El è solo l’undicesima, come indica il nome. Quello che risulta meno chiaro è lo scopo del gruppo di ricerca: certamente inizialmente il loro obiettivo era quello di sfruttare una serie di capacità sovraumane per rintracciare e tenere d’occhio specifiche personalità, ma, una volta assodato l’incontro spiacevole occorso alla ragazzina, perché continuare a tentare di stabilire un contatto con gli esseri senza volto? C’è soltanto l’amore per la scoperta a spingere l’equipe di Brenner o quest’altra dimensione negativa potrebbe conservare in sé un’energia superiore legata alla materia oscura e all’energia oscura appunto? Se ciò che non vediamo avesse un potenziale esponenzialmente maggiore rispetto a ciò che vediamo, credete che lo spietato Modine non tenti di appropriarsi di questa risorsa? Una risorsa energetiche che in qualche modo altera il normale funzionamento della corrente elettrica nel nostro mondo. Questo spiegherebbe le spedizioni suicida nell’altra dimensione attraverso il portale principale, la necessità di nascondere le prove della scomparsa di Will e la volontà di non chiudere il portale per tornare ad una situazione precedente. In questo modo i due schieramenti, quello dei ragazzi e dello sceriffo e quello del governo sarebbero opposti su tutta la linea. Uno scontro aperto che lascia molti dubbi sulle pieghe che il finale potrebbe prendere.


Piccola postilla sulle questioni amorose: in generale l’intera serie non sembra spiccare per originalità, ma per una commistione originale di costruzioni ampiamente sfruttate. In questo complesso non poteva certo mancare la componente amorosa, che  stata presente fin dall’inizio con la relazione sempliciotta tra il bullo Steve e l’innocente Nancy. In queste ultime puntate invece, come introdotto da alcuni segnali e piccoli sguardi, gli sceneggiatori sembrano aver dato spazio alla coppia Nancy-Jonathan. A dire il vero questa unione sembra, a dispetto del resto della costruzione “di contorno” davvero eccessivamente stereotipata, sia nei tempi che nelle modalità di sviluppo: lo scopo comune, i pareri cangianti, la litigata con un filo di passione  di verità, la rivalità con l’ex. Tutti elementi purtroppo eccessivamente inflazionati che, aggiunti alla trama in questa forma, non riescono ad emergere e anzi sanno di già visto, come se alcune scene fossero davvero prese da una serie tv anni ’80. Il vero twist sarebbe se quest’annunciata storia d’amore non finisse come da copione. Ancora una sorpresa prima della fine?

giovedì 21 luglio 2016

STRANGER THINGS - COMMENTO EPISODI 3 E 4

Stranger Things, creatura figlia di Spielberg e delle tenebre, comincia a stabilizzarsi su un ritmo ben preciso che affascina e lascia col fiato sospeso ogni due/tre scene. I twist narrativi sono molto ravvicinati e non lasciano allo spettatore il tempo di ragionare, di introiettare e di speculare autonomamente. È tutto un forsennato coinvolgimento in uno schema che sembra infittirsi, come una buia radura, piuttosto che diradarsi. Arrivati ormai a metà di questa sorprendente prima stagione, notiamo l’apertura di un altro fronte rispetto ai tre presentati nel primo commento, ovvero quello formato dalla strana coppia Nancy-Jonathan, accomunata dalla necessità di fare luce sulla questione aliena per ritrovare Barb e Will. Come detto in precedenza, è nell’incastro la forza di Stranger Things: la folle teoria delle luci, sostenuta ostinatamente dal personaggio di Winona Ryder, viene confermata agli occhi del figlio Jonathan da un personaggio che, da quanto ricordi, non ha mai avuto un contatto diretto con la stessa madre di Will. Una precisione notevole nella tessitura di una trama complessa e misteriosa. La teoria delle luci, forse il più grande mistero di questo doppio episodio. In che modo le luci sono collegato alla sparizione di Will, e come può questo riuscire a comunicare con la madre? Ma facciamo un passo indietro: alla luce di quanto visto nel quarto episodio, che legame fisico sussiste tra il nostro mondo e gli alieni? Attraverso gli esperimenti del team governativo gestito da Modine veniamo a conoscenza della natura dell’escrescenza organica sul muro del laboratorio. Essa è una sorta di portale tra due differenti dimensioni, probabilmente due piani irregolari, secanti in differenti punti, che sono poi quei luoghi sinistri in cui li alieni riescono ad evadere dalla loro dimensione, o il punto nel muro da cui Will riesce a rivedere la madre. Le dinamiche di questa doppia dimensione attraverso cui gli alieni riuscirebbero a spiegare anche la particolare atmosfera che si respirava nella scena del rapimento di Will, come se il mondo fosse lo stesso ma non fosse il suo, quello conosciuto, come se fosse un negativo della realtà dato da un ingresso alternativo. Le luci dunque rappresenterebbero un canale di comunicazione interdimensionale a cui ricorre il piccolo Will, ma, al contempo, le fonti luminose subiscono delle anomalie anche nel momento in cui i cosiddetti “alieni” si palesano agli umani o sono in procinto di farlo, come è successo per Will nel primo episodio e per Barb nel secondo.


