È difficile definire una serie come “Stranger Things”, o
come “Lost”, o come “Wayward Pines”, o come “Flash Forward”. Potremmo dire che
il comun denominatore di tutti i prodotti citati sia il mistero, che sta alla
base delle premesse, sorregge lo svolgimento, ma inevitabilmente si scontra con
le necessità narrative del finale di una storia, e tende quindi a scemare per
lasciare posto all’azione. L’azione che sostituisce progressivamente la
contemplazione scopica dello spettatore curioso. L’azione che contraddistingue
le parti finali dello storie fondate sul mistero si pone come l’esplosione
cinetica del potenziale accumulato: più mistero ha alimentato la costruzione
del finale, più azione verrà liberata nel tentativo di riordinare un universo
televisivo complicato e sconclusionato. Ma non mancano le eccezioni: talvolta
il cattivo uso delle potenzialità del mistero porta le serie a subire una sorta
di effetto imbuto, per cui, nell’equazione proposta, rimane uno scarto di mistero
perduto, che lascia l’amaro in bocca. Qualcosa di rimasto incompiuto, che poteva
trasformarsi in combustibile per alimentare un finale di portata maggiore, ma
che è rimasto nel mistero. Anche Stranger Things dimostra di subire lo stesso
effetto imbuto di Wayward Pines, ma in maniera decisamente più lieve, riuscendo
dopotutto a restituire un doppio episodio di qualità elevata, coinvolgente,
emozionante.
Queste ultime due punate hanno dimostrato la bipolarità
del ritmo di questa serie: da un lato, fino al quarto episodio, una determinata
densità di contenuti ed eventi significativi, dall’altro, dopo la scoperta da
parte di Hopper del mistero relativo all’operato del dottor Brenner, abbiamo
assistito ad una relativa diluizione della concentrazione. Il passaggio
significativo del contatto tra lo sceriffo e i loschi esperimenti statali ha rappresentato
il punto di svolta in cui le domande hanno iniziato a farsi risposte. Stranger Things
ha retto l’urto, proponendo un ultimo episodio incentrato sulle missioni di
recupero: quella di Hopper e Joyce e quella del dottor Brenner, terminate
fortunatamente in maniera diametralmente opposta.
Purtroppo il ruolo dei bambini, che qualcuno sul web
aveva banalmente etichettato come lo stereotipo degli eroi nei film d’avventura,
è stato quello più schiacciato dagli eventi. Protagonisti di una litigata che
poco ha apportato di significativo allo sviluppo della trama, Mike, Dustin e
Lucas sono passati in breve tempo dall’impersonare degli spassosi investigatori
dell’occulto a fare da spalla alla protagonista El, tra professori di scienze e
budini al cioccolato. Vittime dell’effetto imbuto. Ad ereditare questo spirito
d’avventura che per lunghi tratti ha guidato per mano la serie verso la
risoluzione delle questioni più misteriose è stato il duo Hopper-Joyce, ormai
consolidatisi come cacciatori di mostri, che, in cambio di El, hanno ottenuto
la facoltà di tentare la disperata manovra di salvataggio di Will, nel
frattempo scovato del mostro senza volto ed intubato con un tentacolo vivo. In
questo frangente qualcosa è mancato a livello logico. Fino a quel momento
abbiamo creduto che l’Upside down fosse un negativo del nostro mondo popolato
da mostri antropomorfi senza volto. Vorrei sottolineare "mostri", al plurale. Nell’ultimo
episodio invece la situazione del fronte mostruoso è apparsa abbastanza
confusa. Era un solo mostro? Erano due? Abbiamo visto su schermo tutti i mostri
presenti nell’altra dimensione o solo quelli che popolavano la zona del bosco
limitrofo alla casa dei Byers? Perché Nancy, Jonathan e Steve sono riusciti a
tenere testa ad un mostro utilizzando soltanto una rivoltella, una mazza
ferrata e una trappola, mentre il corpo di agenti statali al seguito di Brenner
è dovuto soccombere nonostante la dotazione militare? Si trattava dello stesso
essere? Se Quindi si trattava di un solo mostro assetato di sangue, perché l’organizzazione
non ha pianificato spedizioni più numerose all’interno del portale? Una serie
di interrogativi che vengono spazzati via dall’exploit finale della giovane El.
