domenica 31 maggio 2015

RECENSIONI DELLA SETTIMANA 25-31 MAGGIO


FILM: The Last Exorcism (2013)
Sono passati ormai sei giorni, ma ancora mi sto chiedendo perché l’abbia visto. Uno dei peggiori horror di sempre. Per trentamila lire il mio falegname lo faceva meglio. All’inizio sembra che il film ruoti attorno ad una coppia che gioca a nascondino in casa e le scene più spaventose risultano quindi essere quelle in cui i due coniugi si incontrano. Tristissimo. Poi la situazione cambia quando viene trovata una donna (che vuole sembrarci un’adolescente nei comportamenti e nel portamento, ma si vede lontano un miglio che quaranta primavere le ha viste molto bene) che in passato ha partecipato a orge sataniche e in qualche modo è legata al demonio, ma sinceramente, dopo solo una settimana, non ricordo neanche più in che modo. Da qui in poi comincia davvero il film, con la protagonista che oscilla tra innocenza e peccato, castità e contatti col diavolo tentatore.
Film realizzato con pochi spiccioli e soprattutto senza idee. Una tragedia la visione di questo film e davvero mai uno spavento. Ogni tanto ci si dimentica di guardare un horror. Ah sì, poi finisce che diventa Carrie, così, senza spiegazioni, così. VOTO: 3



FILM: Monuments Men (2014)
Prendi un manipolo di buoni attori (qualcuno sopra la media, qualcuno come Bill Murray), prendi una storia interessante che rivede la Seconda Guerra Mondiale da un punto di vista davvero originale, prendi anche tanti soldi, perché settanta milioni sono tanti e consegna questo bel pacchetto al grande Playboy dal baffetto facile George Clooney. Ecco come ottenere un flop, un film che fallisce in ogni suo punto.
Di fondo sembra che l’attore americomense volesse emulare una struttura propria del cinema Pulp, di Quentin insomma. Personaggi bizzarri, dialoghi prolungati e surreali su argomenti di dubbia utilità, cinismo e scene interminabili. Vista l’ambientazione, il paragone con Ingorious Basterds è inevitabile e il film di Clooney ne esce con tutte e 206 le ossa rotte. Tutte.
Dopo un inizio simpatico ed accattivante, il film si perde in boriosità e futilità. Inutilmente lungo e pesante, sembra una copia sbiadita, un film edulcorato per poter piacere a tutti, ma a me non è piaciuto. Qualche interpretazione limita gli ingenti danni. VOTO: 5



FILM: Arizona Junior (1987)
E non se ne parla. Belli gli altri, per carità, ma di questo mai se ne parla. Un Coen minore passato in sordina che mi ha stupito non poco, soprattutto perché le premesse di un film con Nicholas Coppola Cage sono sempre infime. Questa volta invece l’Indiana Jones delle Pagine Perdute calza a pennello, diverte e convince. Una su tutte la scena dell’inseguimento alla ricerca dei pannolini: cinema puro, esilarante e divinamente girato.
Nel suo complesso il film risulta divertente e ben fatto, con qualche picco e pochi bassi. La comicità surreale e assai cinica dei Coen emerge fin da subito, in una sequenza introduttiva magistrale e decisamente sottovalutata. Veniamo catapultati nella vira di Cage e Hunter, delinquente e poliziotta sposati ma senza figli perché entrambi sterili. L’unica soluzione rimasta alla strana coppia è quella di rapire uno dei cinque neonati del magnate Arizona e fingere di essere una normale famiglia felice, ma la situazione precipita nel giro di poco. Un vortice di risate ed inseguimenti. Peccato per il finale buonista e poco in linea con il resto della film. Goodman non si smentisce mai. VOTO: 7.5



FILM: Men In Black 3 (2012)
Ecco una saga assai commerciale, una di quelle che piacciono a tutti, me compreso. Nei primi duemila sono stato affascinato dai primi due capitoli (diciamoci la verità, molto più dal primo). Alieni in incognito, MIB, invasori, mistero e azione. Le interpretazioni di Smith e Jones poi erano fantastiche e davvero perfette. Nel 2013 hanno poi deciso di rispolverare gli uomini in nero e di girare un nuovo capitolo, stavolta ambientandolo nel ’69. Il tutto è stato reso possibile solo attraverso i viaggi nel tempo, croce e delizia del film: se da una parte ciò ha ridato linfa vitale alla saga, dall’altro abbiamo delle enormi falle e delle forzature evidenti che tengono in piedi la baracca. Dispiace perché poteva essere il miglior capitolo dei tre e invece non lo è. Forse è più curato, forse è più studiato, forse è più impegnato e anche più divertente, ma no, non è meglio del primo, soprattutto se visto con un occhio più attento. Comunque un film discreto e molto godibile da grandi e piccini. VOTO: 6.5



FILM: La Tempesta Del Secolo - Parte Prima (1999)

Stephen Edwin King ha sempre scritto libri, dai quali poi sono stati tratti dei lungometraggi e delle miniserie tv, alcuni più riusciti altri meno. Raramente però il maestro dell’orrore cura in prima persona le sceneggiature delle opere ispirate dei suoi scritti. In questo senso fa eccezione La Tempesta Del Secolo, miniserie TV di cui King ha scritto personalmente anche soggetto e sceneggiatura, e il risultato, nel bene e nel male, si vede eccome. La prima parte di questo lungo lungo lungometraggio getta le basi per un prodotto alquanto bizzarro: un mix indefinito di mistery, crime, catastrofico e horror. In un’isoletta del Maine (strano eh? L’ambientazione del Maine intendo) sta per arrivare una tempesta assai violenta che rischia di lasciare la popolazione isolana isolata dal resto del mondo per qualche giorno. Prima che la tempesta si scateni in tutta la sua potenza però, arriva in città un uomo sinistro che uccide violentemente un’anziana signora e sembra sapere tutti i segreti più oscuri degli abitanti del posto. L’uomo viene arrestato dal modesto sceriffo locale, ma le stranezze e l’orrore non finiscono affatto. Una trama tipica del Re sviluppata nel corso di tre parti potrebbe rivelarsi più approfondita e quindi più fedele al libro. La prima cosa che salta all’occhio però è la scarsità dei mezzi con cui è stata realizzata la miniserie: attori improvvisati, fotografia e doppiaggio di serie C per essere del 1999. Purtroppo questi particolare pesano sul risultato finale. VOTO: 6.5

sabato 30 maggio 2015

COMMENTO WAYWARD PINES EPISODIO 3

Ok, ok. Lo ammetto. Mi sbagliavo. Avevo detto di essere quasi sicuro che Burke moglie e Burke figlio non avrebbero mai raggiunto Wayward Pines, che avrebbero sbattuto la testa contro quel muro per molte e molte puntate. Pensavo che la famiglia del protagonista avrebbe rappresentato, entro la fine della serie, la chiave per la definitiva fuga salvifica di Ethan e della barista. Poi la barista è morta. Poi la famiglia è arrivata a WP. Ok. Non c’avevo capito niente, “loro” volevano la famiglia al completo.
Sembra infatti che lo sceriffo, giudice, giuria e boia della città, e la perfida infermiera non siano i veri capi del programma che trattiene centinaia di persone in un recinto, ma, come lasciava intendere il dilogo tra lo psichiatra e il collega di Burke nella prima puntata, ci sono interessi più profondi e celati; qualcosa che non ci è ancora dato sapere.


