lunedì 26 marzo 2018

TRAUMI INFANTILI - TOY STORY 3


Toy Story 3 uscì nel lontano 2010, quando avevo già 15 anni. Fuori età per i cartoni animati, fuori età per i traumi infantili. Già traumatizzato abbastanza. Eppure quel film si legava in maniera così egregia con i capitoli precedenti da farci tornare bambini nell’arco della visione. Quella sala era una macchina del tempo verso il passato prima e il futuro poi. I primi due film erano rivolti ai bambini di allora, il terzo invece rompe la tradizione e punta ai bambini di allora, gli adolescenti o giovani adulti di oggi, per chiudere un cerchio. Eravamo noi a scrivere i nostri nomi sotto i piedi di Woody e Buzz, noi a creare un universo in camera nostra, noi che un giocattolo dovevamo portarcelo dietro sempre e comunque. Era la realizzazione di un sogno d’infanzia e non so se nel mio caso ci fosse arrivata prima la Pixar o la mia fantasia, ma sono stato convinto che quei giocattoli sotto il mio letto e nell’armadio avessero di ché discutere durante la notte, non appena crollavo in un sonno profondo.


I primi due film sono stati la spalla dell’infanzia; poi è arrivato il terzo capitolo a mostrarci la realtà del tempo che è passato e di un’infanzia che vive ancora nelle videocassette. La conclusione dell’epopea della grande fuga dei giocattoli dal Sunnyside è anche la fine di un’era, il passaggio di un testimone da parte di Andy che accetta l’evoluzione della sua vita. Il ragazzo in procinto di partire per il college, la vita adulta che inizia a farsi, il momento in cui dobbiamo chiudere la nostra infanzia in una scatola e riporla in soffitta o regalarla ad un altro bambino, quel ragazzo siamo noi che insieme al film maturiamo e guardiamo verso il futuro. Toy Story 3 mette di fronte al fatto compiuto di un rito di passaggio e il ragazzo di oggi non può fare a meno di crescere. E succede di sentirsi cambiati, diversi dopo la visione di un cartone animato che avevano detto essere per bambini e invece parlava a noi.


La morte di Fabrizio Frizzi arriva come una fitta e richiede ancora una maturazione. Per i bambini dei primi due film, per i ragazzi del terzo capitolo, quelli che avevano chiuso i giocattoli in una scatola è arrivato il momento di recuperare la nostra infanzia e donarla a chi saprà farla rifiorire. Ma è difficile dover lasciare il bambino che era in noi e accettare che quei giocattoli racconteranno ancora tante storie, ma non saranno le nostre. Avranno ancora molto di cui discutere sotto il letto di qualcun altro. La giornata di oggi passerà alla memoria come un trauma infantile, perché il lutto ha colpito i bambini che eravamo. Non sentiremo più la voce di Woody rendere piacevole un’ora della nostra giornata. Credevo che il mio vecchio cowboy fosse ancora in soffitta, ora non c’è più.

Ciao

domenica 25 marzo 2018

L’ODORE DELL'ANIMA


Siamo la persona che impariamo a conoscere meglio nella nostra vita. Ci scaviamo dentro per nasconderci in noi stessi, per la paura di essere noi estranei. Così scopriamo limiti, sogni di chi ci abita e non sempre ci corrisponde. Amiamo fino ad odiare e odiamo fino ad amare lo stesso sguardo stanco che ci ricambia ogni alba e ogni tramonto. Eppure non siamo in grado di sentire il nostro odore, ciò che di istintuale è rimasto in fondo a quest’abito delle grandi occasioni mancate. Il paradosso umano è vivere immersi nel proprio odore senza avere mai l'occasione di percepirlo. L’unico modo che ci resta per scoprirlo è lasciarci toccare e raccontare dall’altro, senza il timore di scovare una nota acre, imprevista. Senza l'insana paura di non riconoscere lo specchio successivo. E forse è nella socialità che troviamo quel frammento di noi che manca all’appello e attraverso il quale possiamo ricostruirci. Nella narrazione collettiva siamo forse più sinceri di quanto non lo siamo mai stati con noi stessi.
L’uomo che ha perso il contatto ha rinunciato per sempre a conoscere il volto nascosto della sua anima.

lunedì 19 marzo 2018

ANNIENTAMENTO - LA FANTASCIENZA SU NETFLIX


Dopo il deludente Mute di Duncan Jones, la svolta cinematografica di Netflix prosegue con Annientamento, secondo film da regista per Alex Garland, già autore dell’acclamato Ex machina. Annientamento è un’opera curata, complessa e ben scritta che richiede allo spettatore un passo in avanti per poter essere colta nella sua essenza.


