mercoledì 20 luglio 2016

STRANGER THINGS - COMMENTO EPISODI 1 E 2

Stranger Things, nuova serie originale Netflix che sceglie di collocarsi in un contesto storico ben preciso per poter attingere appieno da un filone narrativo ormai (de)evolutosi, quello dei film d’avventura per ragazzi. C’è Spielberg, indubbiamente padre di quel movimento che fu con “E.T. - L’Extraterrestre” manifesto di una generazione, ma non mancano riferimenti palesi a Donner e Columbus, a Joe Dante, a Reiner e King. Un filone che ha vissuta la propria golden age proprio nel pieno degli anni ’80, tra musicassette, manubri di biciclette con nastrini, giochi in scatola e cabinati Atari. La ricostruzione storica dei fratelli Duffer è impeccabile e ricca di riferimenti spesso velati che creano quel legame di esclusività con lo spettatore attento in grado di coglierli e di stabilire quindi una sorta di dialogo divertito con gli sceneggiatori. Buona parte dell’atmosfera vintage è data però dalla scelta della colonna sonora (originale e non) e dalla sua implementazione nelle singole situazione descritte sullo schermo. Dolce e nostalgica la scena con “Africa” dei Toto nel primo episodio; coinvolgente e immersiva quella accompagnata dai “Clash” nel secondo.


Al di là dell’ambientazione, perfettamente riprodotta, la storia si presenta in maniera semplice e discretamente lineare: un gruppo di ragazzini si divide, dopo un’interminabile partita ad un gioco da tavolo, e, sulla strada verso casa, Will, il ragazzo che a prima vista sembrava più pacato, giudizioso e fedele nei confronti dell’amicizia con gli altri protagonisti, scompare in seguito ad un incontro ravvicinato del terzo tipo. Da questo momento in poi la narrazione si spacca su tre fronti: quello dei tre ragazzini rimasti che incarnano in loro lo spensierato e innocente spirito dei protagonisti dei film a cui questa serie si ispira, quello della madre di Will, dello sceriffo e delle ricerche “usuali” e quello dei misteriosi uomini collegati alla presenza aliena fin dal primo frame del primo episodio. Quando la situazione pare assestarsi su una narrazione tripartita e ordinata, seppur con delle falle volute per quanto riguarda la storia dell’organizzazione misteriosa, le carte vengono rimescolate dall’arrivo di una bambina silenziosa di nome Eleven, che scopriremo essere dotata di poteri sovrannaturali. Dal flashback nell’armadio di Mike, veniamo a sapere che la bambina è la figlia del bianco Joker, Matthew Modine (che sta portando vanti una mutazione esteriore verso la figura somma di David Lynch). A questo punto emerge una frattura anche all’interno del fronte dei “Bad”, dei “Cattivi”, che sembrano sì essere la causa dei poteri della piccola El, ma potrebbero non essere in controllo della forza aliena che si aggira per la quieta Hawkins, nonostante i loro tentativi di controllarla, o probabilmente studiarla. Sulle intenzione invece non avrei dubbi, soprattutto dopo l’uccisione a sangue freddo del proprietario della tavola calda in cui si era rifugiata la bambina dal taglio corto, soprattutto perché a farne le spese è stato l’amato Tom Cleary, autista del defunto Knick. Attraverso la stessa morte dell’uomo, fatta passare come suicidio, scopriamo di più sulla personalità dello sceriffo e i fili narrativi legati alla bambina braccata dai “Cattivi” e alla scomparsa di Will si riallacciano senza sbavature sul calare del secondo episodio. In questa minuziosa e attenta tessitura di una trama intricata e unita emerge il livello artistico di questa serie, già evento televisivo estivo. Stessa minuziosità che mi ha portato a rivalutare il ruolo di un personaggio secondario, fino a quel momento utilizzato al pari di un supporto scenico per la creazione della scenografia anni ’80. Mi riferisco a Nancy, sorella maggiore di Mike, presentataci inizialmente come lo stereotipo della ragazza casa e scuola, ma evolutasi coerentemente nel corso di appena due puntate. il colpo di scena non-visto alla fine del secondo episodio rimette anche lei sulla mappa dei personaggi interessati alla questione della presenza aliena. un’immagine statica attaccata allo sfondo che si è invece rivelata tridimensionale, in grado di spostarsi autonomamente all’interno della complessità dei fili della trama.


In relazione al resto della costruzione, pressoché perfetta, due scelte specifiche mi hanno però fatto storcere il naso: la volontà di costruire una doppia narrazione ricorrendo a flashback che ho trovato talvolta forzati e la presenza del fratello di Will nell’ultima scena del secondo episodio. In questo frangente infatti l’introduzione di questo personaggio e soprattutto le sue azione nel frangente specifico non sembrano giustificate da motivazioni reali e presumibilmente giustificabili, ma quelle foto, realizzate con una Pentax di un’altra generazione, risulteranno certamente utili allo sviluppo della trama e ciò potrebbe rappresentare, per certi versi una forzatura, una stonatura rispetta al perfetto incastro di tutti gli altri pezzi del puzzle.

Nel mondo abbiamo già prodotto molto, quasi tutto in campo artistico. Credere di realizzare qualcosa di nuovo e di originale al giorno d’oggi sarebbe forse un atto di superbia, un’ostinata menzogna senza maschera, ma riuscire a far rivivere un mondo sepolto che aveva regalato sogni ed emozioni ai ragazzi di un tempo, sostituire E.T. con una bambina di nome Eleven, questa è magia.

I primi due episodi di Stranger Things giganteggiano rispetto alla massa di serie che va a rimpinguare giornalmente il calderone della mediocrità. Emerge per qualità, scrittura, recitazione, atmosfera e soprattutto mistero, che in una struttura come quella della nuova serie Netflix d’amare è sempre al centro della questione. Cose ne è stato di Will? Cosa sono quei rumori al telefono? Cosa accade quando le luci impazziscono? In cosa consistono gli esperimenti della misteriosa organizzazione? Cosa è capitato all’amica tradita di Nancy? Chi ha ucciso Laura Palmer?


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