Cominciamo dall’inizio però, basta con questi medias res che stordiscono e confondono. Questo episodio parte molto male e si sviluppa peggio: la scorsa settimana era stata uccisa la compagna di merende del protagonista perché aveva tentato di fuggire e perché aveva parlato del passato, due regole ferree da non infrangere. Allo stesso tempo però, insieme a lei, anche Ethan aveva tentato la fuga. Perché allora riservare un trattamento diverso all’agente dell’FBI? Perché l’uomo riesce tranquillamente a rifugiarsi nella casa di Kate senza che nessuno lo veda o lo denunci? Dove sono finite tutte quelle persone che inneggiavano all’ordine in piazza gli occhi insanguinati? Troppe incongruenze che stonano non poco.


Se il principio è sostanzialmente pessimo, lo sviluppo può definirsi peggiore se possibile. La famiglia Burke che parte e non si capisce come riesca ad entrare a WP (un altro incidente? Ma quanti incidenti ci sono in questa zona?), gli sbalzi d’umore di Kate, che in una scena sembra indemoniata e convinta della bontà delle esecuzioni pubbliche e in un’altra si redime, la morte dello sceriffo e soprattutto l’interminabile girovagare di Ethan. Perché questo personaggio vaga per la città senza una meta? perché incontra l’ex amante di nascosto nel bosco (sottotrama romantica, uff, ancora)? Perché ha smesso di farsi le domande più classiche, quelle che ci faremmo anche noi? Ecco il vero punto del problema: la perdita di credibilità. Se nelle prime due puntate infatti lo spettatore riusciva ad immedesimarsi perfettamente nel protagonista, in ogni sua scelta, in ogni suo dubbio, in questo terzo episodio questo feeling cessa e ci si chiede per tutto il tempo dove egli voglia andare a parare. Scelte incongruenti, reazioni poco umane. Un corpo estraneo allo spettatore, non il protagonista coinvolgente e dinamicamente vero che avevo apprezzato nelle prime due puntate.

Parliamo poi dell’ormai onnipresente aspetto metafisico: il tempo continua ad essere paradossale, ma ciò poco importa perché vengono introdotte poche novità; ciò che più attira l’interesse dello spettatore in questo terzo episodio è tutto incanalato verso un grido, un rumore. Non si capisce bene ancora di cosa si tratti. Stiamo parlando del verso che si sente quando Ethan uccide lo sceriffo con un colpo alla testa e poi tenta di aprire una sorta di serranda per poter fuggire. Un solo suono sinistro che li porta alla fuga, al ritorno a WP. Di cosa si tratta? Non lo sappiamo, ma sembra davvero qualcosa di inumano e assai minaccioso. Che ci sia qualcosa di sovraumano che determina lo scorrere del tempo tra le mura nemiche? Qualche entità sconosciuta che condiziona le azioni di quelli che sembrano essere i villain della storia? Qualcosa come BOB o Mike di Twin Peaks. Aspettiamo, questo è uno dei pochi punti a favore del terzo episodio.



Per adesso possiamo dire che la caratterizzazione dei personaggi, soprattutto di quelli secondari, rappresenta un limite notevole della serie e che il protagonista, come detto, si sta progressivamente allontanando dall’essere il rappresentate del pensiero dello spettatore medio. Questo terzo episodio rappresenta un brutto passo falso, un buco nell’acqua, un tonfo. Insomma dispiace ma il livello è calato spaventosamente. Ovviamente una serie di dieci puntate è lunga, ma spero che si torni alla struttura classica fatta di misteri e soluzioni, colpi di scena e paradossi ; la struttura più classica e funzionale insomma. Fiducioso per il quarto episodio, abbastanza fiducioso, un pochino fiducioso.

giovedì 28 maggio 2015

NBT: ALL MY LIFE WAS ON A COVER

Le cover sono sempre affascinanti. Liquidarle come semplici rifacimenti di canzoni sarebbe riduttivo; un brano reinterpretato può dire tanto sul suo esecutore. Può essere allo stesso tempo un omaggio e un affrancamento dalle influenze che hanno portato un artista ad avere una propria identità unica e caratteristica. A volte, come qualità e ispirazione, una cover si avvicina paurosamente all’originale: “Immigrant Song” rifatta da Trent Reznor e Karen One è un esempio; altre volte diventa addirittura più famosa dell’originale: “The Man Who Sold the World” da “Unplugged in New York” dei Nirvana; altre volte ancora è solo una pura manovra commerciale, senza alcun sentimento alle spalle. Ecco quindi una manciata di coppie di pezzi secondo me notevoli e rispettive cover altrettanto significative.



Per cominciare torniamo indietro di un ventiquattrino d’anni. Nel ’91 gli U2, dopo lo strameritato successo di “The Joshua Tree” tornano nelle vette delle classifiche con “Achtung Baby”, altro grande lavoro seppure, complice lo zampino di Brian Eno, dai suoni molto diversi.  L’album si chiude con una piccola perla: “Love is Blindness”. Un soffice tappeto di synth e tastiere tra cui si insinua una gentile batteria e una chitarra distorta, note prolungate, quasi una eco. La voce di Bono, anch’essa tenue, fa il resto. Un gioiellino insomma. Di tutt’altra pasta è fatta la coverdi Jack White nel suo debutto solista “Blunderbass” (2012) e, se non sbaglio, nella colonna sonora de “Il Grande Gatsby”. Organo di sottofondo, batteria prepotente, incisiva e chitarra ben presente, come lo era nei buoni vecchi White Stripes. La voce è quella corposa, importante, classica di Jack White, ma il talento del chitarrista di Detroit si fa sentire nel finale. Senza offesa per il buon The Edge ma qui siamo su un altro livello: l’assolo è perfetto, distorto, distrutto e struggente. Da brividi.



C’è una secondo me bellissima scena nel film “This Must Be The Place” in cui un simpatico bimbo canta la canzone a cui il titolo del film è ispirato, accompagnato alla chitarra da Cheyenne (Sean Penn). Non so dire cos’abbia di speciale in sé ma mi commuove sempre. Prima di iniziare la performance c’è una piccola discussione tra i due musici: il bambino afferma convinto che il brano sia degli Arcade Fire e Cheyenne come è ovvio lo corregge. This Must Be The place è probabilmente la canzone più conosciuta di “Speaking in Tongues” (1983) in cui i Talking Heads continuano la loro incursione nella musica modulare derivata dalla precedente sperienza con Brian Eno (sempre lui). Groove, vari loop di chitarra e basso e tutto quello a cui aveveano abituato il pubblico c’è ancora e funziona ancora. Il bimbo non aveva però tutti i torti: gli Arcade Fire hanno effettivamente rivisitato il brano, ovviamente nel loro stile. Si comincia con chitarra acustica e batteria che accompagnano la canzone per tutta la sua durata facendo da base a intrusioni di altri strumenti come violini, campane e campanelli vari. Non deludono mai questi canadesi.



Ben poco c’è da dire sulla prossima canzone. “Helter Skelter è ormai un classico, il prototipo dell’hard rock, la risposta beatlesiana agli Who e una della canzoni più reinterpretate di sempre. Tra le tante, una delle più curiose che mi è capitata tra le orecchie è quella che i Siouxie & The Banshees inserirono nel loro album di debutto “The Scream” (1978). La loro versione è completamente stravolta, a tratti irriconoscibile. La canzone parte lentissima, qualche nota di basso, poi le chitarre si associano in una progressione che porta all’ingresso della voce potente di Siouxie. Da qui il ritmo cresce vertiginosamente, cresce, cresce fino ad arrivare al delirio post-punk del ritornello. E qui accade l’inaspettato: manca il celebre riff discendente di basso che era la caratteristica del pezzo! Anzi, per essere precisi, c’è ancora, ma…be’ insomma devo dirvi tutto io?



