giovedì 30 giugno 2016

MONTE DI VENERE

Nudità
Di miliardi
di corpi
Di donne
Bellissimi
E primitivi
E insanguinati.

A loro dovete rispondere.
Gridano in piazze
E sono nude
Di tutto

Si sono spogliate
Perché vediate le loro ferite
Sudicie
E mai disinfettate.

La morte
brucia avida
sui loro ventri di vita,
ride e beve il latte dei loro seni,
ubriaca balla  
perché ha fatto un patto vantaggioso
col diavolo
o con Dio.

Sono lerce
E meravigliose comunque.
Tengono i capelli raccolti
Le tette in mostra
E il pube
Senza pudore.

Eccolo il nostro corpo
Anche quando non lo desiderate
Nei vostri incubi
Eccolo
Nello stridore di denti
Ricordatelo
Denti e carezze
Denti e carezze


Dal monte di Venere
Si alza un grido
Che ghiaccia
E poi scioglie.
Dal Nilo
Risorge un respiro antico
Che stringe i suoi fianchi
Nella culla del mondo
Dai Carri del cielo
Cade un pianto
Che annaffia Giugno
Con le sue morti ,
cresceranno molti fiori.

Ma voi
Fiori
Blu
E rosa 
Lascerete sconfitta
E urla
E siete già morti
E giugno vi annaffia comunque.


 Sara

martedì 28 giugno 2016

EXIT MUSIC (NOT FOR A FILM)

In principio avevo in mente di stilare un elenco dei miei album preferiti usciti nel corso di questi sei  floridi mesi – musicalmente parlando – del 2016. L’idea non mi garbava poi molto è ho quindi optato per raggruppare alcuni album interessanti o sottovalutati che per qualche ragione fossero affini.
Da cosa cominciare? Brancolavo nel buio, fino a che la geopolitica è giunta in mio soccorso. Per chi non se ne fosse accorto infatti il Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord© è uscito dall’UE. A pensarci bene poteva pure rimanere dov’era, la geopolitica. La seconda ricerca più digitata sulle tastiere inglesi nelle ore successive al drammatico divorzio è stata “Che cos’è l’UE?”, a dimostrazione che no, nemmeno gli Inglesi, quelli precisi del tè preciso alle 17:00 precise, leggono le condizioni d’uso.
Gli amichetti isolani potrebbero però non essere gli unici ad ignorare cosa ci sia esattamente sull’altra sponda della Manica, quindi per questo nuovo giro di giostra vi propongo cinque gruppi bretoni che forse conoscete, forse no. In ogni caso l’UE non si disgregherà se non li ascoltate. Voi però fatelo, eh.



YAK
Una delle nuove band più promettenti e interessanti al debutto quest’anno è proprio inglese e per di più dal nord dell’Inghilterra, il nocciolo del “leave” insomma. Nonostante questi tre ragazzi siano nati e cresciuti nel cuore operaio dell’inghilterra, culla dei Beatles, The Who, the Kinks e chi più ne ha più ne metta, nel loro sound c’è ben poco, per non dire nulla, di quel che resta della british invasion. Il loro album di debutto Alas Salvation, pubblicato lo scorso maggio suona invece come una versione molto più sporca, cattiva e psichedelica di alcuni gruppi indie della costa est. Hungry Hearts fu il primissimo singolo rilasciato, addirittura nel febbraio 2015.



WILD BEASTS
Un altro gruppo inglese che della tradizione musicale inglese conserva ben poco a cominciare dal nome, ispirato dall’espressionismo francese. D’altronde la tendenza della musica inglese ad internazionalizzarsi non è certo inedita, a dispetto di ogni anacronistico nazionalismo.
Come per quei pochi, buoni gruppi che riescono a forgiare un loro stile originale, le musica dei Wild Beasts non è immediata e i loro album, anche se molto orecchiabili, hanno bisogno di più ascolti per appassionare davvero. Ma alla fine ci riescono sempre. In attesa del prossimo album Boy King, in uscita ad agosto, vi propongo un pezzo dall’ultimo loro lavoro in studio, Present Tense, risale al 2014. Ascoltate Mecca e dite se non vi viene voglia di ascoltarlo tutto.



COSMO SHELDRAKE
Musicista semisconosciuto, anche lui inglese ovviamente. In realtà nella madre patria ci passa ben poco tempo tra corsi di musica e viaggi in giro per il mondo a catturare suoni. Sì, perché nonostante sappia suonare una moltitudine di strumenti, Cosmo fa un larghissimo uso del sampling, campionando suoni che raccoglie durante i suoi viaggi – in The Fly una mosca ad esempio – e campionando se stesso durante i live, come ha anche mostrato su Ted. Per ora ha pubblicato due EP: The Moss, scaricabile gratuitamente dal suo sito e Pelicans We, nel 2015.



FUTURE OF THE LEFT
Non è solo la questione su cui si sta probabilmente interrogando Corbyn negli ultimi giorni, ma è anche il nome di un gruppo punk gallese. Non eccelso, né troppo originale, ma ingiustamente poco considerato. Che poi diciamo le cose come stanno, se non fosse per Gareth Bale e John Cale probabilmente ci scorderemmo che il Galles esiste. Ad ogni modo i Future of The Left hanno appena pubblicato un nuovo album, il loro quinto lavoro, dal titolo che è un programma: The Peace and Truce of Future of The Left. Il disco non è male e se vi piacciono gruppi punk storici come i Minutemen o i Gang of Four apprezzerete canzoni come In a Former Life.