Natalie Portman è Lena, biologa congedata dall’esercito statunitense provata dalla lunga assenza del compagno Kane. La situazione iniziale di sofferenza sembra risolversi quando, ad un anno dalla scomparsa, Kane riappare improvvisamente a Lena, senza dare spiegazione alcuna sul periodo di assenza, ma l’uomo accusa subito un malore inspiegabile che conduce la moglie alle soglie dell’area X.


Delle premesse abbastanza usuali vengono rimescolate nel prisma dinamico di una trama fitta di riferimenti puntuali a temi vergini per la fantascienza contemporanea: dal superamento della colpa alla crisi di coppia, passando per lo studio sulle cellule tumorali. Elementi che si aggiungono in modo convincente ai temi classici e alle modalità consuete del genere per dare vita ad un’opera originale e per certi versi innovativa. In realtà, da questo punto di vista, il film potrebbe trarre in inganno e dare un’immagine di sé dispersiva, quando invece l’attitudine per accogliere la molteplicità della pellicola è quella di scindere i mezzi dai fini, i temi introdotti a sostegno della tesi centrale e la tesi centrale stessa. Anche in questo caso si tratta di un’interpretazione complessiva assolutamente personale, ma in un’ottica finalizzata crea meno difficoltà la natura occasionale di alcuni momenti, evidentemente mezzi tematici. In chiave metaforica, la questione del tempo nell’area X è certamente un accessorio del film, come lo è anche il discorso sulle cellule tumorali. Credo che il regista volesse focalizzarsi maggiormente sull’acquisizione di un’identità nella nostra contemporaneità e sulle conseguenze che essa comporta all’interno della coppia. Il tema della colpa per il tradimento di Lena, i flashback talvolta sconnessi che ci vengono mostrati come rimandi al pensiero della protagonista nella sua escursione verso il faro sono tasselli di un puzzle più grande che ha il suo compimento nel finale. Il momento in cui nessuno dei due protagonisti rispecchia più la figura che era all’inizio del percorso, ma l’identità deve farsi da parte di fronte ad un riconoscimento anche minimo di una familiarità. Un sentimento molto istintivo, animalesco, in linea con lo sviluppo biologico dei personaggi nell'area X. Un finale che potrebbe rappresentare una conclusione lieta per la vicenda mostrata, ma che lascia un senso d’incompiutezza assoluta rispetto al lavoro sottotraccia che l’opera porta con sé. In ogni caso, come nel corso del 2017 avevamo visto fare a Madre! di Darren Aronofski, anche Annientamento non sceglie autonomamente una chiave di lettura, ma lascia la libertà allo spettatore di cogliere gli elementi che sente più affini per produrre un’interpretazione personale. E questa tendenza si richiama ad un’ermeneutica che negli ultimi anni ha perso troppo del suo fascino ed è un dovere supportare un cinema così presuntuoso.


Annientamento inoltre non si riduce solamente ad un’interessante e aperta idea di fondo che regge da sola una struttura, ma essa è anche presupposto per la libera creazione di Alex Garland che, dopo aver dimostrato doti eccellenti nella sua opera prima, dà sfogo alla sua fantasia e costruisce un’ambientazione dal forte impatto visivo. L’idea di fondo del DNA rifrangente all’interno dell’area X dà all’autore la possibilità di creare mischiando idee differenti, nel contesto di un disturbante effetto luminoso. L’ambientazione si compone di grandi praterie a cui si contrappongono edifici abbandonati e disadorni. Sia alla luce del sole che nelle scene in notturna, i luoghi del film non smettono di trasmettere una sensazione d’ignoto che richiama contemporaneamente la paura e lo stupore. Vorremmo che ci venisse mostrato altro di quell’unicum biologico, ma al tempo stesso soffriamo la vista e il pensiero delle creature che potrebbero assalire le protagoniste da un momento all’altro. La tensione visiva, coadiuvata da quella uditiva, non cala mai e contribuisce al sostentamento di un ritmo preciso e deciso.