Il duo svedese The Knife con le sue maschere, i suoi cappucci e le sue trovate, è stato il gruppo che ha avuto il merito di avermi fatto apprezzare la musica elettronica. Più dei Daft Punk o della new wave, che pure ascolto con piacere. Quello che ti folgora al primo ascolto, sembra banale, sono i suoni. Suoni nuovi, diversi, complessi, ritmi variegati, mai banali. Hanno saputo coniugare sperimentazione e pop al meglio. “Heartbeats (2003) è un bel pezzo, non è il loro migliore ma si possono intuire l’evoluzione del successivo stupendo album “Silent Shout” (2006) e, perché no, forse anche dell’affascinante e complesso “Shaking the Habitual”. Il motivo per cui vi parlo di questa canzone è che Josè Gonzalez (qui lo potete vedere mentre si prende cura di un grosso verme. Che bello.), chitarrista classico svedese (sì, non avete letto male, è proprio svedese) ne ha fatto una coverfolk per sola chitarra e voce. Il risultato non è davvero niente male.



Bianca e Bernie nella terra dell’acido lisergico. C’è poco da fare, gli australiani Tame Impala sono Il gruppo rivelazione degli anni ’10, i nuovi alfieri della psichedelica. In attesa del loro nuovo lavoro in studio “Currents” che promette molto bene, andiamo a ripescare una delle loro (tante) canzoni migliori: “Feels like we only go backwards da “Lonerism” (2012). Kevin Parker e soci si fanno riconoscere subito: batteria e basso lavorano magnificamente e quello che ne vien fuori è un hypno groove da ecstasy…ooops, volevo dire estasi. La voce poi pare uscita da una canzone pop anni ’60 e le tastiere riempiono tutti i più piccoli spazi rimasti. Un gran bel pezzo davvero. L’anno scorso mi sono imbattuto in una cover di questo brano che il leader degli Arctic Monkeys Alex Turner ha eseguito durante una trasmissione radiofonica. È una versione molto semplice, solo chitarra acustica, ma dimostra la versatilità della canzone e il risultato è secondo me ben riuscito. E poi Noel Gallagher può dire quello che vuole, ma a me la voce di Turner piace.



Siamo sinceri: la metà di voi è sempre stato convinto che “Strange” fosse una canzone dei R.E.M.. Io almeno ne ero convinto prima che iniziassi ad ascoltare punk e scoprissi che quella dell’album “Document” è in realtà una cover di un brano dei Wire. L’aspetto interessante è che la versione originale contenuta nel loro album di debutto “Pink Flag” (1977) ha veramente poco a che vedere con il classico college rock del gruppo di Mikael Stipe, nonostante quello che ci si potrebbe aspettare da un genere che affonda le proprie radici nel punk. Innanzitutto è più lenta, parecchio più lenta, il che può sembrare un po’ anomalo, mentre tutto il resto lo è meno: chitarra e basso dal suono sporco, non definito, voce sguaiata e pronuncia strana, spesso poco comprensibile. I Wire post punk, quelli che conosciamo tutti si fanno sentire solo nel finale quasi onirico, pieno di suoni difficilmente identificabili che nella versione dei R.E.M. diventano un bel riff di una più classica chitarra.   


A volte capita che l’allievo superi il maestro e che una cover risulti anche molto migliore dell’originale. È questo il caso di “Wild Thing”, vecchia canzone di Chip Taylor reinterpretata e resa famosa dai The Troggs e poi da sua altezza Jimi Hendrix. Se però a suonare sono i Coldplay e a cantare c’è – rullo di tamburi - Jon Snow (!), allora non c’è altitudine che tenga. Sorry Jimi.

Davide Quercia

martedì 26 maggio 2015

TOP 5 CINECOMICS MARVEL

Se negli anni ’80 erano i film fantascientifici post apocalittici a fare da padroni, il nuovo millennio è stato caratterizzato da un abbondanza di cinecomics, la maggior parte dei quali legati al mondo supereroistico. E se dico supereroi voi a cosa pensate? Esatto, la Marvel, celeberrima casa editrice detentrice dei diritti dei supereoi più famosi, insieme alla DC Comics. Mi sono accorto quindi di aver visto negli ultimi quindici anni, purtroppo o per fortuna, quasi tutti i film derivati dalle opere cartacee dello studio californiano. Mi sono quindi deciso a realizzare una top 5 dei migliori film Marvel nella quale compariranno sia titoli realizzati dagli stessi Marvel Studios, sia lungometraggi prodotti da altre case in licenza temporanea (politica old school di Stan Lee). Attenzione però: nessuno dei film analizzati raggiunge la perfezione, stiamo parlando pur sempre di prodotti commerciali molto spesso usa e getta. Cercheremo anche di ricostruire un’evoluzione cinematografica dei cinecomics Marvel. Detto questo sorvolo sulle premesse legate alle opinioni personali e vi lascio alla tanto attesa classifica.



5° POSIZIONE: The Avengers (2012)
I film corali in ambito supereroistico sono decisamente i più difficili da realizzare, basti pensare ai Fantastici quattro o agli X Men, produzioni che per un motivo o per un altro hanno chiuso bottega o virato verso esperimenti che dividessero il gruppo di protagonisti. Un film corale ha bisogno di alchimia, tempi, trama coinvolgente ed interpreti tutti all’altezza. Per questo motivo accolsi in maniera scettica l’idea di riunire i supereroi più famosi di casa Marvel in un’unica pellicola, anche se al contempo nutrivo anche molto interesse nella più grande produzione cinematografica tratta da una serie di albi a fumetti mai fatta.
Il risultato fu tutto sommato soddisfacente: un film d’intrattenimento ben realizzato, discretamente costruito e soprattutto estremamente divertente. Un film che risveglia il bambino che è in ognuno di noi e lo esalta attraverso siparietti comici e scene action movimentate e ordinatamente confuse dalla natura collettiva dei protagonisti. Hulk (solo trasformato) e Iron Man vincono a mani basse, Thor e Captain America troppo spesso pesci fuor d’acqua. Vedova Nera e Occhio di Falco non pervenuti. L’amalgama funziona ma non troppo. Il cattivo invece è azzeccato; il cattivo sostitutivo, il finto cattivo, Loki insomma.
Ottimo prodotto commerciale adatto a tutti e consigliato per passare una serata in allegria.



4° POSIZIONE: Spiderman 2 (2004)
Spiderman, o meglio l’uomo ragno; il mio supereroe, il nostro supereroe, il supereroe di un’intera generazione. Se non fosse stato per i film del maestro Sam Raimi oggi saremmo ancora fermi a Captain America (non quello del 2011 o quello del 2014, ma quello del 1990; abbiate paura). Se con il primo film il regista cult aveva rivoluzionato il genere del cinecomic scegliendo il rispetto dell’opera originale e fondendo ciò alla maestosità e alla teatralità dei blockbuster tipici americani, con il secondo conferma il trend precedente e scava più a fondo nella psicologia del protagonista. Vengono infatti mostrate le difficoltà di un giovane, psicologicamente debole, che porta sulle spalle il peso enorme di una doppia identità. Il film poi vanta un Alfred Molina in stato di grazia nei panni del fantastico Doc Octopus, personaggio profondo e criptico che porta con se anche una poco velata critica alla tecnologia.
Decisamente un film ben fatto, ben girato e scritto. Peccato per i due protagonisti, soprattutto Tobey Maguire, che non reggono il peso del film, anche se migliorano visibilmente rispetto al primo capitolo. Ah poi hanno fatto un terzo capitolo; ah quel terzo capitolo. Non ne voglio parlare. Non ora.