URUSEI YATSURA
La Scozia ha sempre avuto un panorama musicale variopinto e per niente omogeneo. Franz Ferdinand, Belle and Sebastian, Primal Scream, Mogwai, Jesus and Mary Chain eccetera. Una tavolozza di generi e influenze ricchissima se si pensa che tutto lo stato ha la metà degli abitanti di Londra. Ecco, su questa tavolozza gli Urusei Yatsura rappresentano quel colore strano ma affascinante che si è formato quasi per caso mescolandone altri che non c’entravano niente tra loro. Il nome è giapponese e significa più o meno “gente che fa casino”, loro sono appunto scozzesi e la musica che facevano non c’entrava assolutamente nulla né con il Giappone, né con le Highlands. Debuttarono nel 1996 con We Are Urusei Yatsura – la fantasia l’avevano finita tutta per scegliere il nome – album che, con pezzi come First Day on A New Planet, si può dire che abbia definito l’indie rock contemporaneo.


Marsha Bronson


sabato 25 giugno 2016

EVERYBODY WANTS SOME!!

Richard Linklater non sbaglia più un colpo, e, dopo il dibattuto ma valido esperimento cinematografico chiamato Boyhood, rimette mano ai suoi esordi per dare vita al seguito spirituale del film del ’93 “Dazed and Confused”, che aveva segnato il suo primo successo, seppur all’epoca fosse ancora un successo di nicchia. In “Dazed and Confused”, il regista-sceneggiatore raccontava nel dettaglio l’ultimo giorno di scuola di un gruppo di liceali americani nel 1976. Per il suo seguito spirituale, Linklater ha adottato una linea simile, concentrandosi sui giorni che precedono l’inizio dell’anno accademico al College e seguendo nello specifico le scorribande scalmanate del gruppo della squadra di baseball. La storia, questa volta ambientata nell’estate del 1980, vede in Jake, giovane matricola, socievole e aperto alla vita, il fulcro della vicenda, il collante che regge insieme una serie di episodi esilaranti e che apre infine le porte ad un’interpretazione più matura dell’opera. Perché, anche in questo caso, Linklater ha dimostrato le sue capacità di scrittura, al di là di quelle registiche - comunque invidiabili -, riuscendo a proporre delle riflessioni costruttive e interessanti attraverso una facciata divertente che ride di se stessa e che lascia un sorriso stampato sul viso dello spettatore. Dietro una serie di personaggi sui generis si nascondono considerazioni profonde sull’essere umani in comunità, sui contrasti, sulle speranze, le delusioni e i cambiamenti che nascono dall’evoluzione e dallo sviluppo di un soggetto in definizione progressiva. A questo proposito, la scelta dell’età e del momento di vita dei protagonisti non è casuale, andando così a scavare all’interno di una criticità notevole, nella quale spesso si perde l’essenza propria dei soggetti, ossia quel periodo che coincide con il passaggio nel mondo degli adulti.


Il messaggio dell’autore non è però così palese e nulla vieta di godersi il film per l’ottima commedia corale e giovanile che comunque resta, ma ciò coinciderebbe con una riduzione della portata dell’opera. Per andare a fondo, è necessario dunque concentrarsi su personaggi e situazioni che potrebbero sembrare secondari, di poco conto. Nello specifico mi riferisco all’amico del liceo, ora punk credente e praticante, e a Willoughby, compagno di squadra del protagonista dedito al rilassamento e alla telepatia. Ma non agli squali, a quelli non pensa affatto.
Nel primo caso, i protagonisti, membri della squadra di baseball, si trovano ogni giorno ad adattarsi ad un nuovo contesto, ad incontrare persone diverse, ad inventare segni zodiacali per far colpo sulla prossima ragazza. Il momento della riflessione è servito dall’invito del ribelle amico del protagonista ad un concerto punk. Jake e Finn si ritrovano ad impersonare il terzo personaggio diverso nel giro di tre sere. Chi sono davvero non è rilevante. Ciò che emerge è la libertà di essere chiunque dietro quei baffi modaioli, dietro il fare da Casanova. Ciò che emerge è la possibilità ancora plausibile di plasmare la loro materia per indirizzare la vita verso l’espressione piena dell’essere, verso l’originalità, verso quel guizzo che accompagna gli adolescenti sognatori e che si spegne tra il castello delle istituzioni, la produttività e la morte interiore della ripetizione. I nostri atleti preferiti dimostrano di avere ancora una materia attiva dentro che continua a produrre vita, al di là delle convenzioni, all’insegna del divertimento e della spensieratezza.