A questo punto però sorge spontanea una domanda: assodato che Barb sia stata uccisa da questi esseri senza volto nelle bellissima sequenza d’apertura del terzo episodio, per quale motivo Will dovrebbe essere stato risparmiato? Come avrebbe potuto sfuggire ad una razza del genere solo con le sue forze per poi ritrovarsi a nascondersi per sfuggire a morte certa? Perché gli alieni dovrebbero rapire gli esseri umani? Non so dare una risposta a quest’ultima domanda, ma credo che un indizio per risolvere le prime due, simili questioni, debba essere ricercato nell’organizzazione dei “Bad” e nel loro forsennato tentativo di insabbiare la scomparsa di Will inscenandone una morte fittizia. Dalla sequenza in cui viene mandato un ragazzo ad esplorare l’altra dimensione, personaggio poi drammaticamente strappato dal suo cavo di salvataggio, scopriamo che l’organizzazione statale ha interesse nella ricerca su ciò che si situa all’interno del portale semovente. Essi allora potrebbero avere in Will una sorgente di informazioni dall’altra dimensione, un elemento di continuità tra due mondi utile alle loro ricerche. Altra ipotesi rivaluterebbe in parte la figura del dottor Brenner: e se invece essi stessero cercando di recuperare il piccolo Will con missioni quasi suicida? In questo modo la spedizione del ragazzo a cui abbiamo accennato sopra avrebbe un nuovo senso, ma tutto ciò striderebbe parzialmente con la volontà di nascondere le prove e di allontanare Hopper dal caso. Una situazione complessa che rivela il vero tassello mancante della serie finora, ossia i collegamenti. Se da una parte infatti abbiamo molti pezzi del puzzle, molte personalità differenti, schieramenti abbastanza delineati, quello che manca sono i legami tra i vari personaggi e le differenti situazioni in cui sono implicati. Una mancanza che amplifica la suspance e lascia libera l’immaginazione.


Come previsto, l’episodio delle foto compromettenti scattate da Jonathan ha portato a due situazioni decisamente interessanti: in primo luogo la scoperta delle figure degli alieni e quindi la conferma, come detto, delle teorie di Joyce agli occhi del figlio più grande, in secondo luogo l’avvicinamento di due personaggi differenti, che fino a quel momento di erano sfiorati solo in occasione delle parole di conforto di Nancy. Continuo a rimanere dell’opinione che l’evento alla base di questi sviluppi della trama non sia stato giustificato a dovere e che quindi questa collaborazione tra il ragazzo e la ragazza nasca con premesse tutt’altro che credibili. Nonostante si tratti di una serie incentrata sui rapimenti alieni e sugli esperimenti governativi, credo debba essere sempre mantenuta una credibilità logica. Che si traduce nella necessità che i protagonisti operino seguendo le indicazioni generate dalla domanda “Cosa farei io in quella situazione?”.


Nonostante in questo doppio capitolo non ci sia stato spazio di discussione per l’argomento specifico, perché quando si opta per un doppio commento, inevitabilmente qualcosa si perde nel prosieguo della trama, va fatto un plauso enorme alla gestione del colpo di scena conclusivo del terzo episodio. Esso arriva in un momento inaspettato, quando io personalmente mi sarei atteso il copro di Barb. Una sequenza toccante, emozionante, profonda, che si sposa alla perfezione con la cover di Heroes di Bowie scelta per la sequenza. Un pathos crescente che produce indubbiamente uno dei momenti più alti della televisione degli ultimi anni. Al livello della conclusione delle peripezie di John Tackery al Knick, ma ancora un gradino sotto rispetto al finale della terza stagione di Lost. “Not Penny’s Boat”. Charlie, ancora ti pensiamo.

mercoledì 20 luglio 2016

STRANGER THINGS - COMMENTO EPISODI 1 E 2

Stranger Things, nuova serie originale Netflix che sceglie di collocarsi in un contesto storico ben preciso per poter attingere appieno da un filone narrativo ormai (de)evolutosi, quello dei film d’avventura per ragazzi. C’è Spielberg, indubbiamente padre di quel movimento che fu con “E.T. - L’Extraterrestre” manifesto di una generazione, ma non mancano riferimenti palesi a Donner e Columbus, a Joe Dante, a Reiner e King. Un filone che ha vissuta la propria golden age proprio nel pieno degli anni ’80, tra musicassette, manubri di biciclette con nastrini, giochi in scatola e cabinati Atari. La ricostruzione storica dei fratelli Duffer è impeccabile e ricca di riferimenti spesso velati che creano quel legame di esclusività con lo spettatore attento in grado di coglierli e di stabilire quindi una sorta di dialogo divertito con gli sceneggiatori. Buona parte dell’atmosfera vintage è data però dalla scelta della colonna sonora (originale e non) e dalla sua implementazione nelle singole situazione descritte sullo schermo. Dolce e nostalgica la scena con “Africa” dei Toto nel primo episodio; coinvolgente e immersiva quella accompagnata dai “Clash” nel secondo.