Il cast di protagoniste è forse uno degli elementi meno riusciti della pellicola, che non riesce davvero a connotare nella gusta maniera i membri della squadra esplorativa e non restano impresse come le creature, le ambientazioni o i momenti cardine dell’opera. La loro presenza più che altro scorre senza particolari sussulti, funzionale alla generazione di un sottile senso dell’orrore e allo sviluppo di un concetto.


Annientamento è cinema coraggioso e alto che, nel complesso della proposta cinematografica di Netflix, riscatta parzialmente i due mezzi flop precedenti. Al tempo stesso però è un dispiacere non aver avuto l’occasione di vedere sul grande schermo l’opera ultima di Garland, e qui, soprattutto per questo genere, la linea della casa di produzione mostra il fianco. La Paramount ha distribuito il film nelle sale in alcuni stati del nord America prima del rilascio sulla piattaforma e le presenze nei cinema sono state nient’affatto trascurabili. Dare la possibilità al pubblico di scegliere la modalità di fruizione, anche ad un paio di settimane dal rilascio “gratuito” in streaming, potrebbe essere la soluzione, il giusto compromesso.

domenica 11 marzo 2018

LADY BIRD - UN NOME PER UNA VITA


La libertà di essere chiunque travalica il nostro nome?
Lady Bird è la storia di un nome, di un anno speso alla ricerca dell’emancipazione dal passato e dal presente. Christine viene da una bizzarra famiglia in dissesto economico dopo il licenziamento del padre e deve affrontare i dubbi dell’ultimo anno di liceo senza la solidità di un futuro aperto e la tranquillità di un rapporto chiaro con la madre.


Lady Bird disegna un groviglio di strade che cominciano a perdersi nel deserto e altre che sopravvivono confluendo verso un’unica direzione. La protagonista vive la condizione di veder morire uno dopo l’altro i fantasmi del suo futuro senza la possibilità di salvare la sua vita dalle scelte obbligate. È intrappolata in una situazione che designa per lei un avvenire già scritto, con l’università vicino casa e un nome a pesare sulla sua vita sociale. Per contrastare una vita che va naufragando, Christine sceglie di cambiare nome e di farsi chiamare “Lady Bird”. Da quel momento in poi la sua personalità va mutando di pari passo con le scelte che lei pensa di imporre a se stessa. Decisioni che sembrano finalmente segnare la strada della sua definitiva maturazione, ma che finiscono inevitabilmente per regalare alla protagonista solo traumi e delusioni. Ma lo spirito tenace di Lady Bird non demorde, arrivando anche ad invertire l’ordine sociale prestabilito, portandola oltre i limiti che il suo nome, il nome che la sua famiglia aveva scelto per lei le imponeva. Almeno fino alla frase chiave dell’opera:

Le persone si chiamano a vicenda con i nomi che i propri genitori hanno scelto per loro, ma non credono in Dio

Quando nasciamo occupiamo una nicchia nella culla della società e crescendo, cambiando, siamo in grado di muovere la nostra posizione rispetto al mondo, ma non possiamo cancellare il solco lasciato dal nostro passaggio. Il nostro percorso qui e ora.


Il nostro nome ci orienta, è il taglio che i nostri progenitori hanno scelto per noi, l’unica condizione nella quale possiamo esistere ed essere presenti nella nostra realtà. Questa è la grande responsabilità di un nome e del peso trascendentale che esso porta con sé; non un capriccio, non un accessorio. Quando veniamo alla luce abbiamo le potenzialità di diventare chiunque ma non potremo mai smettere di essere noi stessi. Il nome che potiamo ha in sé i luoghi, i momenti, le nostre storie e anche le possibilità.
Lady Bird è la storia di un percorso di formazione che porta la protagonista alla scoperta dei limiti del suo nome e delle immense ricchezze che esso potrà regalarle. Anche se la sua casa è a Sacramento, nella zona povera oltre i binari. Maturare, entrare nell’ottica adulta è superare l’inseguimento continuo della nostra ombra e accettare di essere chiamati per nome. È una crescita che si avvicina molto ad una decrescita, al ritorno alla spensieratezza dell’infanzia, quando non avevamo concezione di essere in un altro posto da noi.