Nel secondo caso, invece, la questione si fa più profonda, con uno sguardo al futuro ed uno ad un passato perso, rimpianto e infrantosi contro l’originalità dell’essere al di fuori della società. Fin da subito Willoughby pare essere quello del gruppo di amici che meno si sposa con lo stile di vita forsennato e frenetico dei suoi nuovi compagni di squadra. Il biondo rilassato preferisce stare in disparte, ascoltare musica psichedelica e non disdegna l’uso di droghe leggere. Incisivo è il suo discorso al protagonista sull’uso proprio che bisogna fare dei propri mezzi, sulla necessità di perpetrare la propria stranezza senza preoccuparsi del giudizio altrui, senza chiudersi per proteggersi. Allo stesso modo però risulta fondamentale la conclusione della linea narrativa del personaggio, alla luce della quale muta anche la riflessione fatta in relazione al primo episodio. Lasciare tutto con il lato oscuro della luna dei Pink Floyd e il sorriso non è da tutti, ma happiness only real when shared e allontanarsi così tanto dall’aggregazione degli uomini può ritorcersi contro lo stesso soggetto. È proprio questo il punto cruciale: la doppia tendenza. Se da una parte è il soggetto a cercare una sua espressione nel mondo, dall’altra la società necessità, per sua struttura, che il soggetto prenda una posizione, e l’incastro imperfetto di questi due movimenti complessi può allontanare l’uomo da se stesso, dall’essere umano, per rincorrere nel tempo l’ombra di quello che avremmo voluto essere, di un giovane collegiale che non siamo più, tra il biliardo e le stelle.

Ciò che resta, dopo la visione di questo film, è però certamente la consapevolezza della libertà, del tempo che è sempre dalla nostra parte, dell’infinità delle possibilità. Perché è il mondo ad essere infinito, infinito e aperto. E le barriere che vediamo, i muri, le costrizioni, le differenze sono solo nella nostra mente. È l’occhio a confinare questo mondo in uno schema chiuso e repressivo. Contro la nostra natura, contro la voglia di continuare a conoscersi nel fiume d’agosto, mentre Mark Knopfler suona. Mano nella mano.

Frontiers are where you see them.

martedì 21 giugno 2016

DOV’È MARIO? - COMMENTO FINALE

Il quarto ed ultimo atto della miniserie di Corrado Guzzanti è un momento di televisione totale. La critica super partes si estende ad ogni angolo della nostra malata società e il cerchio si chiude. Ogni personaggio sopra le righe ha vissuto un percorso di sostanzializzazione e realizzazione che l’ha portato, in questo finale aperto ma definitivo, a collocarsi con precisione nello scacchiere della società contemporanea, senza stonare e senza strafare. Ma, ad aver subito la trasformazione più definita è stato indubbiamente il personaggio di Mario Bambea, alias Bizio Capoccetti. In quest’ultimo episodio, infatti, attraverso le sequenze oniriche dell’incidente-suicidio, gli argini della divisione mentale si rompono e lasciano il posto ad un individuo reale, frastagliato e non coincidente con le situazioni in cui i suoi due poli l’hanno incastrato. Il Bizio tormentato, che Guzzanti ha portato in scena nel finale, risente delle influenze della sua parte tollerante e intellettuale. Dietro questo doppio personaggio, protagonista anche di un divertente siparietto di metatelevisione legato a Dr. Jack e Mr. Aids, si cela la metafora di un soggetto che siamo noi, combattuti, dibattuti, costantemente tra due fuochi opposti, costantemente obbligati a dover prendere una posizione, che sia intellettuale o filistea, che sia un estremo o l’altro, ma pur sempre un estremo. Ci troviamo invischiati in una società che non tollera la via mediana ed esalta ogni evento, oggetto, soggetto. Etichetta e non lascia lo spaio di un cambiamento. Un po’ la storia di ognuno di noi con la musica: il secondo album di un gruppo sarà sicuramente troppo uguale al precedente o troppo diverso; perché non possediamo più una mente rilassata nei tempi e nei movimenti in grado di mantenersi flessibile ai cambiamenti altrui, ma il nostro ego, le nostre credenze e la necessità di trovare un posto a tutto ciò che ci circonda ci porta all’assolutizzazione della realtà. Rigorosamente in chiave produttivistica e capitalistica. Sempre badando al fine del percorso, sempre pensando materialmente al guadagno. E crediamo che un premio orrendo di una squallida competizione tra comici di bassa lega sia la svolta, in un mondo che fonda sulla predominanza di uno il benessere degli altri, la leggerezza del non essere protagonisti. Questa scissione ingombrante e incompatibile con la società contemporanea non può fare altro che portare Mario Capoccetti al (tentato) suicidio. Bizio Bambea è tutti coloro che non coincidono, che non si riducono, che non si abbassano e che forse in fondo non c’entrano nulla con questa piccola Italia. L’Italia degli chef in TV, dei salotti politici, di twitter, del Ciaone, delle bombe, dei referendum, delle cose importanti, della famiglia, del posto fisso, del razzismo, dei talenti ai talent, della violenza, della paura, dei muri. Che era l’Italia del valzer e l’Italia del caffè.


