venerdì 29 dicembre 2017

TOP 10 FILM 2017

Eccoci arrivati al consueto appuntamento natalizio. Vi ricordo che i film presi in considerazione per la classifica sono i soli visti tra quelli usciti nelle sale italiane dal primo gennaio 2017 al 23 dicembre dello stesso anno, giorno in cui sto ultimando la stesura della top e della flop. A questo link trovate la lista completa dei film visti, dategli un’occhiata prima di fiondarvi nei commenti per difendere a spada tratta un titolo piuttosto che un altro, semplicemente potrei non averlo visto. So che le premesse allungano sempre l’attesa per il fulcro della questione, il motivo per cui avete cliccato su questa pagina, la classifica, ma vorrei specificare ancora una volta che non si tratta di giudizi assoluti, non è quello il mio intento. La classifica rispetta semplicemente i miei gusti personali e talvolta questi possono anche andare contro una parvenza di oggettività, come scoprirete in seguito. Fatte le dovute premesse, è giunto il momento di scoprire questa Top 10 dei miei film preferiti del 2017. Che il flame abbia inizio!



10 - Madre! di Darren Aronofsky
Film malato e disturbante che spiazza lo spettatore impedendo ogni tipo di comprensione. Solo successivamente, a mente fredda, arriva la consapevolezza della finalità di un prodotto tanto fastidioso quanto elevato. Affrontare un’opera priva di chiavi palesi per la sua stessa interpretazione crea una difficoltà proibitiva, ma se si accetta questa posizione scomoda si entra in un turbinio di emozioni, riferimenti e significati unici. Un’opera complessa, presuntuosa e profonda; impossibile lasciarla fuori.
Per approfondire: Come interpretare Madre!?



9 - Silence di Martin Scorsese
Distante da The wolf of wall street, Silence prosegue un filone sommerso della filmografia di Scorsese legato alla spiritualità più che alla religioni. Andrew Garfield e Adam Driver inseguono fino in Giappone padre Ferreira e una voce che possa confermare loro la bontà delle loro convinzioni teologiche. A metà tra racconto storico e romanzo di formazione, l’opera ultima di Scorsese stupisce per una cura al dettaglio che solo i grandi maestri del cinema possono vantare. Una lentezza esasperata nell’azione viene bilanciata da una tensione psicologica oppressiva. Da approcciare con la giusta preparazione, ma assolutamente imperdibile.



8 - Smetto quando voglio - Masterclass di Sidney Sibilia
Sidney Sibilia e Matteo Rovere hanno fatto il miracolo di tornare ad internazionalizzare il cinema italiano. Dei tre film che compongono la saga - di cui ben due usciti nel corso di quest’anno solare - Masterclass si erge al di sopra degli altri per la spiccata dose di azione e adrenalina, condita con il solito umorismo sofisticato e al contempo naturale. La critica sociale che si evolve verso un’opera movimentata e così ambiziosa rappresenta il fiore all’occhiello di questa stagione per il cinema italiano. Alcune scene indimenticabili, come quella dell’assalto al treno, rimarranno impresse negli occhi degli spettatori ancora per molto tempo.



7 - Guardiani della galassia vol. 2 di James Gunn
I cinecomics hanno stancato da un pezzo, chiudendosi in stereotipi triti e ritriti che non hanno più la forza di trasmettere le emozioni di un tempo. Eppure la creatura pop e colorata di James Gunn continua a rappresentare la più lieta eccezione. In un universo Marvel in cui tutto tende a concludersi verso i team-up, la forza dei Guardiani della galassia è proprio quella di ripercorre le dinamiche del gruppo di outsiders lontani dalla lente d’ingrandimento degli Avengers. Anche per questo motivo sono ancora combattuto sulla presenza di Starlord e soci nell’imminente Infinity War.
Guardiani della Galassia vol. 2 decide di raccontare una storia secondaria, che sembra essere di minore importanza fino al plot twist. Una sorta di filler che in realtà coglie appieno l'essenza dei personaggi ed esalta un gruppo allargato di supereroi. Comparto tecnico impeccabile, una comicità più matura e scene d’azione mozzafiato in funzione di un finale da brividi. James Gunn riesce ancora a fare cinema con la materia supereroistica.