Un giorno, sbadatamente, ci accorgeremo che quello che abbiamo è ciò che siamo sempre stati. A volte riguardiamo un sentiero, uno scorcio nascosto in fondo alla via e scopriamo di appartenere ai nostri luoghi tanto quanto essi appartengono a noi. E potremo rinunciare al nostro nome e a quello dei nostri genitori, ma non possiamo cancellare la nostra via illuminata dal sole, nell’estate di Sacramento.

martedì 6 marzo 2018

OSCAR 2018 - PERCHÉ IL CINEMA HA PERSO ANCORA


La cerimonia politica più cinematografica dell’anno ha chiuso i battenti rimandandoci alla prossima edizione. È arrivato il momento di tirare le somme per la notte degli Oscar 2018, tra vincitori e vinti, esclusi e sorprese, nel segno del politically correct. Il 2017 è stato un anno pieno di spunti interessanti per connotare in chiave politica la premiazione dell’Academy, ma tra i tanti, a discapito delle premesse più strettamente legate al mondo di Hollywood, ha probabilmente prevalso la questione messicana, in linea con le candidature. Ma, in pieno regime democratico, questa prevalenza non ha annullato altre battaglie civili fondamentali: dallo scandalo molestie alla questione afroamericana; trasformando rapidamente la serata in una caccia alla battaglia sociale dietro il premio. Quest’anno donne e ispanici sulla cresta dell’onda, al ribasso asiatici e omosessuali. La borsa dell’Oscar.


La cerimonia si è aperta con un monologo compassato di Kimmel che ha introdotto e liquidato in pochi minuti il caso Weinstein, aprendo la strada ad una serata costruttiva e non distruttiva. Il resto della conduzione si è trascinato dall’ombra di questo primo momento e - ad eccezione di un paio di momenti d’ilarità in cui il paradigma delle star è stato capovolto - l’opera di collegamento di Kimmel si è attestata sul livello scadente delle ultime edizioni. Non vedo più presentatori in grado di dare un’impronta indelebile alla cerimonia, e forse ciò andrebbe contro gli interessi dell’Academy, ma questo format mette su un piano marginale la conduzione e tutto ciò che un autore televisivo o un comico può portare di suo dai programmi che struttura parallelamente agli Oscar. Anche il presentatore, negli ultimi anni è stato sacrificato sull’altare del buon gusto.

"Questo lo poggio qui. Che nessuno lo tocchi"
E invece...

E quindi le premiazioni. Dividerei gli Oscar in due categorie: i premi tecnici o minori e i premi maggiori. La distinzione sta nella visibilità e nell’eco che un premio ha e mantiene nel tempo. Da una parte momenti secondari che saranno presto tradotti in numeri dall’industria cinematografica, dall’altra momenti di visibilità assoluta da strumentalizzare all’occorrenza. Le categorie minori hanno visto quindi trionfare film meno inseriti nel dibattito politico e quindi l’assegnazione potrebbe essere stata meno influenzata dal momento storico, le categorie maggiori hanno invece subito il peso del contrasto contro il governo Trump a cui era chiamata la serata delle stelle. Allora alcuni premi hanno intrinsecamente in loro un valore che travalica l’ordine della settima arte. E il cinema passa troppo rapidamente da essere veicolo di messaggi sociali a strumento di propaganda. Perché a questo punto la competizione prettamente tecnica ha da tempo perso la sua ragion d’essere.