Al di là dell’ambientazione, perfettamente riprodotta, la storia si presenta in maniera semplice e discretamente lineare: un gruppo di ragazzini si divide, dopo un’interminabile partita ad un gioco da tavolo, e, sulla strada verso casa, Will, il ragazzo che a prima vista sembrava più pacato, giudizioso e fedele nei confronti dell’amicizia con gli altri protagonisti, scompare in seguito ad un incontro ravvicinato del terzo tipo. Da questo momento in poi la narrazione si spacca su tre fronti: quello dei tre ragazzini rimasti che incarnano in loro lo spensierato e innocente spirito dei protagonisti dei film a cui questa serie si ispira, quello della madre di Will, dello sceriffo e delle ricerche “usuali” e quello dei misteriosi uomini collegati alla presenza aliena fin dal primo frame del primo episodio. Quando la situazione pare assestarsi su una narrazione tripartita e ordinata, seppur con delle falle volute per quanto riguarda la storia dell’organizzazione misteriosa, le carte vengono rimescolate dall’arrivo di una bambina silenziosa di nome Eleven, che scopriremo essere dotata di poteri sovrannaturali. Dal flashback nell’armadio di Mike, veniamo a sapere che la bambina è la figlia del bianco Joker, Matthew Modine (che sta portando vanti una mutazione esteriore verso la figura somma di David Lynch). A questo punto emerge una frattura anche all’interno del fronte dei “Bad”, dei “Cattivi”, che sembrano sì essere la causa dei poteri della piccola El, ma potrebbero non essere in controllo della forza aliena che si aggira per la quieta Hawkins, nonostante i loro tentativi di controllarla, o probabilmente studiarla. Sulle intenzione invece non avrei dubbi, soprattutto dopo l’uccisione a sangue freddo del proprietario della tavola calda in cui si era rifugiata la bambina dal taglio corto, soprattutto perché a farne le spese è stato l’amato Tom Cleary, autista del defunto Knick. Attraverso la stessa morte dell’uomo, fatta passare come suicidio, scopriamo di più sulla personalità dello sceriffo e i fili narrativi legati alla bambina braccata dai “Cattivi” e alla scomparsa di Will si riallacciano senza sbavature sul calare del secondo episodio. In questa minuziosa e attenta tessitura di una trama intricata e unita emerge il livello artistico di questa serie, già evento televisivo estivo. Stessa minuziosità che mi ha portato a rivalutare il ruolo di un personaggio secondario, fino a quel momento utilizzato al pari di un supporto scenico per la creazione della scenografia anni ’80. Mi riferisco a Nancy, sorella maggiore di Mike, presentataci inizialmente come lo stereotipo della ragazza casa e scuola, ma evolutasi coerentemente nel corso di appena due puntate. il colpo di scena non-visto alla fine del secondo episodio rimette anche lei sulla mappa dei personaggi interessati alla questione della presenza aliena. un’immagine statica attaccata allo sfondo che si è invece rivelata tridimensionale, in grado di spostarsi autonomamente all’interno della complessità dei fili della trama.


In relazione al resto della costruzione, pressoché perfetta, due scelte specifiche mi hanno però fatto storcere il naso: la volontà di costruire una doppia narrazione ricorrendo a flashback che ho trovato talvolta forzati e la presenza del fratello di Will nell’ultima scena del secondo episodio. In questo frangente infatti l’introduzione di questo personaggio e soprattutto le sue azione nel frangente specifico non sembrano giustificate da motivazioni reali e presumibilmente giustificabili, ma quelle foto, realizzate con una Pentax di un’altra generazione, risulteranno certamente utili allo sviluppo della trama e ciò potrebbe rappresentare, per certi versi una forzatura, una stonatura rispetta al perfetto incastro di tutti gli altri pezzi del puzzle.

Nel mondo abbiamo già prodotto molto, quasi tutto in campo artistico. Credere di realizzare qualcosa di nuovo e di originale al giorno d’oggi sarebbe forse un atto di superbia, un’ostinata menzogna senza maschera, ma riuscire a far rivivere un mondo sepolto che aveva regalato sogni ed emozioni ai ragazzi di un tempo, sostituire E.T. con una bambina di nome Eleven, questa è magia.

I primi due episodi di Stranger Things giganteggiano rispetto alla massa di serie che va a rimpinguare giornalmente il calderone della mediocrità. Emerge per qualità, scrittura, recitazione, atmosfera e soprattutto mistero, che in una struttura come quella della nuova serie Netflix d’amare è sempre al centro della questione. Cose ne è stato di Will? Cosa sono quei rumori al telefono? Cosa accade quando le luci impazziscono? In cosa consistono gli esperimenti della misteriosa organizzazione? Cosa è capitato all’amica tradita di Nancy? Chi ha ucciso Laura Palmer?


CLICCA QUI per il commento agli episodi 3-4

sabato 16 luglio 2016

ATTENTATI, TRENI, OPERE E OMISSIONI

Ogni tanto mi interrogo sul mio ruolo. Sono giovane, ho ancora diversi anni di studio davanti e un blog, piccolo. Ogni tanto mi interrogo sull’utilità di ciò che scrivo, sulle modalità e sulla profondità possibile delle analisi che cerco di proporre. Mi hanno detto scherzosamente che sarei un blogger perché scrivo sul mio blog; rimango un ragazzo giovane con ancora diversi anno di studio davanti. Però, interessandomi al mondo della cultura popolare, alla scrittura e alle modalità d’espressione di questo paese, credo di aver compreso una distinzione fondamentale tra diversi livelli di evento, o meglio diversi modi in cui noi accadiamo nell’evento. Esistono infatti realtà e situazioni con cui ci rapportiamo in maniera differente non tanto per la nostra capacità di giudizio, quanto per la portata dei fatti. Esistono realtà che comprendiamo appieno perché le viviamo in prima persona o perché non necessita di un completamento immaginativo e situazioni altre che presentano invece delle falle contenutistiche o formali, ma esse sono per loro natura aperte al confronto e alla possibilità dell’individuo di intervenire attivamente aggiungendo del proprio. A questa seconda tipologia ho associato il mio lavoro di scrittura critica sul blog: gli argomenti che tratto spesso si sposano perfettamente con la necessità che l’individuo elabori l’oggetto e, contemporaneamente di riflesso, che l’oggetto venga parzialmente rielaborato da un individuo, andando a creare un connubio che potremmo banalmente definire “interpretazione”. Esistono però altri eventi ancora che ci sfuggono quasi totalmente , che non riusciamo a comprendere perché non possiamo, perché sono troppo imponenti rispetto alla nostra mole. Sono momenti complessi, enormi e distanti dalla nostra limitatezza naturale. Limitatezza che emerge in relazione alla posizione che assumiamo e manteniamo all’interno della nostra struttura societaria. In questi casi una forma di interpretazione immaginativa è più che mai deleteria.