6 - Arrival di Denis Villeneuve
La fantascienza secondo Denis Villeneuve non deve necessariamente sbaragliare la logica per aprire la via alla più becera guerra totale. Egli sfrutta la linguistica e la fisica per mettere in scena un film estremamente raffinato, curato, coinvolgente e spettacolare nello sciorinamento della matassa. A stupire maggiormente è l’ interpretazione del genere fantascientifico, che entra nel canone di Villeneuve e ne esce rafforzato da una struttura cinematografica solida. Uno dei migliori, se non il miglior film di fantascienza degli ultimi quindici anni.



5 - T2 - Trainspotting di Danny Boyle
Veder tornare sul grande schermo dei personaggi cult invecchiati di vent’anni sarebbe già di per sé un evento mondiale. Il primo Trainspotting si chiudeva con un monologo indimenticabile che arrivava a compimento di una riflessione sulla società degli anni ’90. Cosa avevano ancora da dire i quattro personaggi di Edimburgo? Danny Boyle rilancia il guanto di sfida a questo nuovo presente nato da un cambiamento-peggioramento e mette da parte la questione delle dipendenze per concentrarsi sulle disfunzioni dell’animo umano. Il risultato è un passo avanti sotto il punto di vista critico, la regia di Boyle poi è maturata notevolmente in questi vent’anni e l’esperienza migliora di gran lunga la riuscita finale. Rispetto al film del ’96 però questo T2 - Trainspotting non raggiunge le stesse vette iconiche e non riesce a racchiudere in sé la rappresentazione di una generazione in maniera altrettanto spiazzante. Resta un film fantastico e soprattutto necessario.



4 - Blade Runner 2049 di Denis Villeneuve
E con questa posizione diventa fondamentale la premessa noiosa dell’inizio: non si tratta di una classifica assoluta, e non aspira ad esserlo; semplicemente rispecchia i miei gusti cinematografici. Quindi Arrival è il più bel film di fantascienza degli ultimi quindici anni? Sì, ma personalmente ho preferito Blade Runner 2049 per tutto ciò che rappresenta e per la mole di emozioni che una pellicola all’apparenza asettica è riuscita a trasmettermi. Parliamo ancora di Denis Villeneuve - presente due volte in questa classifica - e della sua versione del mito di Blade Runner. Forse non era necessario rimettere mano al capolavoro di Scott, specialmente in ottica franchise aperto, ma il modo in cui Villeneuve rielabora gli stilemi del padre della fantascienza esalta e stupisce. Ancor più che in Arrival, questo Blade Runner 2049 trasuda cinema di spessore. Ogni inquadratura è un dipinto, ogni location respira e si muove nella desolazione di un mondo decaduto. Ryan Golsing dà vita ad un personaggio tutt’altro che scontato, in grado di reggere il paragone con il Rick Deckard di Harrison Ford.
Non un film privo di difetti, ma ogni ombra è rischiarata dalle luci più splendenti della magnificenza di Blade Runner.



3 - Detroit di Katrine Bigelow
Il film più importante dell’anno. Kathryn Bigelow mette tutto il suo talento al servizio di una storia vera che riapre un discorso attuale e futuribile sulle colpe storiche che la società bianca cerca di nascondere dietro un dito. L’opera in tre atti mette in scena una ricostruzione realistica di una guerriglia urbana nella città di Detroit  per poi concentrarsi su di un vero e proprio massacro avvenuto in un motel poco lontano dal centro. Grazie ad un comparto tecnico eccezionale, Bigelow conduce lo spettatore all’intero della faida e lo costringere a guardare in faccia la violenza più sudicia dell’uomo forte sul più debole e indifeso. Un film che vuole arrivare allo stomaco e alla mente, colpendo e aprendo un dialogo costruttivo. Quando il cinema migliore trova il valore sociale. Se non dovesse essere preso in considerazione per gli Oscar si tratterebbe solamente di un caso di cattiva distribuzione nell’ambito delle “cene per le candidature”. Il poco rumore non intacca minimamente il valore assoluto dell’opera.