Il muro ai muratori. Tema cardine: il muro che il presidente ha ordinato di completare nella sua legislatura a difesa del confine col Messico. Quindi prima alcuni accenni sul red carpet, Salma Hayek che accentua l’accento ispanico e altri siparietti preparati, poi Coco, che vince con merito il premio per il miglior film d’animazione e sul palco si presenta una squadra di Messicani tra cui un bambino che ha il solo compito di concludere il discorso con un “Viva Mexico”; infine il vincitore morale e materiale della serata: The Shape of water di Guillermo del Toro. Miglior regia, miglior colonna sonora, miglior scenografia e soprattutto la statuetta delle statuette per il miglior film. Era effettivamente il miglior film? Probabilmente no. Moonlight - se qualcuno ancora ricorda questo titolo - era effettivamente il miglior film dell’edizione 2017? Assolutamente no. Allora cosa stiamo premiando? Cosa stiamo guardando? Eppure c’è stato un peggioramento evidente nella scelta dell’Academy che ha inficiato ancor di più la competizione: se la motivazione per la premiazione di Moonlight era legata sì alla troupe totalmente afroamericana, ma anche e soprattutto al fatto che questo spirito fosse trasposto su pellicola attraverso le tre età del protagonista, per The shape of water non si può dire lo stesso e il grande supporto alla vittoria del film di del Toro è stato il regista stesso e la posizione del trio messicano (del Toro, Iñarritu, Cuaron) rispetto all’Academy. Nell’ottica della premiazione dello scorso, il premio per il miglior film quest’anno sarebbe dovuto ansare a Tre manifesti ad Ebbing, Missouri, che incarna un pensiero politico nel linguaggio cinematografico - oltretutto un messaggio forte e ben strutturato contro il regno di violenza di Trump - ma con il condizionamento esterno di tutto ciò che ha prodotto un film come The shape of water, il cinema è finito alle ultime posizioni nella decisione finale; e forse questo premio è andato anche contro del Toro stesso, mettendo in secondo piano l’amore incondizionato per la settima arte che l’autore ha infuso nella sua opera.
E allora assumiamo gli Oscar per quello che resta di una competizione sociale: un manifesto di solidarietà, uno spettacolare passatempo per il cinema.

domenica 4 marzo 2018

OSCAR 2018: I MIEI PRONOSTICI


A poche ore dalla cerimonia più attesa del mondo del cinema ci ritroviamo a fare lo stesso gioco degli anni precedenti. E proprio come un gioco vano presi anche gli Oscar, che sono celebrazione e autocelebrazione del cinema americano in tutto il suo sfarzo. I premi dell’Academy poggiano sulla settima arte, ma non si muovono nella materia della settima arte; e quindi entrano in gioco altre componenti, politiche, sociali. Premi alla carriera sotto mentite spoglie e altri decisi a tavolino per i favori dei produttori. Ma la facciata di tutta questa finzione resta un grande spettacolo per appassionati e non. E cercare di azzeccare qualche pronostico aumenta il divertimento.



Miglior film
Chiamami col tuo nome
Dunkirk
Get Out
Il filo nascosto
Lady Bird
La forma dell’acqua
L’ora più buia
The Post
Tre manifesti a Ebbing, Missouri

Diversi titoli di pari livello, ma il premio va sempre contestualizzato nel momento presente e il miglior film di questo 2018 confuso e infelice deve essere il rabbioso Tre manifesti ad Ebbing, Missouri. Con il beneplacito di Guillermo del Toro.



Miglior regia
Christopher Nolan, Dunkirk
Greta Gerwig, Lady Bird
Paul Thomas Anderson, Il filo nascosto
Guillermo del Toro, La forma dell’acqua
Jordan Peele, Get Out

La miglior regia che ho avuto modo di ammirare in sala quest’anno è senza dubbio quella di Nolan, in grado di riformare i canoni del war movie. Ma le congiunzioni astrali dicono che quello a del Toro sia il premio più scontato della serata; chi sono io per andare contro il volere degli dei (del cinema)?



Miglior attore protagonista
Daniel Day-Lewis, Il filo nascosto
Daniel Kaluuya, Get Out
Denzel Washington, Roman J. Israel, Esq.
Gary Oldman, L’ora più buia
Timothée Chalamet, Chiamami col tuo nome

Gary Gordon Oldman aveva già vinto dopo il primo trailer de L’ora più buia. Facile.