Dal punto di vista stilistico invece l’ultimo episodio ha
raggiunto l’apice dell’intera stagione. Ultimo episodio che io definirei “Le Luci”
visto la perpetrata volontà di riprendere un elemento chiave, e tuttora ancora
misterioso della serie, per sfruttarlo dal punto di vista registico e per dare
un tocco di autorialità alle scene d’azione che hanno contraddistinto gli scontri
finali tra le varie fazioni. Due momenti su tutti: la steadycam rotante tra i
colori natalizi nell’affumicata casa Byers e le luci stroboscopiche della
scuola nell’attacco dei giganti mostri, anche se in questo secondo
frangente il limite dell’attacco epilettico è stato quasi sfiorato. Una scelta,quella
di dare uno spazio scenico da protagonista alle luci, che ha dato personalità a
dei momenti che senza avrebbero magari peccato di poca originalità.
Questo finale, tutto sommato coerente, piacevole e
adrenalinico, è però purtroppo finito nel classico difetto dei finali multipli,
di quelli alla “Signore degli Anelli”, per intenderci. Dopo la scomparsa di El
in seguito all’azione finale che ha scacciato definitivamente il mostro, scena
che io considero il vero finale della prima stagione, si sono susseguite
diverse sequenze riguardanti la ripresa di Will e i momenti successivi alla
fine dei mostri senza volto, fino ad arrivare alla narrazione di eventi
distanti un mese dal termine ultimo delle ricerche di Joyce. Una scelta in
controtendenza con l’uso dei tempi sostenuto fino al quel momento,
contraddistinto da un presente lineare e un sistema di flashback atto a
ricostruire un passato burrascoso. Credo che questa scelta sia stata fatta alla
luce di una seconda stagione, e in quest’ottica emergono alcuni errori di
scrittura che hanno appiattito l’interesse per un’eventuale, probabile seguito:
limitandoci alla scena dello scontro tra El e il mostro, possiamo affermare con
certezza che ogni mistero proposto era stato portato per mano ad una risoluzione
accettabile, coesa con la svolta finale presa dagli eventi. In questo modo la
suspance era ormai scemata, gli interrogativi risolti, la pace riacquistata. A questo
punto l’errore, il voler forzatamente rimescolare le carte per andare a
posizionale furbescamente le basi per una seconda stagione nel corso degli
ultimi minuti utili. Gettare legna su un braciere morente. Probabilmente
potrebbe attecchire ancora una fiammella, la quale potrebbe anche poi espandersi
ed incendiare il mondo (l’altro), ma fondamentalmente è stata una mossa meno
elegante rispetto allo stile mantenuto dagli sceneggiatori e dai Duffers nel
corso di sette episodi e quaranta minuti.
Volendo fare un bilancio generale della prima stagione di
Stranger Things, non è possibile affossare le immense qualità di un fulmine
estivo a ciel serenissimo muovendo critiche a partire dalle ultime scelte del
finale di stagione. La serie dei fratelli Duffer, figlia degli anni ’80,
citazionistica, celebrativa e nostalgica, è stata la vera sorpresa di questo
2016. Un prodotto fondato sulla qualità, sulla recitazione, sul mistero
abilmente giostrato e sulle fiction italiane(?). Esatto, le fiction italiane. Qualche giorno fa mi è
capitato di leggere questo articolo di serialminds.com che ha scherzosamente
paragonato Stranger Things ad una fiction di Rai Uno, di quelle tranquille,
rilassate, in cui i cattivi non sono cattivi, davvero. Il loro intento, come
esplicitamente dichiarato, non era tanto quello di denigrare aspramente la serie
Netflix, di cui hanno saggiamente riconosciuto il livello, quanto quello di
proporre una riflessione sull’atmosfera di Hawkins. Ciò che contraddistingue
Stranger Things è la leggerezza, l’aria di famiglia, la tranquillità che quel
gruppo di bambini, quella coppia improbabile, lo sceriffo burbero e la madre
considerata pazza riescono a trasmettere nel caos del mistero
interdimensionale. Stiamo in tensione senza mai angosciarci, respiriamo il profumo della nostra vecchia casa, ci divertiamo e soprattutto vorremmo che gli episodi non finissero
mai. Perché ci stiamo bene in quella situazione, che ci ricorda un altro mondo,
non alternativo, ma passato. Quello di quando eravamo più piccoli e ci piaceva
immaginare, vedevamo i giocattoli prendere vita, macinavamo chilometri con le
nostre biciclette e vivevamo esperienze anche oltre il paranormale, nella
nostra mente, e in quella degli altri bambini che condividevano con noi un’amicizia
incondizionata e disinteressata, come quella di Will, Mike, Dustin e Lucas, il
vero fulcro di quest’omaggio fantastico alle nostre fantasie.
Anzi, ora che mi ci fate pensare un dubbio mi è rimasto,
qualcosa che in verità non ci è stata mostrata: siete sicuri che il portale sia
chiuso?
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