3° POSIZIONE: Iron Man (2008)
Ecco, questo è il film che dopo Spidey ha cambiato nuovamente i canoni del sottogenere. Con Iron Man i cinecomics si allontanano nuovamente dal fumetto e maturano, si avvicinano ad un prodotto nuovo. Il protagonista della serie cartacea viene modificato e reso sul profilo di Robert Downey Jr. la fotografia e la regia diventano più accattivanti e più ricercate. Il film Marvel diventa ormai un vero e proprio prodotto cinematografico, non più una trasposizione infantile ed eccessiva. Il film si avvicina alla realtà. Sherlock risulta il più ispirato e accattivante personaggio dei film supereroistici e mantiene l’intero film da solo. Anche la trama però non è affatto da sottovalutare, infatti si mescolano abilmente tecnologia, magnati, terroristi e molta azione. Un mix che funziona, convince e detta nuove leggi, nuovi canoni sui quali si basano tutti i film successivi fino ad un nuovo prodotto che poi analizzeremo in vetta.



2° POSIZIONE:  X-Men: L’Inizio (2011)
Questa saga è forse la più sottovalutata. Il primo capitolo, ammettiamolo, era in parte divertente ma nulla più. Il secondo è stato il migliore della “vecchia” trilogia (si è posizionato infatti al sesto posto nella mia personalissima e virtuale classifica che voi purtroppo non potete vedere in toto dal vostro avanzatissimo smartphone o dal vostro notebook di ultima generazione), ma poi tutto è stato rovinato con il solito terzo magniloquente ed inutilmente esagerato capitolo. La 20th Century Fox ha deciso poi di rilanciare l’intero brand con due saghe spin-off, una legata a Wolverine e una alla prima classe di X-Men, la seconda decisamente migliore. Per la regia di questo nuovo inizio viene infatti scelto Matthew Vaughn, che il suo lavoro lo sa fare eccome (ehm Kickass vi dice qualcosa?), mentre Singer rimane come sceneggiatore. L’aspetto che più caratterizza questa serie di film è il legame che i mutanti hanno con il governo e i problemi legati all’integrazione, temi quanto mai attuali. Si ha sempre paura del diverso. In questo capitolo poi questi punti forti vengono ampliati e calati in un contesto ancora più chiuso, ancora più ottuso e razzista. Le interpretazioni dei protagonisti (Fassbender su tutti) alzano il livello del prodotto. Intrattenimento curato e intelligente, finalmente.


1° POSIZIONE: Guardiani Della Galassia (2014)
Il re, the king, il miglior film Marvel di sempre. Ecco cosa ci sia aspetta quando si va al cinema a vedere un film supereroi stico, anche se in questo caso l’ambito dei supereroi sarebbe alquanto riduttivo. Gunn infatti, dopo esperienze diciamo folkloristiche con la Troma, allarga il raggio d’azione all’intero universo e propone un gruppo di antieroi costretti dalle circostanze a collaborare e a contribuire inevitabilmente al mantenimento della pace. I tre grandi punti a favore di questa esilarante pellicola sono i personaggi, caratterizzati alla perfezione ed estremamente accattivanti per qualsiasi tipo di pubblico, l’ambientazione fresca, nuova e colorata, e le musiche. La colonna sonora non originale di questo film è qualcosa di indescrivibilmente epico; anni ’70 e ’80 in tutto il loro splendore pop. Alcune sequenze esaltano e divertono lo spettatore come mai avevano fatto i film Marvel. Questa è la nuova linea da seguire per realizzare prodotti all’altezza delle aspettative del grande pubblico. D’ora in poi i film fatto con lo stampino di Iron Man sembreranno minestre scaldate di settimane e settimane prima. Un Film imperfetto ma perfezionabile che apre un arco narrativo finalmente avvincente e poco scontato, finalmente nuovo. Sono in trepidante attesa per il seguito annunciato per il 2017, ah, quanto tempo!
Starlord supera Robert, tenetelo presente.



E voi? Cosa pensate dei film supereroistici? Cosa pensate dei film Marvel analizzati oggi? Quali sono i vostri film preferiti? Ditelo con un commento e condividete. A presto con la flop (dan dan daaaaaan).

lunedì 25 maggio 2015

COMMENTO WAYWARD PINES EPISODIO 2

La serie figlia delle grandi serie del passato comincia finalmente ad ingranare. Il mistero e il sovrannaturale prendono il sopravvento sul resto e lo spettatore è inevitabilmente portato ad incollare gli occhi allo schermo. In questo episodio ci sono forse meno avvenimenti degni di nota rispetto a quello precedente, ma ciò che accade è un continuo colpo di scena, un continuo climax ascendente di tensione. 

Si parte con lo sceriffo locale, forse sì, troppo stereotipato finora, che intima il protagonista di rimanere nella camera d’albergo, si passa dalla scoperta della mappa nello stivale del defunto e martoriato collega e si arriva alla violenta e inaspettata conclusione dell’episodio. Proprio la conclusione potrebbe infatti essere di buon auspicio per il prosieguo della serie. Negli anni infatti siamo stati abituati a cliché e colpi di scena prevedibili che raramente portano alla morte dei personaggi principali, specialmente nelle prime battute di una miniserie. Di solito ci si aspetta che un personaggio non muoia mai davvero, ma venga solo allontanato per un certo periodo di tempo, come ammettono gli sceneggiatori in Boris per esempio. Qui invece la donna che sembrava l’unico baluardo di umanità e integrità nella misteriosa Wayward Pines viene sgozzata di fronte a tutta la comunità dal boia del posto, ossia lo stesso sceriffo. Da questa azione capiamo che le dinamiche della microsocietà venutasi a creare nella sinistra cittadina sono profondamente condizionate dalla convinzione degli abitati della bontà del sistema di leggi e verità non dette che regge l’intera farsa. Non si può scappare, non si può parlare del passato, non si può smettere di recitare senza che nessuno se ne accorga e immagino siano molte altre le azioni giornaliere e comuni proibite a Wayward pines, tutte azioni che coinvolgono in qualche modo la libertà dell’uomo. La metafora della civiltà odierna è evidente e ben congeniata; sotto una coltre di intrattenimento puro potrebbe celarsi anche una velata vena critica molto interessante che potrebbe elevare il livello del prodotto ad una più accurata analisi del prodotto.


Passiamo poi all’analisi dell’aspetto metafisico della serie finora: il tempo. Come avevo immaginato e come avevo anticipato nel precedente commento il paradosso temporale è uno dei pilastri che tengono e terranno in piedi la serie. A WP il tempo scorre diversamente: la compianta barista pensava di essere ancora nel 1999 quando la serie è ambientata nel 2014 e il collega scomparso perché giustiziato dello sceriffo si era sposato più di un anno prima dell’arrivo dell’agente Burke, ma in realtà era in servizio fino a cinque settimane prima del famoso incidente stradale da cui tutto è partito. Qualcosa non quadra e dovremo aspettare altre otto settimana per capire cosa e perché. Intanto la moglie e il figlio del protagonista annusano il complotto e sono in procinto di investigare autonomamente sulla scomparsa del parente. Mi aspetto sbattano spesso la testa contro un muro a casa di tutta la nebbia che circonda la città, ma credo anche risulteranno fondamentali per la definitiva fuga.