Miglior attrice protagonista
Frances McDormand, Tre manifesti a Ebbing, Missouri
Margot Robbie, Io, Tonya
Meryl Streep, The Post
Sally Hawkins, La forma dell’acqua
Saoirse Ronan, Lady Bird

Grandi performance, molto più che per la controparte maschile. Sfida più agguerrita, ma a vincere sarà Frances McDormand in Coen, che oltre ad aver interpretato magistralmente un personaggio violento e meraviglioso, è anche la miglior attrice in concorso in senso assoluto. Meglio di Meryl Streep, ecco, l’ho detto.

Miglior attore non protagonista
Christopher Plummer, Tutti i soldi del mondo
Richard Jenkins, La forma dell’acqua
Sam Rockwell, Tre manifesti a Ebbing, Missouri
Willem Dafoe, The Florida Project
Woody Harrelson, Tre manifesti a Ebbing, Missouri

Non ho avuto modo di vedere The Florida Project, ma Plummer ha salvato in extremis una sceneggiatura scricchiolante subentrando a pochi mesi dall’uscita nelle sale di Tutti i soldi del mondo, Jenkins ha riscritto il ruolo della spalla comica nei film simil-Disney e Harrelson è riuscito a trovare il punto d’incontro di ironia e dramma ad altissimi livelli. Ma l’agente bigotto e violento di Sam Rockwell non ha eguali e Tre manifesti ad Ebbing, Missouri sarebbe stato tutt’altro film senza il ragazzo dalla luna.



Miglior attrice non protagonista
Allison Janney, Io, Tonya
Laurie Metcalf, Lady Bird
Lesley Manville, Il filo nascosto
Mary J. Blige, Mudbound
Octavia Spencer, La forma dell’acqua

In questo caso invece i ruoli si invertono e, per quanto riguarda il ruolo da non protagonista, sono stati gli uomini ad offrire le prove attoriali più eccellenti. nel livello medio spicca Allison Janney, madre odiosa e di stazzata di I, Tonya.

Miglior film d’animazione
Baby Boss
Coco
Loving Vincent
Ferdinand
The Breadwinner

Loving Vincent è il più poetico, ma la Pixar continua a viaggiare ad altri livelli qualitativi. Quando poi ci sono anche i lacrimoni…

Miglior sceneggiatura originale
Get Out
Lady Bird
La forma dell’acqua
The Big Sick
Tre manifesti a Ebbing, Missouri

Sfida a tre tra Lady Bird, la forma dell’acqua e Tre manifesti ad Ebbing, Missouri. Quello alla miglior sceneggiatura originale sarà tra i premi decisi a tavolino per bilanciare la serata o decretare il successo assoluto di una pellicola. Credo che una buona scelta sia il film di Martin McDonagh



Miglior canzone
“Mighty River”, Mudbound
“Mystery of Love”, Chiamami col tuo nome
“Remember me”, Coco
“Stand Up for Something”, Marshall
“This is me”, The Greatest Showman

“Remember me” contro “This is me”. Con “Remember me” però si piange pure. Io voto Coco.

Miglior sceneggiatura non originale
Chiamami col tuo nome
Logan
Molly’s Game
Mudbound
The Disaster Artist

Competizione particolare, con un fumetto e un altro film a competere per la statuetta. Dopo le lodi al film di Guadagnino, la produzione internazionale di Chiamami col tuo nome non tornerà certo a casa a mani vuote.

Migliori costumi
Il filo nascosto
La bella e la bestia
La forma dell’acqua
L’ora più buia
Victoria & Abdul

Film ambientato nel mondo della moda, l’Oscar ai migliori costumi è d’obbligo.

Miglior trucco e acconciature
L’ora più buia
Victoria & Abdul
Wonder

Due parole: Winston Churchill



Migliore scenografia
Blade Runner 2049
La Bella e la Bestia
Dunkirk
La forma dell’acqua
L’ora più buia

Entriamo nel merito dei premi più tecnici, quelli di cui nessuno ha memoria ma che sono indispensabili per gonfiare i numeri dei film più acclamati. Lo meriterebbe Blade Runner 2049, mi accontenterei se a vincerlo fosse Dunkirk. Il premio andrà a La forma dell’acqua.