2 - Dunkirk di Christopher Nolan
Con la seconda posizione ci avviciniamo allo spettro luminoso del capolavoro. Nolan è semplicemente IL regista del nuovo millennio: amato e odiato, criticato ed esaltato, sulla scia di Kubrik riesce a mantenere una cifra stilistica elevata e inconfondibile pur variando il genere. Con Dunkirk i fratelli Nolan esplorano il cinema di guerra, un banco di prova non indifferente visti i maestri che hanno contribuito alla storia del genere. Dunkirk depenna totalmente l’aspetto empatico dalla spiaggia francese e punta a narrare una situazione di guerra, senza una reale storia a fare da motore per gli eventi. È la narrazione tripartita in tempi e luoghi differenti a dare lo slancio necessario all’opera per raggiungere il suo obiettivo. La grandezza delle gesta umane arriva ugualmente, senza proclami o frasi ad effetto, ma unicamente grazie alla regia quadrata e misurata di Nolan. La condizione dei soldati prende il sopravvento e lo spettatore è portato naturalmente a vivere la precarietà di quei giorni, senza bisogno di un personaggio posticcio o di una situazione fasulla per creare un legame irreale. La magia del cinema, la maestria di Nolan.



1 - La La Land di Damien Chazelle
Se dovessi affibbiare ad un solo titolo l’appellativo di “capolavoro” per questo 2017 non avrei dubbi su quale scegliere. La La Land è un film totale che si rifà al musical classico per raccontare una storia senza tempo. Il comparto tecnico rasenta la perfezione, dopo Whiplash Chazelle dimostra ancora una volta di avere un’abilità fuori dal comune nel mettere in scena la musica. La storia di Mia e Sebastian è coinvolgente e travolgente, e, pur non spiccando per originalità, risulta stupefacente per il modo in cui è stata realizzata dal regista. La La Land è un film che crea dipendenza con le sue atmosfere magiche, le sue musiche indimenticabili. I protagonisti entrano fin da subito nel cuore degli spettatori, mentre le immagini meravigliose ammaliano gli occhi e non si può fare a meno di crollare emotivamente in un finale che riporta la magia alla realtà e ci ricorda tutto quello che non è stato, tutto quello che sarebbe potuto essere. Se Detroit era il film più importante dell’anno, La La Land è quello che resterà negli annali. Un capolavoro, la consacrazione definitiva di tutti coloro che hanno preso parte al progetto, dal regista al ragazzo che porta il caffè. Un onore essere nato in questo periodo per poter vivere La la land.

E voi? Siete d'accordo con questa classifica quali sono i film che vi hanno colpito di più in questo 2017? Ditelo con un commento qua sotto o sui social. Ci rivediamo il 31 dicembre, per parlare del male di questo 2017 cinematografico: la tanto temuta Flop 5. Snyder-Whedon aspettatemi!

mercoledì 20 dicembre 2017

MACERIE PRIME

Da vignettista campanilista e underground, Zerocalcare è diventato la voce di una generazione disagiata. È in grado di dare parola ad un sottobosco di storie reali che non sembrano andare da nessuna parte, colorandole con un significato ironico e amaro.


Dopo Kobane Calling, capolavoro impegnato dell’autore, la conferma era tutt’altro che scontata. Eppure, partendo da una scomoda quotidianità, Calcare ha trovato il piglio per aprire un discorso in due volumi sulla difficoltà di vivere queste macerie post-contemporanee. Macerie Prime si sviluppa attraverso due fili narrativi, uno tendente al realismo, l’altro più vicino al postapocalittico di Ken il guerriero. Questi due elementi sono riuniti da un legame di personaggi e spiriti negativi che regolano i sentimenti peggiori. I temi trattati tornano dai precedenti lavori: dalla precarietà alla routine, dal tempo alla memoria fino al cameratismo di Rebibbia, ma stavolta sono mescolati in una chiave più dura, che sa sdrammatizzare e al contempo colpire alla bocca dello stomaco.
Le macchiette comiche delle prime opere si sono evolute verso personaggi con un background che consente loro uno slancio, anche se minimo, al futuro. Ciò rende l’opera viva nella sua evoluzione verso un finale difficile e tronco.


