Le cover sono sempre affascinanti. Liquidarle come
semplici rifacimenti di canzoni sarebbe riduttivo; un brano reinterpretato può
dire tanto sul suo esecutore. Può essere allo stesso tempo un omaggio e un
affrancamento dalle influenze che hanno portato un artista ad avere una propria
identità unica e caratteristica. A volte, come qualità e ispirazione, una cover
si avvicina paurosamente all’originale: “Immigrant Song” rifatta da Trent
Reznor e Karen One è un esempio; altre volte diventa addirittura più famosa
dell’originale: “The Man Who Sold the World” da “Unplugged in New York” dei
Nirvana; altre volte ancora è solo una pura manovra commerciale, senza alcun
sentimento alle spalle. Ecco quindi una manciata di coppie di pezzi secondo me
notevoli e rispettive cover altrettanto significative.
Per cominciare torniamo indietro di un ventiquattrino
d’anni. Nel ’91 gli U2, dopo lo strameritato successo di “The Joshua Tree”
tornano nelle vette delle classifiche con “Achtung Baby”, altro grande lavoro
seppure, complice lo zampino di Brian Eno, dai suoni molto diversi. L’album si chiude con una piccola perla: “Love is Blindness”. Un soffice tappeto di synth e
tastiere tra cui si insinua una gentile batteria e una chitarra distorta, note
prolungate, quasi una eco. La voce di Bono, anch’essa tenue, fa il resto. Un
gioiellino insomma. Di tutt’altra pasta è fatta la coverdi Jack White nel suo debutto solista “Blunderbass” (2012) e, se non
sbaglio, nella colonna sonora de “Il Grande Gatsby”. Organo di sottofondo,
batteria prepotente, incisiva e chitarra ben presente, come lo era nei buoni
vecchi White Stripes. La voce è quella corposa, importante, classica di Jack
White, ma il talento del chitarrista di Detroit si fa sentire nel finale. Senza
offesa per il buon The Edge ma qui siamo su un altro livello: l’assolo è
perfetto, distorto, distrutto e struggente. Da brividi.
C’è una secondo me bellissima scena nel film “This Must Be The Place” in cui un simpatico bimbo canta la canzone a cui il titolo del
film è ispirato, accompagnato alla chitarra da Cheyenne (Sean Penn). Non so
dire cos’abbia di speciale in sé ma mi commuove sempre. Prima di iniziare la
performance c’è una piccola discussione tra i due musici: il bambino afferma
convinto che il brano sia degli Arcade Fire e Cheyenne come è ovvio lo
corregge. This Must Be The place è
probabilmente la canzone più conosciuta di “Speaking in Tongues” (1983) in cui
i Talking Heads continuano la loro incursione nella musica modulare derivata
dalla precedente sperienza con Brian Eno (sempre lui). Groove, vari loop di
chitarra e basso e tutto quello a cui aveveano abituato il pubblico c’è ancora
e funziona ancora. Il bimbo non aveva però tutti i torti: gli Arcade Fire hanno
effettivamente rivisitato il brano, ovviamente nel loro stile. Si comincia con chitarra acustica e batteria che accompagnano la
canzone per tutta la sua durata facendo da base a intrusioni di altri strumenti
come violini, campane e campanelli vari. Non deludono mai questi canadesi.
Ben poco c’è da dire sulla prossima canzone. “Helter Skelter” è ormai un classico, il prototipo
dell’hard rock, la risposta beatlesiana agli Who e una della canzoni più
reinterpretate di sempre. Tra le tante, una delle più curiose che mi è capitata
tra le orecchie è quella che i Siouxie & The Banshees inserirono nel loro
album di debutto “The Scream” (1978). La loro versione
è completamente stravolta, a tratti irriconoscibile. La canzone parte
lentissima, qualche nota di basso, poi le chitarre si associano in una
progressione che porta all’ingresso della voce potente di Siouxie. Da qui il
ritmo cresce vertiginosamente, cresce, cresce fino ad arrivare al delirio
post-punk del ritornello. E qui accade l’inaspettato: manca il celebre riff
discendente di basso che era la caratteristica del pezzo! Anzi, per essere
precisi, c’è ancora, ma…be’ insomma devo dirvi tutto io?