La serie si sta incanalando su precisi binari battuti ma sempre freschi e innovativi. Il più grande punto a favore di WP è indubbiamente la presa che ha sul pubblico medio. La situazione di pericolo in cui si trova il protagonista al fine del secondo episodio, braccato e intrappolato, porta lo spettatore ad attendere con ansia la prossima settimana e il prossimo episodio.
Il cambio di regia giova alla serie portando una ventata fresca e garantendo una varianza interessante. Il lavoro di Charlotte Sieling eguaglia e supera quello di Shyamalan nello stile, nella cura e nel coraggio di rischiare. Alcune inquadrature sono assai simili, ad esempio quelle all'interno della clinica, ma tutto risulta più dinamico e coinvolgente. La nuovo regista limita al massimo l’effetto nebbia di cui avevamo già parlato.


Che dire? Un secondo episodio meno citazionistico e più avvincente, più originale. Un prodotto godibile se visto con aspettative non eccessive, ma neanche basse, non le merita. Una serie che lascia spesso lo spettatore a bocca aperta con rivelazioni e colpi di scena azzeccati. La natura di miniserie gioverà. Posso confermare: il piglio e quello giusto.

domenica 24 maggio 2015

RECENSIONI DELLA SETTIMANA 18-24 MAGGIO


FILM: Mad Max: Fury Road (2015)
Lo so, lo so. Abbiamo già parlato approfonditamente di questo film nella rubrica del giovedì con Antonio Margheriti ma, essendo un prodotto molto discusso e avendolo visto in settimana, ho pensato di integrare all’articolo del mio emerito collega con qualche impressione personale. Vi invito quindi a leggere prima questo articolo per capire i riferimenti fatti.

Sostanzialmente penso che il film in questione non sia un capolavoro, ma probabilmente questo giudizio é influenzato dal fatto che il genere action non mi appartiene come altri. Penso però anche di aver visto uno dei migliori film d'azione di sempre. L'azione é la parte centrale del film, occupa circa il 70/80% della pellicola. La regia é dinamica e curata. La fotografia realistica ma al contempo eccessiva e spettacolare. Tutto sembra sopra le righe. L'ambientazione e i personaggi, dal primo all'ultimo, funzionano alla perfezione. L'innovazione del genere femminile al centro di una pellicola culturalmente maschilista alza il livello del prodotto. Finalmente una ventata di novità in un settore per certi versi stantio.
Questa pellicola però presenta dei problemi evidenti che impediscono di raggiungere la perfezione. Il film infatti convince molto più nella prima parte, quando i protagonisti non parlano. Quando invece si raggiunge la prima tregua dalla fuga si ha l'introduzione dei tipici dialoghi stereotipati e improbabili hollywoodiane. Non sono poi d'accordo con Antonio quando dice che il film non eccede mai. Secondo me alcune scene sono volutamente tamarre, ma troppo. A tratti alcune scelte stridono con la durezza e il realismo dell'ambientazione post apocalittica e della carenza di risorse. La trama poi risulta nel suo complesso troppo allungata: non ho apprezzato ad esempio l'introduzione delle donne-guerriere e l'intermezzo inutile con le moto. Alcune imperfezioni che però non intaccano i punti forti del film. Un grande film d'azione. VOTO: 9



ALBUM: The Desired Effect (2015)
Apprezzo molto i Killers, secondo me hanno ottenuto un successo meritato con il loro primo album, Hot Fuss, ma hanno poi smarrito la retta via perdendosi in prodotti molto meno validi, ripetitivi ed inutilmente pomposi. Detto questo devo però ammettere che ogni volta che viene annunciato un nuovo lavoro della band di Las Vegas attendo sempre curioso di vedere il risultato sperando in un’inversione di tendenza.
Brandon Flowers, cantante, frontman e principale fondatore del gruppo, ha iniziato nel 2010 una carriera parallela da solista con la pubblicazione di Flamingo, album vuoto e dimenticabile, senza infamia né lodi. Nel 2015 però ci riprova e stavolta il risultato è anche peggiore. The Desired Effect è a tutti gli effetti uno dei peggiori album che io abbia mai ascoltato: una serie di canzoni pessime, ripetitive, dai toni alti e prive di elementi che possano renderle interessanti. Riff di chitarra sovrastati da tastiere che sintetizzano suoni tipici degli anni ’80. Sfarzo e pomposità esagerati per testi e strutture che non reggono affatto. Molto più vicino ad un album di canzoni di Gardaland, ma neanche di quelle accattivanti che si ascoltano in fila per Raptor o per Oblivion, no, di quelle che portano alla pazzia nella Casa di Prezzemolo. Forse un giudizio condizionato dalle aspettative e dell’amore incondizionato che provo per l’opera prima degli Assassini, ma questo album non voglio ascoltarlo mai più. VOTO: 3.5



ALBUM: Wilder Mind (2015)
Con il primo avevano stupito, con il secondo confermato. Con i terzo album invece i Mumford and Sons cambiano e deludono. La chitarra acustica che aveva fatto la fortuna del gruppo lascia il posto ad una elettrica meno ispirata e meno amalgamata con il resto delle sonorità proposte dall’album. Tutto sembra più forzato, tutto sembra più artificioso e anche i punti forti del gruppo che avevamo imparato a conoscere, quali la voce del cantante, non vengono valorizzati da questo cambio di rotta.
Le canzoni che si alternano sono simili e poco ispirate, manca la verve, manca l’innovazione e manca anche la tradizione. Tutto ciò che rimane è mediocrità, pop poco interessante e poco accattivante. Solo il singolo Believe e Hot Gates ricordano i fasti dei precedenti album.
Cambiare non vuol dire per forza peggiorare. Apprezzo molto gli artisti che rischiano e decidono di abbandonare una strada battuta per esplorare l’inesplorato, ma molto spesso questi commettono evidenti passi falsi, come in questo caso. Il problema di fondo è l’eccessivo avvicinamento ad un pop orecchiabile che non appartiene alla band e che stona inevitabilmente. Sarebbe stata più interessante una sperimentazione ragionata all’interno dello stesso ambito indie. Peccato, aspettiamo però il prossimo album quando sicuramente si tornerà alle origini. VOTO: 5



ALBUM: Wanted on Voyage (2014)
Senti la sua voce profonda e potente e immagini un omone sulla trentina, magari nero, magari sovrappeso, alla Berry White per intenderci. Lo vedi cantare dal vivo e ti ritrovi di fronte un ragazzino di vent’anni con la chitarra, mediamente alto e decisamente molto magro. È difficile pensare che da quel corpicino esca una voce così poco adatta all’idea che l’immagine suggerisce, ma l’abito non fa il monaco e il primo album del giovane artista inglese esalta degnamente le sue doti canore e cantautoriali. George Ezra confeziona un prodotto fresco e classico, un buon mix tra innovazione della nuova generazione e classico indie folk britannico. La chitarra si sente e sovrasta gli altri strumenti. Semplicità è la parola d’ordine che garantisce a questo primo lavoro di Ezra un successo inaspettato ma giustificato. I singoli risultano i brani più orecchiabili e immediati. Una bella scoperta molto promettente. VOTO: 7