Macerie prime è il loop temporale che si genera nel paradosso della nostra società e che rende impossibili i rapporti duraturi per una frustrazione interiore che arriva dal tempo che passa senza che questo presente possa divenire futuro. E torniamo a rifugiarci in un passato setacciato che ci riporta agli stessi rapporti che ci chiudono nel presente e definiscono chi siamo. Il circolo infinito dell’odio e della ripetizione dei sentimenti ripudiati, rifioriti e riappassiti. Possiamo essere sempre solo noi stessi, all’ombra di un’immagine futura che non raggiungeremo mai.



Zerocalcare ha sviluppato l’incredibile capacità di rompere gli schemi intellettuali per parlare di noi, nel profondo, con poche, semplici vignette. Trova sempre la giusta metafora, il paragone alla cultura pop, la parola più leggera per l’idea più pesante. E questo dono fa delle sue opere miniere di umanità di cui non si vede il fondo. Macerie prime è l’incipit di un racconto che sa toccare le corde giuste per mostrare alcuni tesori della miniera e parlare sulla verità con le nostre parole, le nostre immagini.

giovedì 14 dicembre 2017

STAR WARS: GLI ULTIMI JEDI [NO SPOILER]

Ragionare su un film di Star Wars non è come farlo per qualsiasi altra pellicola. L’idea di Lucas del ’77 ha dato vita ad un universo che si regge sulle sue stesse gambe e di cui noi possiamo ammirare alcune sfumature soltanto saltuariamente. Star Wars vive di una forza intrinseca che supera di gran lunga i confini cinematografici sfociando finanche nella quotidianità dei più appassionati. La saga non è paragonabile ad altri progetti ugualmente importanti per il semplice motivo che ieri sera in sala c’erano dei ragazzi con le spade laser e tutti avevamo indosso un capo con uno stormtrooper o un x-wing, mentre lo stesso non si può dire per Harry Potter o per Il Signore degli anelli. In questo quadro il cinema è uno dei mezzi più che il fine ultimo; la regia ad esempio rappresenta solo una parte minima dell’opera e questo deve essere tenuto a mente nell’approccio alla critica del film. È l’empatia che guida schiere di appassionati nelle sale e proprio con l’empatia è giusto accogliere Star Wars.


La saga è sempre stata fondata su dei topoi ben precisi (la principessa, il burbero gentiluomo, il padre traditore) e, dopo sei film caratterizzati da alti e bassi, i responsabili della trilogia sequel si sono scontrati con la difficoltà dell’evadere da un infinito loop familiare, spostando l’attenzione su una nuova generazione di eroi e antieroi. Sembra che questa nuova alba per il brand abbia proprio l’obiettivo primario di sganciare la saga da alcune dinamiche ricorrenti partendo proprio dal calco delle stesse dinamiche, quell’operazione nostalgia-remake che è stato il settimo capitolo. Gli ultimi Jedi ha il merito di esplorare una nuova costruzione delle avventure spaziali che non mira alla magnificenza dei conflitti su larga scala, ma si concentra su poche situazioni per entrare nel merito dei rapporti familiari e portare alla luce una volta per tutte i pilastri che hanno retto fin dagli albori le relazioni tra la famiglia Skywalker, la forza e il lato oscuro, per poi virare verso nuove avventure della galassia lontana lontana. Il tempo di Luke e Leia in questa storia sta giungendo al termine, è chiaro. Questa dimensione meno eclatante e più intima è però rafforzata da un ritorno in grande stile della forza che restituisce un peso notevole all’intera vicenda.