E in tutto questo si continua a ridere senza freni: Guzzanti continua a mantenere alta il livello di comicità, stavolta forse più riuscito nei momenti in cui le circostanze dovevano assumere una parvenza di serietà (Bambea) piuttosto che nelle sequenze incentrate sull’eccessività del comico di bassa lega. Il ritorno all’ordine dell’intellettuale di sinistra coincide con i momento in cui Guzzanti tira le fila del discorso. Irresistibile la scena in cui Veltroni, ospite della Gruber insieme a Bambea, dimostra di non aver capito nulla dell’intera faccenda e di continuare ad interpretare il mondo per interpreti che rispondano alle esigenze della società, forte del fatto che si è in quanto si appare in questo mondo di duellanti amichevoli. Un mondo a cui però manca il dialogo necessario a sviluppare un reale dibattito. Cosa che infatti viene a mancare anche nel momento in cui Guzzanti sceglie di non scegliere la verità, e di diventare lo scrittore che il mondo vuole. Alla ricerca di sé per gli altri.
Ma la facciata di questa profonda critica complessiva rimane quella di una serie all’apparenza semplice, costruita per episodi che fanno il verso ad eventi con cui ci troviamo a fare i conti giornalmente. Ed è forse in questo aspetto che emerge la capacità innata di Guzzanti, palesemente presente anche in “Dov’è Mario?”, di rendere potenzialmente esilarante e allo stesso tempo tristemente satirica ogni scena di vita vissuta. Ogni frangente è buono per irridere i nuovi modelli di famiglia, lo show business, il festival di Nepi che cambia le persone, i manicomi, l’editto Bulgaro, Charlie Hebdo. Nulla è lasciato al caso e, nel bene e nel male, il nonpiùgiovane Corrado ha dimostrato ancora una volta la differenza che intercorre tra lui e quelli che chiamano “comici” sulle reti nazionali. Un abisso che passa sia dalle abilità tecniche che dall’interpretazione del ruolo del comico satirico.
Considerando in toto “Dov’è Mario?”, la miniserie in quattro episodi di Sky si conferma come un prodotto differente, per persone che vorrebbero essere abituate ad una comicità differente, ma che purtroppo non lo sono. Si potrebbe discutere della trama, dello sviluppo, delle interpretazioni. Ma sarebbero parole vane, perché il livello di giudizio di un’opera concettualmente così superiore alla normale scrittura delle serie TV comedy richiede un salto qualitativo. E allora un Guzzanti rimane un Guzzanti, anche se non ha le unghie. Anche se il mio falegname con trenta mila lire lo faceva meglio.

Corrado Guzzanti, sei un nummero uno!

domenica 12 giugno 2016

TRAUMI INFANTILI - LA BICICLETTA

Piove. Almeno una volta al giorno, qui piove. Manco fossimo a Londra. Ma nonostante questa pioggia torrentizia, che talvolta ti invita a desistere dall’andare a vedere Motta a Padova - e magari ci volevi andare perché magari t’era piaciuta assai la sua performance al MI AMI - l’estate sta iniziando e la gente comincia ad aver bisogno di cose nuove, cose fresche e leggere. Tipo i gelati, i bagni al largo, gli estathé in fondo al banco frigo e le nuove rubriche dei vostri blog preferiti. Tipo questo blog, che è sicuramente uno dei vostri preferiti. Tipo questa nuova rubrica, fresca e gggiovane. Che magari la gente ad un certo punto si stanca di leggere che siamo tutti uguali, tutti bellini, viva la pace e abbasso Salvini. Lo so, devo aggiornare il repertorio. Ho pensato quindi di proporre questi brevi articoletti da giornalino scolastico per raccontarvi quelli che a posteriore ho riconosciuto come i miei traumi infantili, che poi magari sono anche i vostri. E da dove cominciare se non dal più classico: perché tutti ci siamo caduti da quella maledetta bicicletta.



 Sarà stata la primavera del ’99 e a mio padre gli era presa la fissa che quella bellissima bicicletta blu fiammante (perché c’aveva le fiamme attaccate sopra - anche se erano adesivi, no proprio fiamme vere) aveva avuto le rotelle per troppo tempo. All’epoca abitavo al quinto piano di un palazzo di una serie di palazzi di una serie di due “parchi” (anche se di verde se ne vedeva pochino) appena fuori una città mediamente grande; quindi “andare in giro in bici” equivaleva a fare un paio di giretti nel parco di cui sopra, schivare le colonne e gareggiare con i pari età circumnavigando antiestetici palazzoni di periferia. Un sabato quindi mio padre, che il sabato non lavora e gli piace mettere in ordine le cose che trova sulla sua strada, prese la mia piccola bici dal garage, la portò in casa, le tolse le rotelle nere, plasticose, consumate ma ancora affidabilissime, e mi condusse appena sotto casa nostra. Sull’erba? No. Sulla terra morbidosa? Neanche. Sulla pavimentazione bollente in terracotta, con una mattonella mancante ogni due e spuntoni infernali che avrebbero intimorito anche Pantani. Che è comunque meglio del ghiaino, ma comunque non è il massimo per cominciare a cadere (ups - spoiler!).
Scendemmo. Io, mio padre e mia madre. Mio fratello doveva essere già nato, ma quello era ancora il periodo in cui ero padrone indiscusso della scena, quindi per ora dimentichiamocelo. Inforcai titubante la mia bicicletta e mi diedi una spinta; ma più mi spingevo e ci credevo, e più mettevo i piedi a terra per frenarmi e tornare a guardare “La Carica dei 101”. Ero assai combattuto. Allora mia madre mi prese per il sellino e cominciò a reggere la bicicletta in modo da evitare che si schiantasse con violenza contro le mattonelle rotte a spuntoni , sporchi del sangue degli altri bambini che avevano provato a togliere le rotelle. Un giro, due giro, tre giri, con lei tutto occhei. Quarto giro: mia madre mi teneva stretto come sempre e io cominciai a pedalare con più vigore, più sicuro di me e della vita, della bellezza del mondo. Embè? A quattro anni facevo già pensieri profondi e globali. Presi un po’ più di velocità rispetto ai primi giri, pedalavo davvero come se non ci fosse un domani.