Miglior montaggio sonoro (“sound mixing”)
Baby Driver
Blade Runner 2049
Dunkirk
La forma dell’acqua
Star Wars: Gli ultimi Jedi

Non c’è gioco di potere che tenga. Il montaggio sonoro è una storia tra Dunkirke e Baby Driver. A trionfare sarà il primo.

Miglior effetti speciali (“visual effects”)
Blade Runner 2049
Guardiani della Galassia: Vol. 2.
Kong: Skull Island
Star Wars: Gli ultimi Jedi
The War – Il pianeta delle scimmie

Qualche titolo più fresco e spensierato per un premio quasi scontato.

Miglior fotografia
Blade Runner 2049
Dunkirk
La forma dell’acqua
L’ora più buia
Mudbound

Altri titoli meriterebbero la statuetta, ma quest’anno vedo l’accoppiata regia-fotografia.



Miglior sonoro (“sound editing”)
Baby Driver
Blade Runner 2049
Dunkirk
La forma dell’acqua
Star Wars: Gli ultimi Jedi

Mi pare che nello statuto dell’Academia ci sia una voce che vuole il miglior sonoro ad un film di guerra, ma non sono sicuro.

Miglior colonna sonora originale
Dunkirk
Il filo nascosto
La forma dell’acqua
Star Wars: Gli ultimi Jedi
Tre manifesti a Ebbing, Missouri

Star Wars sarebbe sa premiare tutti gli anni, anche quando non esce un film di Star Wars. Ma tra Zimmer e Desplat credo abbia più chance il secondo.

Miglior montaggio
Baby Driver
Dunkirk
Io, Tonya
La forma dell’acqua
Tre manifesti a Ebbing, Missouri

Abbiamo fatto finta di nulla, ma Baby Driver non può essere ignorato in eterno. Questa categoria DEVE essere sua. Punto.

Miglior documentario

Abacus: Small Enough to Jail
Faces Places
Icarus
Strong Island
Last man in Aleppo

Miglior film straniero
A Fantastic Woman
Loveless
The Insult
On body and soul
The Square

Miglior cortometraggio documentario
Edith+Eddie
Heaven is a Traffic Jam on the 405
Heroin(e)
Knife Skills
Traffic Stop

Miglior cortometraggio
DeKalb Elementary
My Nephew Emmett
The Eleven O’Clock
The Silent Child
Watu Wote/All of Us

Miglior cortometraggio animato
Dear Basketball
Garden Party
Lou
Negative Space
Revolting Rhymes


Lo scorso anno feci un rispettabile 16/25. Quest’anno punto all’en plain. Avete il coraggio di sfidarmi? Fuori la vostra lista.

giovedì 1 marzo 2018

MUTE - CHE FINE HA FATTO DUNCAN JONES?

Dopo aver monopolizzato il mondo delle serie tv, Netflix ha deciso di investire cifre importanti anche sui lungometraggi originali distribuiti direttamente attraverso la piattaforma streaming. La riprova del cambio di scelta produttiva è stata la distribuzione del trailer di The Cloverfield paradox a livello internazionale attraverso la vetrina offerta dal superbowl dello scorso 5 febbraio.