Gli ultimi Jedi è un film consapevole fin dall’inizio della sua destinazione finale e ciò è frutto di una programmazione meticolosa che non era appartenuta alla prima trilogia. La costruzione dell’ottavo capitolo consiste in un concatenamento di scelte che avrebbero dovuto traghettare la trama dalla conclusione del capitolo precedente alla situazione programmata per la battaglia finale di questo capitolo. Il problema è che la maggior parte delle scelte falliscono nel loro intento di dare sostanza alla narrazione d’intermezzo e finiscono per aggrovigliarsi su loro stesse fino al momento in cui l’inerzia accumulata in anni di guerre stellari porta effettivamente la trama in una zona calda per il cuore degli appassionati. La prima parte del film, che potremmo far coincidere con i primi due atti, è certamente debole, scarna, inconcludente e guidata da un montaggio qualitativamente non all’altezza, ma è anche l’apertura ad un terzo atto mozzafiato.


Dopo un settimo capitolo che riapriva le maglie del discorso riproponendo una struttura familiare al primo film del 1977, si percepiva lo spauracchio di un ottavo episodio che andasse a ricalcare L’impero colpisce ancora. In realtà Gli ultimi Jedi riprende ancora una certa dialettica da Guerre stellari, ribattezzato successivamente come Una nuova speranza. Il tema della speranza è ricorrente sia per la storyline di Rey che per quella di Leia e dei personaggi a lei vicini. In un momento di estrema crisi per la resistenza torna e ritorna il tema dello slancio ad un futuro migliore rappresentato da una scintilla che potrà distruggere il Primo ordine. La ricerca di una nuova speranza per la galassia si coniuga abilmente con l’ambivalenza degli Jedi all’interno dell’equilibrio della forza, temi che sanno toccare le corde giuste ed eclissare alcune lacune evidenti. Su questa base che mescola il giusto citazionismo a nuove trame esplode improvvisamente la vera anima del film, che ci regala delle sequenze incredibilmente potenti, le quali tornano ad invocare l’empatia del fan. il compimento della trama de Gli ultimi Jedi racchiude in sé alcuni dei punti più alti dell’intera saga. Narrazione, emotività e speranza si incontrano per dare vita a tutto ciò che avremmo voluto da un film di Star Wars.


Sulle premesse di un quadrato e convincente settimo episodio si sarebbe potuto fare certamente di meglio, a partire dalla gestione più intelligente di certi momenti e soprattutto di alcuni personaggi, sia vecchi che nuovi. Ma quando la grandezza della forza che caratterizza un universo si manifesta in quella misura, quando un bambino impugna una scopa a mo’ di spada laser e guarda il cielo stellato come abbiamo sempre sognato di fare anche noi, non resta che applaudire.

N.B. quando dico applaudire, intendo dentro, con classe. Non fate come i miei colleghi di visione che hanno riservato un lungo applauso al proiezionista. Grazie

mercoledì 13 dicembre 2017

SMETTO QUANDO VOGLIO - TRILOGY

Smetto quando voglio: Ad honorem arriva dopo appena dieci mesi dal suo illustre predecessore per tirare le fila del progetto e dare una degna conclusione alla trilogia di Sibilia. La fine torna alle origini con un terzo capitolo che punta nuovamente a pungere il sistema accademico e la situazione economico-sociale odierna dopo una parentesi più action e disimpegnata. La costruzione di questa saga, dalla sua programmazione inaspettata alla realizzazione in back-to-back, valica i limiti della commedia italiana contemporanea nell’ordine di una manovra pop, ardita, acida, seriale, insomma assolutamente innovativa. La trilogia di Smetto quando voglio ha saputo distinguersi fin dal primo capitolo per un’impostazione differente e dei propositi che hanno dato vita ad un unicum nel nostro panorama cinematografico; il nuovo standard, insieme a Lo chiamavano Jeeg robot, per le commedie alternative che verranno. Ma questo successo nasce da lontano.