ALBUM: Drones (2015)
E voi direte: “Ma quest’album deve ancora uscire. Come fa a receimpressionarlo già?”. E avete ragione, l’album deve ancora uscire e noi oggi parliamo solo dei singoli finora estratti per tenere alto l’hype. I singoli in questione sono tre, in ordine d’uscita, “Psycho”, “Dead Inside” e “Mercy”.
Premetto che nessuno dei tre mi sembra assolutamente da bocciare, ma, già con soli tre brani, la band inglese ha dato prova delle sue potenzialità e ha palesato il fatto che il nuovo album conterrà influenze assai diverse, influenze vecchie e nuove.
Mi duole ammetterlo ma Psycho è forse la meno ispirata delle tre ma anche la meno Muse, la più nuova. Le chitarre elettriche risuonano con potenza e sovrastano tutto il resto, purtroppo anche la voce di Bellamy. Il riff ripetuto però funziona, anche se non coinvolge e prende come al solito. Buoni il testo e il video.
Dead Inside ripropone già una struttura più consona allo stile dei Muse. Le chitarre del singolo precedente vengono affiancate da una batteria imponente e convincente. La voce del frontman è più libera di esprimersi e il testo risulta il migliore dei tre brani estratti finora.
Mercy è invece la migliore, decisamente la migliore. Sembra di essere tornati ai fasti di Starlight. Un prodotto che mescola alla perfezione chitarre, piano, basso, batteria e soprattutto voce. Il cantante è libero di spaziare e mostrare tutte le sue abilità regalando una delle sue migliori performance canore che non vedo l’ora di sentire live. I cori sul ritornello fanno molto anni ’80 ma funzionano ed esaltano. La migliore.

Ovviamente non posso dare un voto su tre soli brani, ma la via è quella giusta. Potrebbe essere un grande album. L’hype aumenta.

venerdì 22 maggio 2015

COMMENTO WAYWARD PINES EPISODIO 1

Dopo l’enorme successo degli articoli-commento dedicati alla deprecabile 1992 ho deciso di buttarmi nuovamente nel mondo delle serie tv settimanalmente. Ma quale scegliere? Di quale parlare? A dirla tutta la “mia” serie comincia a Giugno e davvero non sapevo come occupare il tempo che rimane.
Daredevil? Nah, è già uscita tutta in un colpo grazie a Netflix. Non avrebbe senso analizzare ogni puntata di una stagione già terminata. Barcollavo nel buio quando mi ha chiamato mio fratello. “Hanno istallato MySky, ora abbiamo tutte le serie che vogliamo On Demand”. A quel punto mi sono deciso: era giunta l’ora di Wayward Pines.


L’occhio si apre e la menta va inevitabilmente a Lost. Il protagonista si sveglia ed entra in una tavola calda in una cittadina dello stato di Washington e la menta va inevitabilmente a Twin Peaks (vagamente citato anche nella struttura del titolo). L’FBI complotta contro il malcapitato agente attorno a cui ruota la trama e la mente va inevitabilmente a X-Files. La barista della tavola calda avverte il protagonista della presenza di telecamere ovunque e la mente va inevitabilmente a The Truman Show.
Diciamo che, tralasciando il fatto che questa mente vada troppo spesso in giro, le ispirazioni del celebre M. Night Shyamalan non sono affatto male e già i piccoli dettagli del primo episodio possono catalogare questa miniserie in un filone ben preciso che mescola elementi noir ad altri soprannaturali, il tutto tenuto insieme dall’immancabile velo di mistero.
Appena dopo i titoli di testa veniamo immediatamente catapultati all’interno dell’azione. Non sappiamo quasi nulla del protagonista, né un background né una presentazione, solo un uomo ferito che vaga per una città semideserta. La storia di fondo ci viene spiegata a mano a mano che la narrazione prosegue: l’agente Ethan Burke, sposato, con un figlio e un’amante, era stato inviato a Wayward Pines per investigare sulla scomparsa di due colleghi, ma, una volta arrivato sul posto deve aver subito un “incidente stradale” che è costato la vita all’altro agente che era stato inviato con lui nella sinistra cittadina. Da questo punto in poi entrano in gioco nuovi personaggi locali che dimostrano di sapere indubbiamente qualcosa più di Burke, interpretato da un convincente Matt Dillon, e che portano il protagonista a dubitare della facciata di quella tipica cittadina rustica americana.


Le serie di questo tipo vivono di tensione e in questo episodio essa è sempre alta grazie a due particolari non da poco: le musiche ritmate, mixate alla perfezione e posizionate nel momento giusto e le scelte registiche di Shyamalan, oltretutto produttore e supervisore del progetto. Il regista de Il Sesto Senso (e davvero poco altro degno di nota) decide di dare un tono misterioso e personale all’opera preferendo l’uso di primi piani e telecamere fisse. L’autore di origini indiane opta inoltre per mettere a fuoco unicamente i volti dei personaggi e ciò tende a creare un effetto etere sfocato in tutti gli sfondi delle inquadrature; molto misterioso e sovrannaturale. La regia però può definirsi scolastica nella maggior parte delle scelte e alla lunga l’effetto appena citato potrebbe risultare pesante. Speriamo che i registi che si alterneranno nei prossimi episodi osino un po’ di più conferendo una personalità più interessante all’opera.


Le serie di questo tipo vivono di colpi di scena e questi non mancano: la scoperta del cadavere del compagno, l’intrigo internazionale ordito dallo psichiatra e dall’agente dell’FBI e la scena finale con la telecamera che, spostandosi verso l’alto, mostra una muraglia cinese che circonda la città.
Nonostante non venga esplicitamente mostrata, la componente metafisica della serie, che riprende chiaramente quella di David Lynch, è ben presente e immagino risulterà alla lunga fondamentale per la risoluzione di alcuni misteri presentati in queste prime battute. Il tempo ad esempio; il tempo sembra scorrere in maniera diversa tra la città e il resto del mondo, altrimenti non si spiegherebbe il cambiamento della collega del protagonista nel giro di cinque settimane. Qualcosa legata al tempo non quadra.


Cosa sta succedendo qui? È tutto frutto della mente del protagonista in seguito al presunto incidente o davvero esiste una comunità di persone costrette a vivere in una bolla facendo finta che tutto sia normale? La scene ambientate al di fuori della città suggeriscono più la seconda e anche io spero sia così. Certamente tutti sanno tutto e lo dimostra la barista che cerca di aiutare il protagonista, solo non sappiamo se tutto ciò che vediamo sia effettivamente vero. Mi dispiacerebbe se dopo dieci episodi si venisse a sapere che è stato tutto un sogno dell’agente Burke, ma allo stesso tempo mi dispiacerebbe se tutto si limitasse ad una semplice teoria del complotto ordita contro il protagonista o contro una branca attiva dell’FBI, ma allo stesso tempo mi dispiacerebbe se l’elemento fantastico e misterioso venisse esagerato e quindi tutta la serie perdesse di credibilità. Credo che la buona riuscita di questo prodotto, evidentemente commerciale e rivolto ad un pubblico occasionale, dipenda dal costante equilibrio di queste tre componenti fondamentali.