Nonostante ciò, gli ultimi complessi giorni sono stati un recipiente senza fondo di ideologie basse applicate a forza a circostanze lontane dalla realtà che tocchiamo con mano. Questo recipiente è stato ed è tuttora facebook, che ha dato la possibilità a tutti di esprimere opinioni su eventi che non necessitavano affatto della parola di elementi esterni per essere nella loro compiutezza, ma che spesso si nutrono dell’irragionevolezza dell’ignoranza che vuole riempire le falle delle realtà individuali con la violenza dell’opinione. La questione della libertà di pensiero è deragliata da tempo, rovesciando l’ordine del reale, manipolando la distinzione di cui parlavo poc'anzi e ponendo ingiustamente al centro il singolo individuo, che apre la bocca per parlare, la richiude e scrive. In nome della libertà di pensiero ci siamo convinti della veridicità di tutto ciò che crediamo vero. E in questo marasma di banali soluzioni ad incompresi problemi, abbiamo perso di vista l’importanza del fatto nella sua forma e nel suo rapporto mancato con l’individuo che vive la periferia della politica mondiale.

Questa nuova frontiera della disinformazione individuale e nuclearizzata è però estendibile anche ad una tipologia di politici che tenta instancabilmente di fronteggiare l’altra parte fondandosi sulla libertà di pensiero e sforando le conoscenze oggettive del momento. Un esempio recente di questa tendenza (appartenente già alla vecchia scuola, ma evolutasi col l’avvento della tecnologia, rimanendo al passo coi tempi) è lo sciacallaggio politico venutosi a creare in seguito all’incidente mortale avvenuto il tredici luglio scorso in Puglia. Incidente che è costato la vita a ventisette persone. In questo caso il MoVimento 5 Stelle non ha perso l’occasione di attribuire le responsabilità dell’incidente a Renzi, al ministro Delrio e all’attuale governo tutto con un esplicito post sulla pagina facebook del partito. In tal modo il movimento di Grillo ha approfittato delle falle di un evento complesso per saltare a piè pari l’iter naturale della disgrazia, per giungere repentinamente alla caccia al colpevole. Perché abbiamo sempre bisogno di un colpevole. Riempire le mancanze di informazioni tragiche con dati economici e speculazioni tendenzialmente faziosi per cavalcare l’onda del fenomeno mediatico è una pratica becera e deplorevole, specialmente quando messa in atto da un aggregazione che dovrebbe spingersi al di là delle limitazioni dei singoli in virtù della differente qualità delle informazioni pervenute e della posizione occupata nella macchina statale.
Se questa mossa politica bassa, fondata sulla libertà d’espressione, ha avuto però un senso, seppur maleodorante, volto ad attaccare l’elettorato di centrosinistra per convertirlo alla causa grillina, ben più esemplificativa è stata la risposta della comunità virtuale alla strage di Nizza. Migliaia di comizi deserti, tutti simili, tutti rabbiosi, imbruttiti e propensi a soluzioni drastiche. Tutti violenti verso una realtà sfuggevole che ci colpisce e scappa. In questo il terrorismo si differenzia da problematiche che sentiamo in toto lontane dai nostri lidi: nel caso degli attentati percepiamo di essere sì coinvolti in prima persona, vista la vicinanza geografica e culturale dei luoghi colpiti, ma allo stesso tempo qualcosa manca nel nostro puzzle mentale per riuscire ad avere una visione chiara e distinta della situazione attuale. Questa opacizzazione della vicinanza, questa sorta di astigmatismo dell’informazione, non scoraggia però i più, sempre pronti ad aggiungere, a ribellarsi nelle parole di un post per debellare definitivamente l’annosa piaga del terrorismo. Sempre pronti a dire "basta" per qualcosa che non comprendono e di cui hanno enormemente paura. Pronti ad assalire verbalmente un credo religioso, pronti a proporre soluzioni drastiche per annientare completamente una civiltà, pronti a cacciarli via tutti in nome della pace e del futuro, pronti alle bombe. Sempre pronti a tirare in ballo la mistica Fallaci, che aveva ragione su tutto.



In un'intervista pubblicata su The New Yorker nel maggio 2006, la Fallaci si dichiarò indignata per la costruzione di una moschea Colle Val d'Elsa dichiarando: «Se sarò ancora viva andrò dai miei amici di Carrara, la città dei marmi. Lì sono tutti anarchici; con loro prendo gli esplosivi e lo faccio saltare per aria. Non voglio vedere un minareto di 24 metri nel paesaggio di Giotto, quando io nei loro paesi non posso neppure indossare una croce o portare una Bibbia. Quindi, lo faccio saltare per aria!».

“Quando io nei loro paesi non posso neppure indossare una croce o portare una Bibbia”. È questo rabbioso livellamento verso il basso della chiusura che accomuna gli individui incapaci di fronteggiare la realtà superiore senza invadere i vuoti che inevitabilmente si vengono a creare.
Qual è dunque la soluzione a tutto ciò, ai conflitti, al mondo di ingiustizie, alle morti innocenti che continuiamo ad esperire? Non lo so, non me la invento. Non posso saperla. Non sono neanche un blogger, pur avendo un blog, come potrei avere una soluzione da questa posizione defilata? Accetto la mia limitatezza conoscitiva, riconosco le falle di questo mondo, ma non le riempio e fortifico con giudizio violento. Le lascio essere vuoti. Cosa possiamo fare allora noi, periferia della democrazia? Dobbiamo continuare ad indignarci, a prendere a cuore le situazioni critiche del mondo senza voltarci, lasciare che questi giorni lascino il calco e pensare che le bombe intelligenti che un giorno cadranno sulla terra arida del Medio Oriente e sulle scuole non saranno mai la fine, solo la morte, con la quale l’ideologia vive. E continuare a sperare, che la speranza, nell’indignazione e nel tetro disappunto, è l’ultima cosa che ci resta prima del baratro dell’odio. E quando sentirete ancora l’impulso irrefrenabile di scrivere nel nuovo parlamento dell’agorà di facebook che il corano incita alla guerra, che l’Islam è una religione da fronteggiare, che dovremmo bombardare il mondo per portare la pace, ricordatevi di non sapere. Che non potete sapere. Non lasciatevi trasportare dai castelli erranti d’odio eretti dai personaggi che popolano la scena aperta del nuovo millennio, ma rimanete in silenzio. Ricordando, sempre.