Il primo film nasceva come uno stand alone concepito dalla mente di Sibilia e prodotto brillantemente dal duo Procacci-Rovere. Una fotografia particolarmente carica e saturata verso i toni acidi del giallo e del verde faceva da biglietto da visita per un’opera fortemente malinconica sulla crisi del lavoro per la generazione dei quarantenni. Il concept prendeva a piene mani dal successo planetario di Breaking Bad per fondere la discesa morale ad una componente sociale. Questo capitolo, nascendo come opera unica, aveva il merito di delineare alla perfezione la banda dei protagonisti, lasciando poche situazioni intentate e chiudendo sostanzialmente il cerchio con la fine dello scontro col Murena. Opera prima certamente più classica, quadrata e autonoma.


La vera svolta, anche per i miscredenti dell’ultima ora, è arrivata con il secondo capitolo, coscritto da Francesca Manieri e Luigi di Capua, che ha saputo scucire l’arazzo del primo film per allungare i fili dell’intreccio e continuare a ricamare una storia ben scritta, ben diretta e perfettamente giustificata. Alcune scene del primo film tornano per essere mostrate da un’altra prospettiva, e un semplice movimento di macchina genera la necessita di un’ulteriore sviluppo degli eventi. I personaggi prendono il sopravvento sui loro stereotipi accademici e salgono in cattedra per dettare i ritmi comici e narrativi dell’opera. Smetto quando voglio: Masterclass vira verso una trama situazionale che apre ad una forte componente action e spinge sul pedale della comicità. Al netto del capitolo più brillante e irresistibile fa da contraltare un passo indietro voluto e cercato dal punto di vista della critica sociale.


Il terzo capitolo della saga torna alla Sapienza per distruggere definitivamente l’istituzione accademica o per salvare il responsabile che ha messo in moto l’intero sviluppo. Smetto quando voglio: Ad honorem è coerente con gli intenti del primo film e riporta i toni ad un sorriso amaro che si fissa sul viso dopo le risate. Le due anime sviluppate dai capitoli precedenti tornano in un film diviso in due grandi macrosequenze: quella della fuga da Rebibbia e quella alla Sapienza; tutto ciò arriva a compimento di un progetto cresciuto esponenzialmente nel suo sviluppo. È interessante notare inoltre come sia ancora più preponderante la scelta di richiamare scene dei film precedenti per dare all’intreccio degli snodi narrativi risolutivi. Il finale poi non tradisce e preferisce colpire con una drammatica nota di realismo piuttosto che esaltare ulteriormente l’epicità della situazione.


L’impressione complessiva è quella di trovarsi di fronte ad un altro cinema, rivolto ad un pubblico differente rispetto a quello delle solite commedie-dramedy italiani. Nel rinascimento del cinema italiano, la trilogia di Smetto quando voglio può issarsi a baluardo di un’alternativa reale grazie ad un approccio differente alla materia cinematografica. Ambizione e compiutezza hanno spinto Sibilia a ritrovare un’internazionalità italiana: non più un’opera dialettale che solo il pubblico nostrano sarebbe in grado di apprezzare, ma un esperimento che internazionalizza temi italiani e contemporaneamente localizza trame e dinamiche internazionali. Se vista all’estero, la trilogia mantiene un senso e un certo appeal nonostante le scene conclusive non siano girate un’università qualunque, ma proprio alla Sapienza, nonostante il carcere da cui i protagonisti devono evadere sia proprio quello di Rebibbia.


La svolta fondamentale sta nel rilancio di un’immagine e nella costruzione di un nuovo immaginario collettivo per un cinema intelligente e ricercato. Smetto quando voglio è il trionfo di Sibilia, di Rovere e della nostra banda, le migliori menti in circolazione. 

mercoledì 6 dicembre 2017

RENZI CONTRO LE FAKE FAKE NEWS

Domenica sera mi è capitato di imbattermi nell’intervento di Renzi ospite da Fazio. Anche se definirlo intervento sarebbe riduttivo; azzarderei comizio, intervallato da brevi e imbarazzanti siparietti comici. Matteo Renzi è solo uno standup comedian che non ci ha creduto fino in fondo. L’imitazione di Berlusconi vince il premio cringe dell’anno.
Tra i vari argomenti toccati dall’ex premier anche un’aperta condanna delle fake news. Le fake news esistevano anche prima della rilevanza mediatica che il fenomeno ha assunto negli ultimi anni; erano le bufale urbane che giravano nei luoghi di aggregazione e spesso finivano sulle testate giornalistiche con molti meno allarmismi. L’ondata di informatizzazione ha però permesso alle fake news di ingrandire la loro portata e sistematizzarsi all’interno della rete.