Per ora posso dire che come prodotto d’intrattenimento funzione, ma ciò è dovuto principalmente al fatto che si basi sul calco fatto dai suoi predecessori. Poche novità e molti clichè che, se mescolati bene, possono dare vita a qualcosa di piacevole. Speriamo bene.

giovedì 21 maggio 2015

NBT: MAD MAX: FURY ROAD

Mad Max: Fury Road (2015) è un sequel di un franchise di successo degli anni ’80. Suona familiare questa frase no? In effetti in questi anni sono usciti o stanno per uscire molti sequel di gloriosi film anni ’80: Robocop (2014), Terminator Genesis (2015), Jurassic World (2015), Star Wars: Episodio VII - Il risveglio della Forza (2016).  Ma, a differenza di questi ultimi, Fury Road è diretto dallo stesso regista dalla trilogia originale: George Miller, il geniale creatore del mondo di Mad Max.
George Miller ha voluto fare questo film alla sua maniera. Aveva un’idea in testa e l’ha portata sullo schermo senza scendere a compromessi (basti pensare che ha fatto costruire delle telecamere ad hoc per questo film). Ne è uscito un film assurdo, esagerato, dinamico, grandioso, originale, esplosivo, adrenalinico, violento, divertente, sfrenato, esuberante, apocalittico, epico.
Mad Max: Fury Road dura due ore e, ad eccezione di pochi e ben posizionati momenti di tregua, sono due ore frenetiche, convulse e deliranti. Questo film riesce ad intrattenere lo spettatore in modo unico per tutta la sua durata. Malgrado tutti i suoi eccessi, nonostante l’azione non si fermi quasi mai, a dispetto dei continui climax di follia rombante non si ha mai la sensazione che il film stia andando troppo oltre, non si avverte mai il desiderio di rallentare. Ci si ritrova esaltati su di un ottovolante di forsennata violenza dal quale non si vuole più scendere.


Quello che stupisce è la cura e la precisione con la quale sono state realizzate anche le scene d’azione più esagerate. Il film rallenta con spettacolari sequenze in slow-motion per farci ammirare meglio alcune sequenze, poi accelera in alcuni punti per accentuare la frenesia del momento. Nelle scene dinamiche il regista non rimane quasi mai sui canonici 24 frame per secondo, ma li aumenta o diminuisce in continuazione. Il lavoro di rifinitura in post-produzione è stato certosino, la maggior parte di Mad Max è stata girata nel 2012 mentre il film è uscito a metà 2015: vuol dire quasi tre anni di massiccia post-produzione. In questi quasi tre anni il film è stato sistemato con un paziente lavoro di cesello fino a farlo diventare quello che è adesso. Questo lavoro di rifinitura è stato fondamentale per poter conferire al film quell’atmosfera particolare che lo caratterizza. Il setting post apocalittico  è curato e credibile nella sua folle assurdità. Ogni luogo viene reso magnificamente e ogni ambiente è intriso del sapore inconfondibile del mondo di Mad Max: sembra quasi di poter avvertire il sapore metallico del sangue in bocca, l’odore pungente della benzina nelle narici, lo scricchiolio della sabbia tra i denti.


Il film non ha un solo protagonista, ne ha due. Infatti, nonostante il suo nome non compaia nel titolo, l’Imperatrice Furiosa (Charlize Theron) è alla pari di Mad Max (Tom Hardy) coprotagonista del film, anzi spesso è proprio Furiosa a rubare la scena a Max. Parlando dei due coprotagonisti mi sento di dire che entrambi hanno fatto un ottimo lavoro anche se devo ammettere che ho apprezzato di più Charlize che con la testa completamente rasata e un braccio amputato interpreta alla perfezione il personaggio di Furiosa. Tom Hardy dal canto suo raccoglie con abilità l’eredità di Mel Gibson e ci consegna un Mad Max poco loquace che spesso si esprime con lamenti e grugniti, ma che nonostante questo non manca di lasciare il segno. Ho apprezzato molto anche il giovane Nicholas Hoult nel ruolo di un “Figlio di Guerra” che combatte con dedizione al servizio di Immortan Joe ( è il villain principale, leader dei Figli di Guerra che lo idolatrano come un semidio) con la speranza di morire in battaglia e poter entrare così nel Walhalla a banchettare con i guerrieri di ogni tempo.


Questo film rappresenta anche una pietra miliare per come vengono concepiti i personaggi femminili nei film d’azione. In Mad Max ci sono parecchi personaggi femminili: oltre a Furiosa ci sono un gruppo di ragazze dette Riproduttrici (giovani dell’Harem di Immortan Joe) e un gruppo di anziane saggie. Queste donne combattano e muoiono esattamente come gli uomini né più né meno. Una delle ragazze finisce sotto le ruote di un camion? Nessuna musica struggente, il protagonista non giura di vendicarla con il pugno rivolto verso il cielo. Ci si comporta esattamente come se fosse morto un personaggio maschile. Il film, colpevole di mettere e donne sullo stesso piano degli uomini, è stato addirittura accusato di eccesivo femminismo. Per quanto mi riguarda ho apprezzato molto la scelta del regista di allontanarsi dalle strade battute del genere action per dare nuova importanza ai ruoli femminili. Ci voleva un cambiamento di rotta in questo senso.


Un altro aspetto che mi è piaciuto particolarmente è stata la scelta di non soffermarsi troppo sulla narrazione. Molte cose non vengono spigate (non sappiamo ad esempio come Furiosa abbia perso il braccio) mentre altre ci vengono solo accennate. Non penso che queste siano debolezze del film anzi credo che siano punti di forza. Volersi focalizzare troppo sulla storia in un film di questo tipo sarebbe stato sbagliato e avrebbe spezzato inutilmente il ritmo. La trama ci viene fatta intuire al volo e poi siamo subito catapultati in un’altra sequenza adrenalinica. Lo spettatore non rimane spaesato dato che il film riesce a far capire il contesto in cui si sviluppa la vicenda e le motivazioni dei personaggi senza rallentare neanche un po’.

In genere sono scettico nei confronti dei sequel perché li considero figli di una mancanza di ispirazione ma con questo film George Miller mi ha dimostrato che non tutti i sequel vengono per nuocere. Mad Max: Fury Road è un film fantastico e se tutti i sequel avessero la qualità di questo film non ci sarebbe nulla di male a produrne in continuazione. Questo film andava fatto perché George Miller non aveva finito di raccontarci l’epica storia di Mad Max, aveva ancora un capitolo da scrivere e questo capitolo si è rivelato essere il più spettacolare di tutti.

Antonio Margheriti



martedì 19 maggio 2015

#HARAGIONESALVINI

Parliamoci chiaro: l’immigrazione di massa rappresenta una delle più grandi piaghe degli ultimi anni. In particolare quella dei ROM, che arrivano nel nostro paese, impongono la loro becera cultura di nomadi e vivono sulle spalle degli italiani perbene scippando, stuprando e uccidendo. Non voglio essere razzista, voglio essere obiettivo. I ROM minacciano apertamente la nostra cultura, formata e difesa nel corso degli anni, e la nostra società. È arrivato quindi il momento di dire BASTA, basta all’immigrazione, basta ai ROM, basta a quei politici sinistroidi, come la Boldrini, che continuano a difendere una popolazione parassita indifendibile. Basta, Salvini ha ragione su tutta la linea, (#haragionesalvini) abbiamo superato il limite, è arrivato il momento che la gente italiana perbene come noi si ribelli a tutto ciò, è arrivato il momento della #Ruspa.