giovedì 14 luglio 2016

TRAUMI INFANTILI - SAW E LE MARATONE HORROR

Eravamo rimasti a quella volta che tentammo di vedere il nostro primo horror al cinema e finimmo a guardare quella lacrima strappa storie di Twilight, ma badate bene: “il primo horror al cinema”. Perché all’epoca non ero nuovo al genere: tutte le estati infatti io e mio cugino (di ben cinque anni più grande, ma non li dimostra - fidatevi) eravamo soliti trovarci a casa sua per guardare anche tre o quattro film di genere dal dopocena fino a quando ci reggevano gli occhi. Spesso però ci si ritrovava a vedere teen slasher, film di serie b in cui il sangue sembra davvero succo di pomodoro (passato anche maluccio, con tutti i grumi e i semi) o classici che fondavano l’orrore sulla tensione piuttosto che sul gore-splatter. Quella notte però le cose andarono diversamente.


Eravamo sempre nella stessa location, casa sua, in periferia. Variabile variata della serata: i suoi genitori erano usciti a cenare fuori. Eravamo completamente soli, ma nonostante ciò, data l’elevata temperatura di quell’ennesima estate torrida meridionale, tutte le finestre e le portefinestre che davano sui balconi di quel quinto piano condominiale erano spalancante. Diversamente dal solito ci accampammo sul divano blu fuori dalla cucina. Un divano rivestito di cotone, invecchiato male. Portammo fuori il carrello con la televisioni e svariati dispositivi elettronici tra cui un nuovo lettore DVD e… guardammo “La Maschera di Cera”. Un film un po’ inguardabile che fonda tutta la sua appetibilità su Paris Hilton come protagonista indiscussa. E quando la parte migliore di un film è Paris Hilton immaginate il resto. Guardammo quindi quell’orrore (e non mi riferisco al genere) un po’ distratti, un po’ annoiati. Era ancora quel periodo florido in cui si stava meglio quando si stava peggio, e avevamo il Nokia 6630 con un paio di giochini, ma nulla più. E quando ci si sedeva a vedere un film ci si concentrava più facilmente sullo schermo, senza distrazioni di sorta che non fossero i pensieri, o il rumore del mare. Finito il primo film ci eravamo spaventati poco, e cos’è una serata horror senza stizza? Decidemmo quindi di scegliere dal mobile in soggiorno un altro film da vedere insieme, in attesa del ritorno dei miei zii. L’occhio ci cadde su una mano mozzata su inquietante sfondo bianco. Tre lettere: Saw. Ne avevamo sentito parlare molto, era uscito forse da un paio d’anni appena e quella copertina minimalista non prometteva nulla di buono.

“Che ne dici di questo?”
“Mmm, ma secondo te fa paura?”
“Boh, ma ci sta il sangue penso. Almeno quello”
“Eddai mettilo!”

Inserimmo il DVD nel lettore e l’atmosfera cambiò radicalmente. E con l’atmosfera il nostro spirito, che da disinteressato e annoiato si fece prima ansioso, poi spaventato, poi terrorizzato. Più il film proseguiva in quella lurida e candida camera, più nelle nostre menti il mondo cominciava ad assumere altra forma. Ciò che prima ci era familiare e consono ora ci inquietava, ci colpiva e ci asserragliava il respiro. Cominciammo a sentire brusii di fondo provenire dalle camere più lontane, cominciammo ad avvertire dei rumori inquietanti e sospetti che, nella nostra mente, potevano essere associati solo a dei passi leggeri di qualcuno che non conosce il luogo e vuole evitare di essere percepito. Il fruscio della corrente che scorreva da una parte all’altra della casa fece cadere qualcosa, e noi sobbalzammo in preda al panico. Per noi qualcuno si aggirava in casa indisturbato. Qualcuno che probabilmente era entrato da una finestra. Si era calato dal soffitto, si era arrampicato dal piano inferiore o aveva raggiunto il balcone che collegava le camere da letto con un balzo dalla finestra che dava sulle scale condominiali. Ciò che non sapevamo era il come, ma eravamo certi della presenza di un uomo, magari armato, magari armato di sega per mozzare. Il film intanto volgeva al termine, tra specchi e morti che rivivono; noi però eravamo ormai atterriti. I genitori di mio cugino non si vedevano ancora e l’unica cosa da fare per noi era andare a controllare e sperare che non fosse nulla, che fosse stato tutto frutto della nostra immaginazione. Dovevamo ricolonizzare quella parte di casa rimasta buia, abitata dall’uomo con la sega e da tutti quei rumori percepiti in lontananza. Dovevamo incamminarci e fare l’ultimo gesto che ci avrebbe consentito di rivivere quel posto: accendere tutte le luci. Dovevamo assolutamente, anche perché io dovevo andare urgentemente in bagno, il quale si trovava esattamente dall’altra parte della casa.