Tra i vari prodotti originali Netflix di questo inizio 2018 spicca Mute, thriller sci-fi ad alto budget diretto da Duncan Jones. Il vero motivo d’interesse verso questo film, dal mio punto di vista, non stava tanto nello sviluppo del paradigma Netflix in ambito cinematografico, ma proprio nella figura del regista, primogenito di David Bowie, già autore di due instant classic come Moon e Source code, prima di dedicarsi al fallimentare progetto Warcraft. Il nome di Duncan Jones racchiudeva in se le enormi premesse di Mute: in primo luogo certamente il ritorno del regista alla fantascienza più pura dopo la parentesi fantasy; proprio in questo genere Jones aveva saputo dare prova delle sue indiscusse capacità cinematografiche. Il film si presentava inoltre come il seguito spirituale di Moon. In secondo luogo l’omaggio al padre defunto, omaggio voluto proprio in occasione di questo film, ambientato nella Berlino che aveva saputo ridare a David Bowie lo stimolo per rilanciare ancora una volta la sua figura musicale con la celebre trilogia. Inevitabile infine il confronto con Blade Runner, e di conseguenza con il suo seguito Blade Runner 2049: quando scegli una certa colorazione, quando la metropoli fa da sfondo al dramma di un giustiziere solitario, quando la macchina da pesa scende in quel modo nella prima scena cittadina, non puoi esimerti dal confronto con la leggenda, e uscirne con le ossa frantumate è molto più facile di quanto sembri.


Nonostante le ottime premesse, Mute appare fin da subito scadente sotto molti punti di vista, a partire dalla messa in scena clamorosamente mancata: il futuro ricreato del regista è artificioso e non rispecchia l’evoluzione del nostro presente, ma un 2052 alternativo, parallelo, in cui il gusto estetico e pratico ha seguito una linea totalmente differente. Dopo un incipit efficace in cui vediamo il protagonista perdere l’uso della parola in seguito ad un incidente in barca, il film smarrisce la rotta e naufraga presto verso una sequela di eventi macchinosi e senza ritmo. L’indagine alla ricerca di Naadirah, la ragazza di capelli blu, è sconclusionata e la costruzione del sistema di enigmi, ricompense e indizi risulta abbozzato, talvolta campato per aria da un punto di vista logico. I pochi momenti potenzialmente carichi di patos vengono rovinati da una scrittura scialba o dai personaggi fuori luogo. I personaggi rappresentano infatti uno dei problemi maggiori della pellicola: salvo rare sequenze, gli attori sono perennemente fuori parte e - di conseguenza - i personaggi che interpretano sembrano non essere realmente presenti  sulla scena. In tutto ciò la regia, la fotografia e gli aspetti tecnici della pellicola non intervengono a salvare il salvabile, ma lasciano che la barca vada a fondo con tutto l’equipaggio.


In linea generale nulla va per il verso giusto e uno dei prodotti di punta di Netflix per questo 2018 si è rivelato essere un clamoroso buco nell’acqua che non rende giustizia alle capacità del regista e fallisce anche nell’intrattenimento più basilare. Ma facciamo un passo oltre e lasciamo per un attimo da parte la piattaforma streaming  per concentrarci su Duncan Jones. Il regista aveva stupito critica e pubblico con i primi due film dimostrando una mano dotata, la giusta ambizione per emergere con un cinema spesso considerato di nicchia e un sincero amore per il genere fantascientifico. caratteristiche che gli hanno aperto diverse porte e l’hanno spinto al di là della sua comfort zone, la situazione artistica e lavorativa in cui riusciva a infondere il suo spirito nelle pellicole. Guardando agli ultimi due lavori possiamo dire che l’autore appare non più in grado di dare senso e ritmo a immagini riciclate, sbiadite nonostante i colori forti, momenti che tendono sempre più verso un trash non ricercato ma occorso. Mute manca di troppa qualità per poter competere con la nuova fantascienza di Denis Villeneuve, da Arrival a Blade Runner 2049. Tra Mute e il seguito di Blade Runner passano idealmente appena 3 anni, ma il primo è anni luce dietro rispetto alla storia dell’agente K e i due futuri descritti non sono minimamente paragonabili.


Perché credere ancora in Duncan Jones? Il cinema come arte, espressione di un’idea non s’improvvisa, ma arriva dal profondo ed emerge con lo studio e la pratica. Jones ha dimostrato di avere un’attitudine artistica - questo è innegabile. L’autore non ha ancora sviluppato la capacità di individuare i progetti più adatti alle sue peculiarità. Mute non è solo un’opera manchevole, ma un prodotto sbagliato nella costruzione e nelle intenzioni. Ripartire dalla passione più sincera, ragionare sul concetto prima della realizzazione. E io, dopo il secondo flop consecutivo, aspetto ancora il ritorno di un grande regista.