“Mamma, guarda! Mamma, guarda che velocità! Mamma, guarda! Mamma! Mamma!? MAMMA?!?

Mi girai e vidi mia madre e mio padre sorridenti mentre mi salutavano con la manina. Bravi loro! Chè così si fanno i genitori? Che quando ti prende la fissa che uno deve andare senza rotelle gliele togli? E sorridevano, perché per loro il bimbo s’era fatto grande. Io però intanto c’avevo il panico. Iniziai ad agitarmi, a perdere il controllo del mezzo, a muovere nervosamente il manubrio manco fosse una di quelle bici fatte al contrario che giri a destra per andare a sinistra. E caddi, male anche. Una bella strisciata a terra, qualcosa che all’epoca mi parve come cinquanta metri, forse cento. Ma che forse era solo qualche centimetro. Però sono traumi, quando ti giri e non c’è più nessuno a sostenerti. E quindi cadi. Però mà, mi potevi sostenere un altro po’, te possino. M’hai fatto scorticare tutto il ginocchio.

E quando i vostri genitori vi hanno detto la classica frase “Macchè ti lamenti? Io alla tua età mi facevo male apposta”, sappiate che non è vero. e questo l’ho capito solo quando ho deciso che, se un giorno dovessi diventare genitore anch’io - magari un giorno lontano -, lo dirò a mio volta. E gli farò imparare ad andare in bici a tradimento.

venerdì 10 giugno 2016

DOV’È MARIO? - COMMENTO EPISODIO 3

“Vent’anni di berlusconismo. Ecco cosa succede dopo vent’anni di berlusconismo”

Alla fine Guzzanti è uscito allo scoperto, con una frase semplice, diretta, che non maschera la satira dietro altra satira, ma che dichiara le intenzioni di una miniserie e connota ulteriormente il quadro generale, aggiungendo un filo logico che alza notevolmente il livello tecnico della scrittura, seppur questo non riesca complessivamente a riempire tutte le falle di cui avevamo parlato la scorsa settimana, nel commento al secondo episodio della serie.
Questo terzo capitolo, nella sua precisione e con una dose notevole di coinvolgimento, si presenta come turning point della miniserie. Lo spettro di Bizio Capoccetti infatti sembra aver preso il sopravvento, come per l’ultimo Hyde, sia nell’aspetto esteriore che nella personalità. Se prima infatti eravamo abituati a scontrarci col rozzo comico solo nelle sudate notti all’Odeon, ora, complice la mancanza della badante-infermiera rumena, le parti si sono invertite: Capoccetti gira a piede libero anche di giorno al grido di “Nummero uno!” (tormentone già cult - almeno per me). Questo capovolgimento dei ruoli si è manifestato anche nella seconda linea narrativa, quella del sogno che affligge il povero Bambea e che, presumibilmente, precede il risveglio della “bestia”. Nel ricordo onirico dell’incidente, infatti, non v’è più traccia dell’ultimo intellettuale italiano.


Si è detto per anni che Guzzanti fosse eccessivamente influenzato dal suo credo politico nella scrittura dei suoi pezzi satirici. Nel caso di “Dov’è Mario?”, con il protagonista sdoppiato nella personalità, il comico romano riesce a colpire con la stessa efficacia i figli del berlusconismo arrogante subito in questi anni e i finti intellettuali di sinistra che vorrebbero guardare il mondo da una posizione soprelevata, data dal loro bagaglio culturale. Due realtà coesistenti nella nostra società, due manifestazioni della decadenza. Esilarante e drammatica la scena in cui l’equipe di #massimiesperti realizza che la scoperta del disturbo di Bambea causerebbe la fine della sinistra in Italia. Una verità, per una sinistra antica che non c’è davvero più, ma che sopravvive nelle parole benpensanti di giovani attempati che non ci credono più da tempo.
Il vero punto a favore di questo episodio è il ritorno alla risata, quella amara e realistica che aveva caratterizzato alla perfezione il primo episodio, ma che era stata in parte oscurata dalle problematiche della serie nel secondo. Stavolta i tempi sono invece bilanciati in maniera più intelligente. Mancano così tempi morti o situazioni-riempitivo talvolta passabili, talvolta evitabili. Restano ancora alcune scelte discutibili, come quella di virare spesso verso il trash, non solo contenutistico, ma anche visivo. Scelta che sarebbe giustificata dalla volontà di trasporre per immagini un modello, quello del neoberlusconismo, centrale nella critica satirica e nella narrazione, ma che in alcuni frangenti appare esagerato e rischia di abbassare il livello medio di una produzione che invece, in termini tecnici sta mostrando, puntata dopo puntata, nuovi spunti interessanti che l’avvicinerebbero più a serie blasonate che ad alcune comedy, magari nostrane, magari scadenti.

