L’uomo cerca sempre di spingersi oltre i limiti della
società per sentirsi vivo e attivo. Sfidare il proibito, accogliere la
perversione. In quell’autunno del 2008, noi giovani compagni delle medie
decidemmo di essere cresciuti abbastanza, decidemmo fosse l’ora di vedere il
nostro primo horror al cinema. Perché, quando hai tredici anni, i film horror
sembrano il massimo della trasgressione: sfidi i genitori, sfidi le
limitazioni. Da fuori stai andando a vedere un paio di porte che si muovono col
vento, ma dentro ti pare di sfidare il mondo intero. Già mesi prima avevamo
tentato di entrare al cinema per vedere Rec (capostipite dei film girati a mano
che "Hardcore!" levati proprio) ma eravamo stati fermati sulla soglia dal bigliettaro
perché ci volevano almeno quattordic’anni, e allora avevamo ripiegato su Jumper,
che ci sta Luke Skywalker che jumpa, appunto, e si sposta nello spazio. Non lo
so. Un po’ X-Men e un po’ trashata, ma una trashata con Samuel L. Jackon. Ma non perdiamoci: dicevamo del nostro
secondo tentativo. Era ancora il periodo in cui internet c’era, ma noi si
preferiva fare le cose su carta, e allora un giorno uno del gruppo di amici
portò a scuola il volantino del cinema che gli aveva procurato il fratello più
grande. E lì, tra spiritosissime frasi scritte sul diario dei compagni e palle
di carta infuocate che volavano per la classe, decidemmo di andare a vedere l’horror
del momento: “Twilight”.
“Oh ma com’è secondo voi?”
“Boh, ma qua dice che ci sono i vampiri”
“E i licantropi pure”
“Dai allora deve essere il massimo. Dai, andiamoci”
Il tempo di mettersi d’accordo con i genitori, che quello
era ancora il periodo in cui mamma e papà ti scarrozzavano in giro. E se eri
fortunato tornavano a casa durante il film e ti venivano a prendere dopo, se
invece c’avevi i genitori ossessivi e asfissianti, ti aspettavano fuori dal
cinema per due ore. E poi ci sono quelli che i genitori entravano a vedere il
film con il figlio e gli amici del figlio che tanto “Ci mettiamo due file
dietro, non ci vedete neanche”. Ma di quei genitori non voglio parlare. Ci vorrebbe
la galera.
Boh |
Ci recammo quindi al cinema divisi in tre macchine - perché
i grupponi delle medie sono sempre sostanziosi - ma con lo stesso spirito d’avventura.
La stessa irrefrenabile voglia di saltare sulla poltrona del cinema per la
comparsa di un abominevole licantropo con la bocca imbrattata del sangue di
giovani vittime innocenti. C’avevamo la tensione per la tensione che c’aspettava.
Poi cominciò il film, e finirono le nostre speranze. Immagino
non ci sia bisogno che mi dilunghi. Virilità a mille, cagnolini a petto nudo,
silenzi infiniti tra i boschi, sguardi bassi, espressioni senza espressività e
vampiri sbrilluccicosi. Passammo due ore ad attendere che il film ingranasse,
che si entrasse nel vivo dell’azione, che cominciasse a scorrere un po’ di
sangue, ma morimmo nell’attesa. E uscimmo dal cinema confusi, indecisi sul
proferir parola, convinti di aver sbagliato sala. Uscimmo e ci
guardammo in faccia. A tredici anni vivi quel periodo in cui esporsi è
difficile e uscire con la testa fuori dal guscio dell’opinione condivisa è utopia.
E si ascoltava tutti i Guns n’ Roses, anche se avevano già vent’anni. E quindi
nessuno riuscì a dire sul momento quanto quell’abominio di film gli avesse
tolto la voglia di vivere nelle precedenti due ore, ma concludemmo che forse non
era il massimo. Poi chissà, magari i seguiti.
Solo dopo l’uscita del film scoppio inarrestabile il
momento di gloria dei libretti di Stephenie Meyer e conseguenti fan fiction
(leggi “Cinquanta Sfumature di”), e solo dopo noi potemmo esternare tutto il
nostro rancore per quel film che un po’ ci traumatizzò per non averci
traumatizzato. Che quando attendi il peggio, è lì che il peggio ti sorprende.
Ma quanto spaccavano i Guns?
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