Esistono fondamentalmente due matrici che danno vita alle fake news, una di tipo goliardico, l’altra a scopo di lucro. Jessica Jones sorella di Laura Boldrini appartiene al primo gruppo, la notizia per cui le due ragazze rapite in Siria nel 2014 avrebbero avuto rapporti sessuali consenzienti con i loro rapitori al secondo. A prescindere dagli intenti però questo fenomeno ha aperto una crisi dell’informazione fatta di indignazione e soprattutto del dibattito aperto sul valore della postverità nella società contemporanea. Il Renzi politico è arrivato alla questione delle fake news attraverso una notizia falsa diffusa sui social che lo riguardava in prima persona: un video in cui il segretario del PD guida semplicemente una Lamborghini azzurra per pochi secondi. L’origine del video ci suggerisce anche il suo scopo. Esso è infatti stato realizzato dalla pagina Facebook “Generatore di immagini gentiste di bassa qualità” che si dedica proprio alla derisione del fenomeno delle fake news creando immagini e video palesemente ironici, basti pensare alla musica di sottofondo nel video specifico di Renzi. L’ex sindaco di Firenze era stato in realtà invitato a prendere parte ad una celebrazione del marchio automobilistico. Eppure la notizia ha iniziato a circolare per il web, lasciandosi alle spalle una scia d’indignazione verso un personaggio politico polarizzante. Eppure è stato necessario per Renzi rivolgersi alla nazione per smascherare una fake news nata dall’ironia. Proprio dall’ironia arriva l’appello di Renzi ad un controllo sistematico delle notizie sui social media. Ma quanta distanza passa dal controllo delle fake news alla censura? Quanto è pericoloso conferire un potere del genere ad un organo parastatale?

Avanguardia NERA sempre sul pezzo

Per affrontare questo argomento scindiamo per un attimo il risultato immediato delle fake news, quella sana indignazione che è la chiave per la vita digitale, e il conseguente dibattito relativo alla postverità. Personalmente non mi ritengo vittima sistematica delle fake news. Non è la mia generazione, la stessa delle figlie di Renzi, a sventolare la bandiera dell’indignazione, ma, in larga scala, una diffusione capillare di false informazioni può effettivamente produrre uno sbilanciamento nell’umore dell’opinione pubblica. Per scongiurare il pericolo delle fake news è necessario affrontare le dinamiche dell’era digitale con la giusta consapevolezza che nasce sempre da una formazione, da un’istruzione, intesa sia in senso classico che come un’educazione informatica. La mia generazione ha maturato e sta ancora processando un atteggiamento attento attraverso l’esperienza di vita vissuta in rete. Esperienza che manca però alla generazione dei nostri genitori, i quali hanno magari una base culturale ma mancano del linguaggio proprio dell’era digitale, non sono interni alle dinamiche e si trovano in difficoltà nell’approccio al mezzo. Due forme d’istruzione sono indispensabili per affrontare i pericoli dell’informazione digitale con le giuste difese.


L’unica arma per sconfiggere una falsa informazione è una vera istruzione. I pericoli della disinformazione, ieri come oggi, si combattono investendo nella scuola, nell’università e nella ricerca. Formando gli adulti del domani e offrendo la possibilità agli adulti di oggi di correggere le loro defezioni. Un’istruzione più profonda e completa che possa anche rispondere alle esigenze impellenti. Per arrivare ad affrontare con più consapevolezza il dibattito sulla postverità.

La soluzione non è mettere i paraocchi ad uno sguardo socchiuso, ma illuminare ciò che abbiamo di fronte con la luce della cultura.