Ciò che è emerso da questo terzo episodio è la volontà di Corrado Guzzanti di tirare le fila, di riprendere da dove aveva lasciato e di rispondere al quesito lasciato insoluto: “Dove eravamo?”. “Dov’è Mario?” è sostanzialmente questo: un aggiornamento del momento, uno specchio sull’Italia, per capire dove eravamo quando Berlusconi cominciava a massificare nel basso dello squallore sociale, politico e televisivo, e dove siamo arrivati oggi, quando la società non vede di buon occhio ciò che esula il caro e amato berlusconismo. Una serie che appare in una maniera, ma nasconde ben altro. Non come noi, che appariamo superficiali e tentiamo in tutti i modi di trasmettere questa superficialità anche al nostro interno.

lunedì 6 giugno 2016

IMPICCATO

Si è impiccato
Aveva a malapena la forza di camminare e ne ha avuta abbastanza per ammazzarsi
Si è ammazzato e l'ho ucciso io
Era vecchio, vedovo da poco e ieri mi ha sorriso
Un sorriso per me, che non ci ho badato
Un sorriso per me che non ho fatto nulla per meritarmelo
Un sorriso nella sua immensa tristezza, per me.
Io non ci ho dato peso. E l'ho ucciso.
Io, la corda
Io, il fiato che se ne va subito
Io, l'ambulanza
Io, i carabinieri
Io, un furgone che porta via il cadavere
Nero.
Un feto, secco e senza amore. Sei tu. E io ti ho ucciso.
Non si può piangere una persona che non si conosce
Non si può piangere nemmeno un senso di colpa.
La colpa impregna la pelle ma non lascia uscire nemmeno una goccia
La colpa ti lascia la gola secca e le mani sudate, i vestiti sporchi che devi buttare
La colpa ti lascia cambiare strada ma ti segue da lontano, ti fissa e ti lancia incubi addosso.
Io sono colpevole. 
L'ho ucciso perché ero indifferente alla sua sofferenza
Indifferente al suo sorriso nel giorno prima di morire
Indifferente a quel testamento che ha lasciato solo a me, in uno sguardo troppo veloce.
Veloce.



L'ho ammazzato io, e ora mi nascondo
L'ho ammazzato io, mi verranno a cercare
Ho ammazzato un sacco di gente, nascosta dentro il corpo di un agnello.
Li ho ammazzati io quelli che son morti nel mar Mediterraneo. 
Tutti io. I bambini, le donne incinte,  i giovani studenti che speravano in un futuro migliore. Io.
Li ho ammazzati io i bambini kamikaze
Li ho ammazzati io i neonati che non hanno avuto cure necessarie
Li ho ammazzati io i giornalisti che hanno avuto il coraggio di difendere la libertà di stampa in un posto dove “libertà” è una parola vuota
L'ho ammazzato io Giulio Regeni
Li ho ammazzati io i suicidi del Nepal
Li ho ammazzati io i disoccupati che non trovavano più un senso alla loro vita
Li ho ammazzati io i bambini affamati e assetati
Li ho ammazzati io i ribelli siriani
Li ho ammazzati io i guerriglieri curdi
Li ho ammazzati io i confinati della striscia di Gaza
Li ho ammazzati perché non mi sono presa carico della loro sofferenza
Non li ho degnati di uno sguardo. Non ho fatto abbastanza.
Conoscere.
Entrare nella realtà.
È orrido il fardello della sofferenza, si avvinghia al corpo e avvelena le viscere. 
Non voglio credere che siamo fatti per soffrire. Ma dobbiamo essere disposti a farlo. 
Dobbiamo essere disposti a connetterci con un altro essere umano dall'altra parte del mondo e vestirci della sua pelle.
Vedere le macerie di case che non si possono ricostruire.
Toccare il corpo ormai freddo di una sorella morta in un attentato.
Sentire le bombe.
Annusare l'odore della terra bruciata dopo un incendio che ha distrutto casa tua.
Gustare un pasto che è sempre lo stesso perché non esiste altro di cui mangiare.
Questo ci rende umani
Umani tra gli umani in una connessione divina di sensazioni. 
Il sentire ci lega.
Non lo dobbiamo dimenticare nemmeno quando non abbiamo tempo o quando ci ritroviamo con un impegno dopo l'altro ed il sentire non ci sta proprio. 
Il sentire ingombra, soprattutto se si tratta di ciò che sentono gli altri. Ma a questo punto o si è umani o si è colpevoli. Colpevoli e Indifferenti.


Sara

venerdì 3 giugno 2016

DOV’È MARIO? - COMMENTO EPISODIO 2

 Per capire la mia opinione su questo secondo, controverso episodio della miniserie di Guzzanti, “Dov’è Mario?”, credo sia necessario fare un passo indietro per partire dalle aspettative. Spesso sono infatti le aspettative a determinare l’esito di un procedimento di giudizio più complesso, ma ciò mistifica l’avvicinamento all’evento e lo innalza al di sopra dell’evento stesso. Quindi, se da un lato è necessario formarsi delle aspettative per poter essere consci della validità di ciò che si è in procinto di analizzare in relazione alla nostra, propria forma mentis, dall’altra bisogna contenere le aspettative ed evitare che siano condizioni di giudizio a priori, ossia che inficino il nostro sguardo portandoci a distogliere completamente l’attenzione dal vero oggetto posto di fronte a noi. Che sembra che abbia detto chissà quale verità filosofica perché ho usato un paio di paroloni, ma, detto in parole povere, sono consapevole delle mie stesse aspettative e il mio giudizio verrà comunque condizionato da esse, ma cerco in ogni caso di limitarne l’influenza negativa che possono esercitare. Tutto qua. Era facile. Mannaggia a me e a questi scatti di magniloquenza senza pari. Ma cominciamo.



