Stranger Things, nuova serie originale Netflix che
sceglie di collocarsi in un contesto storico ben preciso per poter attingere
appieno da un filone narrativo ormai (de)evolutosi, quello dei film d’avventura
per ragazzi. C’è Spielberg, indubbiamente padre di quel movimento che fu con “E.T.
- L’Extraterrestre” manifesto di una generazione, ma non mancano riferimenti
palesi a Donner e Columbus, a Joe Dante, a Reiner e King. Un filone che ha
vissuta la propria golden age proprio nel pieno degli anni ’80, tra
musicassette, manubri di biciclette con nastrini, giochi in scatola e cabinati
Atari. La ricostruzione storica dei fratelli Duffer è impeccabile e ricca di
riferimenti spesso velati che creano quel legame di esclusività con lo
spettatore attento in grado di coglierli e di stabilire quindi una sorta di dialogo
divertito con gli sceneggiatori. Buona parte dell’atmosfera vintage è data però
dalla scelta della colonna sonora (originale e non) e dalla sua implementazione
nelle singole situazione descritte sullo schermo. Dolce e nostalgica la scena
con “Africa” dei Toto nel primo episodio; coinvolgente e immersiva quella
accompagnata dai “Clash” nel secondo.
Al di là dell’ambientazione, perfettamente riprodotta, la
storia si presenta in maniera semplice e discretamente lineare: un gruppo di
ragazzini si divide, dopo un’interminabile partita ad un gioco da tavolo, e,
sulla strada verso casa, Will, il ragazzo che a prima vista sembrava più
pacato, giudizioso e fedele nei confronti dell’amicizia con gli altri
protagonisti, scompare in seguito ad un incontro ravvicinato del terzo tipo. Da
questo momento in poi la narrazione si spacca su tre fronti: quello dei tre
ragazzini rimasti che incarnano in loro lo spensierato e innocente spirito dei
protagonisti dei film a cui questa serie si ispira, quello della madre di Will,
dello sceriffo e delle ricerche “usuali” e quello dei misteriosi uomini
collegati alla presenza aliena fin dal primo frame del primo episodio. Quando la
situazione pare assestarsi su una narrazione tripartita e ordinata, seppur con
delle falle volute per quanto riguarda la storia dell’organizzazione
misteriosa, le carte vengono rimescolate dall’arrivo di una bambina silenziosa
di nome Eleven, che scopriremo essere dotata di poteri sovrannaturali. Dal
flashback nell’armadio di Mike, veniamo a sapere che la bambina è la figlia del
bianco Joker, Matthew Modine (che sta portando vanti una mutazione esteriore
verso la figura somma di David Lynch). A questo punto emerge una frattura anche
all’interno del fronte dei “Bad”, dei “Cattivi”, che sembrano sì essere la
causa dei poteri della piccola El, ma potrebbero non essere in controllo della
forza aliena che si aggira per la quieta Hawkins, nonostante i loro tentativi
di controllarla, o probabilmente studiarla. Sulle intenzione invece non avrei
dubbi, soprattutto dopo l’uccisione a sangue freddo del proprietario della
tavola calda in cui si era rifugiata la bambina dal taglio corto, soprattutto perché
a farne le spese è stato l’amato Tom Cleary, autista del defunto Knick. Attraverso
la stessa morte dell’uomo, fatta passare come suicidio, scopriamo di più sulla
personalità dello sceriffo e i fili narrativi legati alla bambina braccata dai “Cattivi”
e alla scomparsa di Will si riallacciano senza sbavature sul calare del secondo
episodio. In questa minuziosa e attenta tessitura di una trama intricata e
unita emerge il livello artistico di questa serie, già evento televisivo
estivo. Stessa minuziosità che mi ha portato a rivalutare il ruolo di un
personaggio secondario, fino a quel momento utilizzato al pari di un supporto
scenico per la creazione della scenografia anni ’80. Mi riferisco a Nancy,
sorella maggiore di Mike, presentataci inizialmente come lo stereotipo della
ragazza casa e scuola, ma evolutasi coerentemente nel corso di appena due
puntate. il colpo di scena non-visto alla fine del secondo episodio rimette
anche lei sulla mappa dei personaggi interessati alla questione della presenza
aliena. un’immagine statica attaccata allo sfondo che si è invece rivelata
tridimensionale, in grado di spostarsi autonomamente all’interno della
complessità dei fili della trama.
In relazione al resto della costruzione, pressoché perfetta,
due scelte specifiche mi hanno però fatto storcere il naso: la volontà di
costruire una doppia narrazione ricorrendo a flashback che ho trovato talvolta
forzati e la presenza del fratello di Will nell’ultima scena del secondo
episodio. In questo frangente infatti l’introduzione di questo personaggio e soprattutto
le sue azione nel frangente specifico non sembrano giustificate da motivazioni
reali e presumibilmente giustificabili, ma quelle foto, realizzate con una
Pentax di un’altra generazione, risulteranno certamente utili allo sviluppo
della trama e ciò potrebbe rappresentare, per certi versi una forzatura, una
stonatura rispetta al perfetto incastro di tutti gli altri pezzi del puzzle.
Nel mondo abbiamo già prodotto molto, quasi tutto in
campo artistico. Credere di realizzare qualcosa di nuovo e di originale al
giorno d’oggi sarebbe forse un atto di superbia, un’ostinata menzogna senza
maschera, ma riuscire a far rivivere un mondo sepolto che aveva regalato sogni
ed emozioni ai ragazzi di un tempo, sostituire E.T. con una bambina di nome
Eleven, questa è magia.
I primi due episodi di Stranger Things giganteggiano
rispetto alla massa di serie che va a rimpinguare giornalmente il calderone
della mediocrità. Emerge per qualità, scrittura, recitazione, atmosfera e
soprattutto mistero, che in una struttura come quella della nuova serie Netflix
d’amare è sempre al centro della questione. Cose ne è stato di Will? Cosa sono
quei rumori al telefono? Cosa accade quando le luci impazziscono? In cosa
consistono gli esperimenti della misteriosa organizzazione? Cosa è capitato all’amica
tradita di Nancy? Chi ha ucciso Laura Palmer?
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