Ma chi sarebbe andato? Il cugino quindicenne padrone di casa o il bimbo ospite di appena dieci anni? Risposta esatta. Il bimbo. Fui io ad essere mandato un po’ a forza a salvare la casa dall’uomo e il mondo dalle forze del male. Mi avventurai, titubante. Con una gamba rivolta all’orizzonte ed una già caricata a molla per scattare nuovamente verso il balcone della cucina. Arrivai con passo felpato nei pressi del bagno quando vidi qualcosa muoversi nel vento, un movimento impercettibile ma reale. Corsi come un forsennato con la coda tra le gambe e il cuore a mille verso il balcone e ripresi ansimante la mia posizione, con lo sguardo verso il buio.

Eravamo spacciati. Attendevamo inesorabile una comparsa sull’uscio del balcone, quand’ecco un rumore, stavolta nitido: una chiave nella porta. Sono tornati a casa. È il momento di accendere la luce. E di andare in bagno.

martedì 12 luglio 2016

LET ME SING YOUR BLUES AWAY

Ricapitoliamo alcuni eventi importanti degli ultimi giorni, per i più distratti o semplicemente per rinfrescare la memoria:

5 luglio: Alton Sterling, afroamericano, dopo essere stato immobilizzato, viene ucciso dalla polizia di Baton Rouge, in Lousiana.
6 luglio: Philando Castile, afroamericano, viene ucciso dalla polizia mentre tira fuori dalla tasca il portafogli a Saint Paul, in Minnesota; la moglie riprende la scena e pubblica il video su Facebook.
7 luglio: Micha Johnson, afroamericano, uccide cinque agenti di polizia al termine di una manifestazione di protesta.


Senza entrare nel dettaglio di questi episodi, appare chiaro che la situazione negli States è piuttosto tesa. E non è affatto semplice per noi europei comprenderla appieno. Perché per quanto i recenti fatti di cronaca nostrani siano altrettanto preoccupanti, mettono in luce due tipologie di razzismo ben diverse. La comunità afroamericana è da generazioni parte degli U.S.A., rappresenta più del 12% della popolazione e inoltre questi omicidi sono stati compiuti da forze dell’ordine e avvengono in un paese in cui le armi le compri praticamente al supermercato. Forse l’unico punto di contatto tra i due contesti è il rifiuto da parte di una consistente fetta di popolazione, del “politicamente corretto”. Che di per sé sarebbe anche un’idea comprensibile, se fosse portata avanti con cognizione: Ricky Gervais e Vittorio Sgarbi sono politicamente scorretti, Trump e Salvini sono razzisti. C’è una bella differenza.
Ma come dicevo, al di là di queste analogie, i due fenomeni sembrano molto differenti e se già è complicato per un bianco americano addentrarsi nella cultura afroamericana e nelle sue contraddizioni vere e apparenti senza pregiudizi e senza ingenuità, è ancora più difficile per chi non vive nel paese dell’aquila calva.



In nostro soccorso giunge come suo solito la musica, che come spesso accade riflette la realtà più di quanto non facciano immagini e discorsi. Da quando sono accaduti questi episodi c’è stato un proliferare di canzoni sul tema pubblicate da artisti americani e non, afroamericani e non. Quello che colpisce è la qualità sorprendente di queste registrazioni, presumibilmente scritte, arrangiate e prodotte in pochi giorni se non ore. Tutto ciò dimostra quanto grande sia il coinvolgimento emotivo di alcuni artisti, in questo caso più che mai di alcune persone, in queste vicende. Emblematiche sono state le lacrime di commozione versate da Miguel durante un concerto di qualche giorno fa. Il cantante americano era impegnato nel tour di promozione del suo ultimo album, Wildheart – uno dei lavori più interessanti del 2015 nel panorama r&b che non ha ricevuto tutta l’attenzione che meritava, recuperatelo se ve lo siete perso – e ha colto l’occasione per dire la sua in un discorso particolarmente sentito. Discorso che ha poi rimodellato nella forma di canzone in How Many. In realtà la versione che è stata resa pubblica è How Many ruff 1, in quanto il pezzo è ancora una demo e verrà aggiornato ogni settimana man mano che il lavoro procede. Ma già in questa versione “grezza” promette di essere un grande pezzo.


Come era prevedibile è proprio l’ambiente della musica afroamericana, r&b, hip-hop e soul ad essere particolarmente attento alle tematiche legate al razzismo, difatti molti dei pezzi pubblicati arrivano proprio da queste scene. In queste situazioni diventa anche difficile per chi ascolta distinguere tra artisti che scrivono spinti da un sentimento sincero e quelli che cavalcano l’onda mediatica. Gli stessi artisti ne sono ben consci e qualcuno ha tenuto a precisarlo. Tra questi Boogie, rapper della scena di Compton, che ha pubblicato sul suo canale SoundCloud Hypocrite Freestyle, un freestyle appunto, che tra le altre cose campiona una frase della moglie di una delle vittime dei recenti avvenimenti. In perfetta coerenza con il modo di porsi degli artisti hip-hop, spesso controverso, il testo è decisamente più duro e si schiera senza tanti giri di parole, attaccando quella parte della polizia responsabile delle azioni violente ma anche la parte che rimane in silenzio di fronte ad esse. Canzoni come questa sono un’ulteriore dimostrazione di quanto sia complesso avere una visione d’insieme di questi fenomeni e contesti (fino ad ora l’analisi più interessante ed esaustiva che ho trovato è quella fatta da David Foster Wallace e Mark Costello in Signifying Rappers, Il rap spiegato ai bianchi nella traduzione italiana, che è uno dei più bei libri di musica che io abbia letto).