Ci eravamo lasciati con un Mario sdoppiato nello spirito che, come Dr. Jekyll e Mr. Hide, vive due vite separate, scandite dal giorno e dalla notte. Questo secondo episodio si apre con un Capoccetti in grande spolvero, coadiuvato da una regia discretamente dinamica e interessante, soprattutto se contestualizzata all’apparente leggerezza dell’opera. Ma il consueto show comico non si conclude con la consueta scenetta poco comica della Rumena che viene a reclamare il Fabrizio con zucchetto, e da qui si apre la reale trama dell’episodio, che potremmo rinominare “Alla ricerca della Rumena perduta”; ma che si traduce come un pretesto per mandare avanti la trama principale e spostare il protagonista da un contesto controllato dalla presenza dell’infermiera ad uno di totale libertà/abbandono. Questa situazione porta all’ingresso in scena di un’ottima, divertente ed autoironica Virginia Raffaele, che, dopo il successo di Sanremo (più per demeriti altrui che per meriti propri), comincia finalmente a superare la sua dimensione di imitatrice occasionale per far valere le proprie capacità di caratterista, seppur sul piccolo schermo. Una presenza comunque gradita. Se però Raffaele porta un momento di novità all’interno del cast di noti, la mancanza di tutti quei camei che avevano contraddistinto la prima e morbosa parte del precedente episodio si fa sentire eccome, sfociando in una serie di momenti morti, sia dal punto della trama che da quello, purtroppo, della comicità. In questo secondo episodio infatti si ride, ma si ride molto meno rispetto al primo, con Guzzanti che sembra avere meno mordente rispetto ai precedenti quaranta minuti. In questo secondo episodio è emerso più il Guzzanti cabarettista rispetto a quello innovativo. C’è stato un passo indietro sotto questo punto di vista e, essendo la serie principalmente basata sulla capacità dell’autore romano di saper intrattenere con il riso anche nei momenti che peccando dal punto di vista della scrittura, il passo indietro si è percepito anche a livello di sviluppo della trama. Sono emersi dei limiti notevoli che potrebbero ricollocare la serie da interessante esperimento comico con un fondo di giallo/thriller, al solito prodotto a metà che a noi Italiani viene sempre benissimo.
Se le scene in cui viene portata avanti la storia principale nel presente hanno subito un rallentamento sfociato in una costruzione frammentata e poco accattivante, lo stesso non si può dire della narrazione ripetuta del momento successivo all’incidente. Narrazione inconscia che vede e rivede Mario confrontarsi con Capoccetti. Sembra che in questa sequenza ricorrente ci sia un non detto situato appena sotto il livello del dicibile, una realtà che forse non si rivelerà mai e sopravvivrà al trash forzato e smarmellato dell’opera prima di Maccio Capatonda.


Nonostante dei limiti notevoli, intravisti e superati nel prima episodio, ma ripresentatisi in questo secondo, il prosieguo dell’avventura di Mario Bambea ha saputo comunque regalare un paio di momenti che rimarranno nella storia dell’emittente Sky e che credo un giorno passeranno su blob come i classici pezzi satirici di Guzzanti. Sto parlando del dialogo con il proprietario dell’Odeon - fantastica critica di costume che punta il dito contro la televisione e contemporaneamente contro gli spettatori - e della già citata scena con la escort Virginia Raffaele. Due momenti esilaranti e intelligente che fanno ancora credere che Corrado Guzzanti sia il genio intravisto nel primo episodio. Due momenti che però non salvano la produzione da una puntata decisamente sottotono rispetto agli standard, rispetto alle aspettative.
E ci risiamo: le aspettative. Questo commento sarebbe stato lo stesso senza le aspettative generate dall’episodio precedente della serie? Non credo. Ma credo anche che i pareri espressi in questo breve, ma intenso articolo possano essere condivisi in senso assoluto, a prescindere dalle sensazioni personali fuorvianti e al di là dei condizionamenti del caso. Produrre un commento personale assoluto, al netto delle speculazioni anteriori e posteriori, è pura utopia. Ci rimane quindi un episodio claudicante, una storia impoverita e una comicità poco graffiante. Due episodi per invertire in trend. Forza Guzzanti.


mercoledì 1 giugno 2016

UN'ALTRA GIORNATA AL MI AMI FESTIVAL

Clicca QUI per il racconto della prima giornata del festival.


Non le ho più trovate, le chiavi. Ci sono rimasto male, mi piaceva quel portachiavi ramato a forma di granchio. Eppure ero sicuro fossero le mie quelle mostrate dai Gazebo Penguins lì sul palco. Ma cominciamo dal principio:

Lì c’è il bassista, ho capito dove siamo. Torno subito.