Ho immaginato quindi un giorno in Italia senza più il peso dei ROM e dei loro sudici campi e ho fatto un elenco di tutto ciò che riusciremmo a risolvere in sole ventiquattro ore senza quel popolo di clandestini.


Se li mandassimo tutti a casa le strade sarebbero più pulite;
se li mandassimo tutti a casa ci sarebbe più lavoro per gli Italiani che amano la patria;
se li mandassimo tutti a casa ci sarebbe più legalità e meno scippi;
… ci sarebbero meno tasse da pagare per tutti;
… si abolirebbe la legge Fornero e gli anziani (nel 2015 “non più giovani”) potrebbero andare in pensione a 60 anni;
… i parlamentari rinuncerebbero agli stipendi monstre, alle maxipensioni e a tutti gli agi di cui godono;
… i parlamentari voterebbero finalmente per la diminuzione drastica del numero di deputati e senatori;
Belsito restituirebbe i 40 milioni sottratti;
… il Trota straccerebbe la sua laurea albanese e ne conseguirebbe una più qualificante in Italia, magari in ingegneria dei materiali e delle nanotecnologie al Politecnico di Milano;
Berlusconi smetterebbe di andare a prostitute (minorenni ma lui non sa niente, un po’ come Jon Snow);
… l’ex Cavaliere smetterebbe di “scendere in campo” ogni volta che ha bisogno di una legge ad personam;
… Silvio venderebbe il Milan e la tanto invischiata Fininvest al fantomatico mister Bee;
… Ruby sarebbe davvero la nipote di Mubarak;
… Ruby ammetterebbe di soffrire della sindrome di Benjamin Button;
Renzi comincerebbe a fare le riforme del lavoro consultando prima quelli che del lavoro vivono;
… Renzi imparerebbe l’Inglese;
Shish;
… la Juve smetterebbe di rubare gli scudetti ai poveri lupetti (non gli scout, i romanisti);
… il gol di Muntari sarebbe valido e lo scudetto del 2011 sarebbe assegnato al Milan;
… Conte ammetterebbe di avere un gatto morto in testa;
… tornerebbe Sarabanda con Enrico Papi;
Moooseca;
Civati tornerebbe nel PD;
… Civati uscirebbe di nuovo dal PD perché Matteo non si sopporta, dai, non si può;
… gli amici di Maria ammetterebbero che sta Maria non è che la sopportano troppo dopotutto;
… Renzi comincerebbe a fare una politica di sinistra….. ahahahah no scherzo, questo è impossibile;
… il canone RAI smetterebbe di essere una tassa altamente anticostituzionale;
Mattarella diventerebbe un uomo notabile;
Don Matteo continuerebbe a fare Don Matteo;
… Giurato ammetterebbe di averci trollati tutti per anni;
… si smetterebbe di continuare a tagliare i fondi alla cultura e alla ricerca, aspetti basilari che formano una popolazione e la salvano dal baratro dell’ignoranza;
… ci sarebbero più case vuote, altre case vuote, solo case vuote;
… la distribuzione cinematografica italiana smetterebbe di passare i film dello studio Ghibli trentordici anni dopo che sono usciti in Giappone;
… Fede Moccia finirebbe la trilogia di “Scusa ma…”;
… gli amici di facebook ti saluterebbero se li incontri per strada;
… tutti i cittadini scenderebbero in piazza per manifestare contro la criminalità organizzata che dopo anni ancora resiste e persiste, chissà perché, Eh Giulio? Giulio sapeva, a differenza di Silvio e soprattutto di Jon;
… Barbara D’Urso smetterebbe di guadagnare attraverso le tragedie degli altri;
… Barbara D’Urso smetterebbe di scrivere libri, cioè spero abbia già smesso, me lo auguro;
… Bruno Vespa smetterebbe di giocare coi plastici;
… gli Italiani comincerebbero a capire che democrazia è partecipazione e partecipazione vuol dire che devi partecipare anche tu se poi vuoi lamentarti come già fai;
… Pannella farebbe lo sciopero della fame, ah no aspetta, mi pare che già lo faccia, ma non si capisce bene perché;
… l’Expo sarebbe finalmente pronto;
… si ammetterebbe che il ventennio Berlusconi, caratterizzato da leggi ad personam, immobilismo e proibizionismo, mirato a distruggere psicologicamente una popolazione per renderla incapace di ribellarsi ad una politica che nulla ha a che vedere con la rappresentanza della volontà popolare, forse e solo forse non è stato una buona cosa;
… Grillo smetterebbe di vedere complotti a destra e a manca e valorizzerebbe le buone idee che i five stars con un po’ di cervello hanno proposto in questi due anni;
… Zelig, Colorado e Made in Sud verrebbero cancellate perché delitto contro l’intelligenza umana;
… la Chiesa Cattolica pagherebbe l’IMU;
… Lory Del Santo chiuderebbe la produzione di “The Lady 2”;
… le carceri sarebbero messe a norma secondo le leggi imposte dall’UE;
… la Chiesa Cattolica ammetterebbe di essere un’impresa;
… ci sarebbe finalmente la libertà di espressione e di satira, che sostanzialmente non c’è mai stata (“Oggi cerco Luttazzi e non lo trovo sul canale”);
… Papa Francesco smetterebbe di istigare Denis a delinquere;
… la Chiesa Cattolica smetterebbe di influenzare e condizionare l’italiano medio così tanto;
… la domenica in chiesa ci andrebbero solo quelli che davvero ci credono e vivono secondo gli insegnamenti di Cristo non quelli che vanno perché gli altri vedano che ci sono andati o per avere la coscienza pulita da retaggi culturali ormai banali;
… se firmi contro una donna che offre il suo alloggio ai poveri e ai bisognosi solo perchè questi sono Africani, non credo tu sia un vero cristiano;
… la Boldrini ammetterebbe di avere origini congolesi, in realtà è albina;
… si tornerebbe a credere negli ideali politici che hanno dato voce a milioni di Italiani in passato e si smetterebbe di continuare a sostenere un “Grande Centro” che va dal PD a FI e che prevede una linea di pensiero comune a tutti;
… il Sud smetterebbe di essere più arretrato del Nord. Il Nord che lavora, il Nord che produce mentre al Sud ci sono quelli a cui piace farsi mantenere, quelli che dormono dalla mattina alla sera, Io sono stanco di pagarele tasse anche per…. Eh? Come? Ah non va più di moda il secessionismo e il razzismo verso il Sud? Ah niente allora;
Salveenee finirebbe gli argomenti e, non potendo tornare indietro sui suoi passi (federalismo razzista verso il Sud), concentrerebbe la sua politica sui tombini di ghisa.


Se per un giorno li mandassimo tutti a casa loro (anche se molti o non hanno una casa o ce l’hanno ed è in Italia) ci accorgeremmo finalmente che il nostro problema, il problema degli Italiani perbene sono gli Italiani perbene, gli stessi che dietro una tastiera e l’anonimato di un nickname sparano a zero sugli immigrati auspicando il ritorno delle camere a gas. Gli stessi che oggi sono deputati, ma ieri erano i dipendenti, gli imprenditori che volevano sovvertire il sistema. Il problema siamo tutti, un meccanismo che non cambia e non impara dalla storia, un popolo che, come un certo Adolfo SS, continua a cercare un capro espiatorio per tutti i problemi che affliggono il paese.
Se state ancora guardando il ROM, l’immigrato o il debole in generale giratevi, il problema è altrove, il problema siamo noi.