Ad avere un’idea il più possibile imparziale sono stati i My Morning Jacket. Anche loro utilizzando SoundCloud hanno sorpreso il pubblico condividendo una traccia inedita, Magic Bullet. Il pezzo musicalmente non ha davvero nulla a che vedere con i loro ultimi lavori in studio ma è molto orecchiabile nel suo incedere monotono ma non per questo non coinvolgente. Il cuore della canzone è il testo, ben scritto, che riesce ad esprimere concetti dati troppo spesso per scontati senza scadere nella retorica e conservando quel tocco di poesia capace di renderlo memorabile.


Non sono stati ovviamente questi gli unici esempi di artisti e che hanno voluto dire la loro con gli strumenti (letteralmente) a loro disposizione: anche personaggi decisamente più celebri come Ariana Grande e Jay-Z si sono espressi tramite canzoni o playlist create ad hoc. Quello che traspare da canzoni come queste o da lavori più complessi pubblicati negli ultimi tempi come To Pimp A Butterfly non è tanto la volontà di fare politica tramite la propria arte, nessuno di questi artisti si illude che la musica possa avere un ruolo attivo nel cambiamento, ma è il tentativo di raccontare le realtà, le persone e le emozioni, facendole arrivare il più lontano possibile. E la musica è senza dubbio il modo migliore.


Marsha Bronson  



venerdì 8 luglio 2016

TRAUMI INFANTILI - TWILIGHT

L’uomo cerca sempre di spingersi oltre i limiti della società per sentirsi vivo e attivo. Sfidare il proibito, accogliere la perversione. In quell’autunno del 2008, noi giovani compagni delle medie decidemmo di essere cresciuti abbastanza, decidemmo fosse l’ora di vedere il nostro primo horror al cinema. Perché, quando hai tredici anni, i film horror sembrano il massimo della trasgressione: sfidi i genitori, sfidi le limitazioni. Da fuori stai andando a vedere un paio di porte che si muovono col vento, ma dentro ti pare di sfidare il mondo intero. Già mesi prima avevamo tentato di entrare al cinema per vedere Rec (capostipite dei film girati a mano che "Hardcore!" levati proprio) ma eravamo stati fermati sulla soglia dal bigliettaro perché ci volevano almeno quattordic’anni, e allora avevamo ripiegato su Jumper, che ci sta Luke Skywalker che jumpa, appunto, e si sposta nello spazio. Non lo so. Un po’ X-Men e un po’ trashata, ma una trashata con Samuel L. Jackon. Ma non perdiamoci: dicevamo del nostro secondo tentativo. Era ancora il periodo in cui internet c’era, ma noi si preferiva fare le cose su carta, e allora un giorno uno del gruppo di amici portò a scuola il volantino del cinema che gli aveva procurato il fratello più grande. E lì, tra spiritosissime frasi scritte sul diario dei compagni e palle di carta infuocate che volavano per la classe, decidemmo di andare a vedere l’horror del momento: “Twilight”.



“Oh ma com’è secondo voi?”
“Boh, ma qua dice che ci sono i vampiri”
“E i licantropi pure”
“Dai allora deve essere il massimo. Dai, andiamoci”

Il tempo di mettersi d’accordo con i genitori, che quello era ancora il periodo in cui mamma e papà ti scarrozzavano in giro. E se eri fortunato tornavano a casa durante il film e ti venivano a prendere dopo, se invece c’avevi i genitori ossessivi e asfissianti, ti aspettavano fuori dal cinema per due ore. E poi ci sono quelli che i genitori entravano a vedere il film con il figlio e gli amici del figlio che tanto “Ci mettiamo due file dietro, non ci vedete neanche”. Ma di quei genitori non voglio parlare. Ci vorrebbe la galera.

Boh

Ci recammo quindi al cinema divisi in tre macchine - perché i grupponi delle medie sono sempre sostanziosi - ma con lo stesso spirito d’avventura. La stessa irrefrenabile voglia di saltare sulla poltrona del cinema per la comparsa di un abominevole licantropo con la bocca imbrattata del sangue di giovani vittime innocenti. C’avevamo la tensione per la tensione che c’aspettava.
Poi cominciò il film, e finirono le nostre speranze. Immagino non ci sia bisogno che mi dilunghi. Virilità a mille, cagnolini a petto nudo, silenzi infiniti tra i boschi, sguardi bassi, espressioni senza espressività e vampiri sbrilluccicosi. Passammo due ore ad attendere che il film ingranasse, che si entrasse nel vivo dell’azione, che cominciasse a scorrere un po’ di sangue, ma morimmo nell’attesa. E uscimmo dal cinema confusi, indecisi sul proferir parola, convinti di aver sbagliato sala. Uscimmo e ci guardammo in faccia. A tredici anni vivi quel periodo in cui esporsi è difficile e uscire con la testa fuori dal guscio dell’opinione condivisa è utopia. E si ascoltava tutti i Guns n’ Roses, anche se avevano già vent’anni. E quindi nessuno riuscì a dire sul momento quanto quell’abominio di film gli avesse tolto la voglia di vivere nelle precedenti due ore, ma concludemmo che forse non era il massimo. Poi chissà, magari i seguiti.
Solo dopo l’uscita del film scoppio inarrestabile il momento di gloria dei libretti di Stephenie Meyer e conseguenti fan fiction (leggi “Cinquanta Sfumature di”), e solo dopo noi potemmo esternare tutto il nostro rancore per quel film che un po’ ci traumatizzò per non averci traumatizzato. Che quando attendi il peggio, è lì che il peggio ti sorprende.

Ma quanto spaccavano i Guns?

giovedì 7 luglio 2016

DONNA

Mi stringi i seni
Ed io son gravida di tutte le dolcezze esistenti
Il mio volto è bianco, tu sei il mio sole.
Ti dono le mie cosce
Un regalo che non lo è ,
mi restituisci tutto
le mani,
la vita.
Il divino mi cinge i fianchi
e nasce bellezza.
Le tue mani sono il vento
le tue mani sono già impresse nel mio cuore
le tue mani le ricorderò nelle sere fredde e sole
e le terrò a mente per sentirmi felice.