Il duo svedese The Knife con le sue maschere, i suoi
cappucci e le sue trovate, è stato il gruppo che ha avuto il merito di avermi
fatto apprezzare la musica elettronica. Più dei Daft Punk o della new wave, che
pure ascolto con piacere. Quello che ti folgora al primo ascolto, sembra
banale, sono i suoni. Suoni nuovi, diversi, complessi, ritmi variegati, mai
banali. Hanno saputo coniugare sperimentazione e pop al meglio. “Heartbeats” (2003) è un bel pezzo, non è il loro
migliore ma si possono intuire l’evoluzione del successivo stupendo album
“Silent Shout” (2006) e, perché no, forse anche dell’affascinante e complesso
“Shaking the Habitual”. Il motivo per cui vi parlo di questa canzone è che Josè
Gonzalez (qui lo potete vedere mentre si prende
cura di un grosso verme. Che bello.), chitarrista classico svedese (sì, non
avete letto male, è proprio svedese) ne ha fatto una coverfolk per sola chitarra e voce. Il risultato non è davvero niente male.
Bianca e Bernie nella terra dell’acido lisergico. C’è poco
da fare, gli australiani Tame Impala sono Il gruppo rivelazione degli anni ’10,
i nuovi alfieri della psichedelica. In attesa del loro nuovo lavoro in studio
“Currents” che promette molto bene, andiamo a ripescare una delle loro (tante)
canzoni migliori: “Feels like we only go backwards”
da “Lonerism” (2012). Kevin Parker e soci si fanno riconoscere subito: batteria
e basso lavorano magnificamente e quello che ne vien fuori è un hypno groove da
ecstasy…ooops, volevo dire estasi. La voce poi pare uscita da una canzone pop
anni ’60 e le tastiere riempiono tutti i più piccoli spazi rimasti. Un gran bel
pezzo davvero. L’anno scorso mi sono imbattuto in una cover di questo brano che il leader degli Arctic Monkeys Alex Turner ha
eseguito durante una trasmissione radiofonica. È una versione molto semplice,
solo chitarra acustica, ma dimostra la versatilità della canzone e il risultato
è secondo me ben riuscito. E poi Noel Gallagher può dire quello che vuole, ma a
me la voce di Turner piace.
Siamo sinceri: la metà di voi è sempre stato convinto che
“Strange” fosse una canzone dei R.E.M.. Io
almeno ne ero convinto prima che iniziassi ad ascoltare punk e scoprissi che
quella dell’album “Document” è in realtà una cover di un brano dei Wire. L’aspetto interessante è che la
versione originale contenuta nel loro album di debutto “Pink Flag” (1977) ha
veramente poco a che vedere con il classico college rock del gruppo di Mikael
Stipe, nonostante quello che ci si potrebbe aspettare da un genere che affonda
le proprie radici nel punk. Innanzitutto è più lenta, parecchio più lenta, il
che può sembrare un po’ anomalo, mentre tutto il resto lo è meno: chitarra e
basso dal suono sporco, non definito, voce sguaiata e pronuncia strana, spesso
poco comprensibile. I Wire post punk, quelli che conosciamo tutti si fanno
sentire solo nel finale quasi onirico, pieno di suoni difficilmente
identificabili che nella versione dei R.E.M. diventano un bel riff di una più
classica chitarra.
A volte capita che l’allievo superi il maestro e che una
cover risulti anche molto migliore dell’originale. È questo il caso di “Wild
Thing”, vecchia canzone di Chip Taylor reinterpretata e resa famosa dai The
Troggs e poi da sua altezza Jimi Hendrix. Se però a suonare sono i Coldplay e a
cantare c’è – rullo di tamburi - Jon Snow (!),
allora non c’è altitudine che tenga. Sorry Jimi.
Davide Quercia
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