Mi allontano verso il bar, sgusciando tra la folla ammassata in attesa che Contessa salga sul palco. Che poi a me I Cani nemmeno piacciono tanto. Arrivo alla cassa e trovo parecchia gente che ha avuto la mia stessa brillante idea, quindi mi metto in fila pazientemente e passo dieci minuti buoni a pensare che avrei fatto meglio ad andare all’altro bar; intanto sul palco hanno problemi tecnici e la voce del nostro Niccolò va e viene. Dopo essermi reso conto di non avere nessuna possibilità di ricongiungermi alla nave madre di questo blog e un po’ annoiato da un pubblico statico manco fosse un concerto dei Godspeed You! Black Emperor, mi allontano dal palco Pertini, partigiano, e mi dirigo verso il palco Rizla, marca di cartine.
Al Rizla trovo i Gazebo Penguins impegnati ad offrire un’esibizione grezza ma energica ma soprattutto trovo, finamente, un pogo. Apro un breve ma sincero inciso sul pogo: il pogo è l’unica circostanza in cui può esistere sincera solidarietà tra gli uomini, dove i princìpi evangelici trovano espressione, scevri da ogni ipocrisia, dove sei pronto ad abbracciare chi ti ha appena fratturato l’osso parietale con una gomitata, dove non meno di quindici mani si abbasseranno ad afferrarti se dovessi cadere. Il pogo è utopia.
È nel pogo che ho perso le chiavi, quelle col portachiavi a forma di granchio. Il resto della storia lo conoscete, più o meno.


Non pago dell’esperienza sono tornato il giorno seguente, questa volta in macchina in modo da non dover usufruire del servizio navetta, poco efficiente. Mi godo dalla prima all’ultima nota il concerto dei Joe Victor, band country/folk romana in cui milita il tastierista più felice che io abbia mai visto esibirsi e che ha insieme agli altri membri del gruppo, la capacità straordinaria di trasmettere tutta la sua gioia anche al pubblico. Si avverte subito che la giornata promette qualcosa di completamente diverso dal giorno precedente: la gente si muove, tanto, e sono solo le 19.
Dopo di loro salgono sul palco i C+C=Maxigross che ho avuto occasione di vedere dal vivo già una volta. Nemmeno questa volta mi convincono. Offrono un concerto asciutto, asettico, soffrono il contrasto con l’esibizione precedente alla loro e per quanto la musica sia ben suonata non coinvolgono più di tanto. Intravedo un tipo con un’enorme massa di dreadlocks raccolti in un cappello: è uno dei motivi per cui sono qui, ma di lui parlerò fra poco. Intanto vado ad ascoltarmi Matilde Davoli e Wrongonyou al Rizla Stage approfittandone per rilassarmi un poco sul prato, poi torno al Pertini per assistere alla seconda delle ragioni per cui sono andato al Mi Ami anche questo Sabato.


Riesco a trovare giusto in tempo un ottimo posticino ad una buona distanza dal palco, vicino al chitarrista dei C+C=Maxigross e alla sua maglietta psichedelica, e attendo mentre la gente si affolla. I musicisti salgono sul palco, le luci si abbassano, la musica comincia e all’improvviso il pubblico si trasmuta in un mare di teste ondeggianti, come in un qualche rituale atavico: il pezzo è Tanca e a suonare è IOSONOUNCANE. Suona buona parte di DIE, qualche pezzo da La macarena su Roma e chiude con la già classica Stormi, cantata da tutti, ma proprio tutti. Un’esibizione tra le migliori del festival, senza alcun dubbio.
Il resto della serata lo trascorro girovagando per il festival, tra un palco e l’altro senza mai soffermarmi troppo da nessuna parte. Ascolto il pop esotico dei Selton e sono tentato dal pogo che si crea durante lo show dei Ministri, ma desisto memore del giorno precedente. Arriva anche il momento discotecaro con The Bloody Beetroots che fa un paio di passaggi in consolle e il resto del tempo lo passa a saltare, fare cose, dire cose. Ad un certo punto parte un remix di New Noise dei Refused e decido che posso farne a meno. Niente di personale, Sir.


È ormai notte fonda ma manca ancora un atto per chiudere questa seconda giornata e promette di essere una degna conclusione. Dubfiles è un progetto nato dalla mente del produttore dei Mellow Mood Paolo Baldini, il tipo coi dread di cui parlavo prima. Per farla breve c’è un grosso mixer, in ogni canale c’è la traccia di un diverso strumento e lui fa magie abbassando e alzando fader e girando rotelline. Su questa base reggae si innestano improvvisazioni di vari artisti: Giulio e uno dei gemelli (non so distinguerli) dei Mellow Mood e Forelock a ‘sto giro. Tutto ciò avviene non su un palco, ma in mezzo al pubblico, a terra, in un clima danzereccio di dread oscillanti, visi spensierati e menti forse non troppo lucide difficile da descrivere con efficacia, bisogna viverlo. Perfino Carlo Pastore ondeggia con un drink in mano e un sorriso ebete stampato in faccia.
Con questa immagine (quella dei Dubfiles, non la faccia di Pastore) si è chiusa l’esperienza MI AMI di quest’anno, con un bel po’ di buona musica, qualche storia da raccontare in più e un mazzo di chiavi in meno.


Marsha Bronson