Amore mio
sei il mio dio
vivo per te
nella salvezza di una vita eterna che mi doni.
Sono
nelle tue mani
che ora mi stringono i seni
che ora mi danno dei frutti
che ora
divine
mi uccidono.



Sara

domenica 3 luglio 2016

IL TEMPO DELLA MATURITÀ

Gli esami stanno volgendo al termine. Gli esami di quest’anno, di questa sessione, di questa maturità. Ricordo la mia maturità come fossero passati appena due anni, e invece ne sono passati appena due: era l’estate del 2014 e fu un’esperienza totale, un segno che resta. Resta così forte che ogni anno mi interesso nuovamente all’ambiente scolastico durante il periodo degli esami per sentire ancora quell’odore familiare, rivedere quelle facce tese, quelle teste calde, riprovare quelle emozioni che un esamino facile facile come Filosofia Teoretica B non dà. Potrebbe essere un discorso retorico, di quelli alla “Si stava meglio quando si stava peggio”, ma l’età che avanza, gli acciacchi del tempo mi portano sempre più spesso a fare questi pensieri nostalgici e malinconici che mi scende la lacrimuccia ogni volta.


Ogni anno quindi ricapito in mezzo a giovani ragazzi e ragazze nel pieno del loro esame di maturità. Li osservo, mentre gridano, si strappano i capelli, organizzano viaggi della maturità che forse faranno come premio, forse come via di fuga dalle ire dei genitori. Che sono sempre irosi in questo periodo, sarà il caldo. Li osservo e mi chiedo: “Com’ero io, com’eravamo noi in quel momento della nostra vita?
Ci hanno sempre detto che un tempo che fu i giovani erano più maturi, interessati alla politica, impegnati nel sociale. Ci hanno ripetuto che loro sì che erano pronti ad “entrare” in società, ad entrare nel mondo del lavoro, a produrre e ad essere il loro prodotto. Erano in procinto di diventare, delinearsi ed essere. E per certi versi questo discorso si sposa coerentemente con lo “slittamento dell’età” a cui abbiamo assistito in questi ultimi decenni, in seguito alle innovazioni tecnologiche e ai progressi in campo medico che hanno alzato notevolmente l’età media della popolazione. Tutto filerebbe liscio, tutto potrebbe essere specchio di una trasformazione sociale e generazionale imponente; tutto perfetto, se non fosse per un leggerissimo e insignificante particolare personale: quando ricapito a guardare un esame di maturità mi sento sempre meno maturo del candidato, nonostante siano passati due anni dal mio momento. Credo di essere meno maturo ora rispetto a loro, nonostante qualche anno di differenza, e credo che il mio io di due anni fa sia lontanissimo dallo standard di maturità dei maturandi contemporanei. E quindi perdo sempre, sia da un lato che dall'altro. Vuoi vedere che alla fine sono io il punto più basso della curva?


Si dice che l'età sia solo un numero, e che non esiste più la mezza stagione - no aspetta, l'ultima non c'entra. Ma forse non è l’età, non è il tempo, la cronologia che viviamo e i traumi che ci segnano, ma un’interpretazione dell’età. Forse tutto dipende da come noi crediamo di vivere un determinato momento della nostra vita. Il peso che gli attribuiamo, le responsabilità che crediamo esso abbia nel tempo perduto. E forse allo stesso modo qualcun altro avrà scorto in me una maturità inaspettata in un gesto meccanico che faceva parte del momento, inquadrato nell’immagine di una prova di umanità cresciuta. Ma tutti tendono a viversi dando meno tempo al tempo, pesando diversamente la prossima esperienza, continuando a fingersi neonati dentro per mentire ad uno specchio e al mondo che gira inesorabile, per contrastare i granelli fini che riflettono la luce della luna nella fine del nostro istante di eternità. Ci vediamo immaturi per darci il tempo di realizzare la finitezza della vita e delle possibilità che ci investono, ci passano, ci sorpassano e non ci aspettano mai; e credere di essere ancora in tempo ci dà l’illusione che quelle occasioni ripasseranno, che tornerà il tempo nell’eterno ritorno. Ma ogni esperienza ci raggiunge diversa in sé e in noi, e ogni granello di quella clessidra dorata mostra nuova facce, nuovi spigoli, calamità.
Non tutto si traduce, però, in una disfatta tremenda dell’uomo: l’immaturità dell’eternità, contemporaneamente alla chiusura di un mondo differente da quello in cui siamo cresciuti, mantiene aperte le porte di una diversa sensibilità, di un diverso approccio illuso alla vita. Che un giorno si frammenterà sotto i colpi del giorno, ma intanto tiene il cuore in ascolto del cuore chiuso degli altri. e forse questa perdita di tempo vitale vale più di mille impegni, comizi, credenze distratte.
Non siamo forse maturi fin quando non vogliamo affrontare la realtà della limitatezza temporale dei nostri giorni, finchè non ci accorgiamo di avere la necessità di lasciare qualcosa di noi in questo mondo e mettiamo da parte le forme del pensiero per essere davvero. Ma quel giorno, il giorno in cui si cresce, qualcosa del sogno muore con la nostra infanzia perduta, che non stava al tempo e non si preoccupava di starci. Che quella maturità alla fine la presi, ma non è che la volessi poi tanto. Che restare immaturi è motivo di vanto.

E non è avere vent’anni
E non è avere gli esami
Fidati è qualcosa in più
Fidati è qualcosa in più