venerdì 29 dicembre 2017

TOP 10 FILM 2017

Eccoci arrivati al consueto appuntamento natalizio. Vi ricordo che i film presi in considerazione per la classifica sono i soli visti tra quelli usciti nelle sale italiane dal primo gennaio 2017 al 23 dicembre dello stesso anno, giorno in cui sto ultimando la stesura della top e della flop. A questo link trovate la lista completa dei film visti, dategli un’occhiata prima di fiondarvi nei commenti per difendere a spada tratta un titolo piuttosto che un altro, semplicemente potrei non averlo visto. So che le premesse allungano sempre l’attesa per il fulcro della questione, il motivo per cui avete cliccato su questa pagina, la classifica, ma vorrei specificare ancora una volta che non si tratta di giudizi assoluti, non è quello il mio intento. La classifica rispetta semplicemente i miei gusti personali e talvolta questi possono anche andare contro una parvenza di oggettività, come scoprirete in seguito. Fatte le dovute premesse, è giunto il momento di scoprire questa Top 10 dei miei film preferiti del 2017. Che il flame abbia inizio!



10 - Madre! di Darren Aronofsky
Film malato e disturbante che spiazza lo spettatore impedendo ogni tipo di comprensione. Solo successivamente, a mente fredda, arriva la consapevolezza della finalità di un prodotto tanto fastidioso quanto elevato. Affrontare un’opera priva di chiavi palesi per la sua stessa interpretazione crea una difficoltà proibitiva, ma se si accetta questa posizione scomoda si entra in un turbinio di emozioni, riferimenti e significati unici. Un’opera complessa, presuntuosa e profonda; impossibile lasciarla fuori.
Per approfondire: Come interpretare Madre!?



9 - Silence di Martin Scorsese
Distante da The wolf of wall street, Silence prosegue un filone sommerso della filmografia di Scorsese legato alla spiritualità più che alla religioni. Andrew Garfield e Adam Driver inseguono fino in Giappone padre Ferreira e una voce che possa confermare loro la bontà delle loro convinzioni teologiche. A metà tra racconto storico e romanzo di formazione, l’opera ultima di Scorsese stupisce per una cura al dettaglio che solo i grandi maestri del cinema possono vantare. Una lentezza esasperata nell’azione viene bilanciata da una tensione psicologica oppressiva. Da approcciare con la giusta preparazione, ma assolutamente imperdibile.



8 - Smetto quando voglio - Masterclass di Sidney Sibilia
Sidney Sibilia e Matteo Rovere hanno fatto il miracolo di tornare ad internazionalizzare il cinema italiano. Dei tre film che compongono la saga - di cui ben due usciti nel corso di quest’anno solare - Masterclass si erge al di sopra degli altri per la spiccata dose di azione e adrenalina, condita con il solito umorismo sofisticato e al contempo naturale. La critica sociale che si evolve verso un’opera movimentata e così ambiziosa rappresenta il fiore all’occhiello di questa stagione per il cinema italiano. Alcune scene indimenticabili, come quella dell’assalto al treno, rimarranno impresse negli occhi degli spettatori ancora per molto tempo.



7 - Guardiani della galassia vol. 2 di James Gunn
I cinecomics hanno stancato da un pezzo, chiudendosi in stereotipi triti e ritriti che non hanno più la forza di trasmettere le emozioni di un tempo. Eppure la creatura pop e colorata di James Gunn continua a rappresentare la più lieta eccezione. In un universo Marvel in cui tutto tende a concludersi verso i team-up, la forza dei Guardiani della galassia è proprio quella di ripercorre le dinamiche del gruppo di outsiders lontani dalla lente d’ingrandimento degli Avengers. Anche per questo motivo sono ancora combattuto sulla presenza di Starlord e soci nell’imminente Infinity War.
Guardiani della Galassia vol. 2 decide di raccontare una storia secondaria, che sembra essere di minore importanza fino al plot twist. Una sorta di filler che in realtà coglie appieno l'essenza dei personaggi ed esalta un gruppo allargato di supereroi. Comparto tecnico impeccabile, una comicità più matura e scene d’azione mozzafiato in funzione di un finale da brividi. James Gunn riesce ancora a fare cinema con la materia supereroistica.


6 - Arrival di Denis Villeneuve
La fantascienza secondo Denis Villeneuve non deve necessariamente sbaragliare la logica per aprire la via alla più becera guerra totale. Egli sfrutta la linguistica e la fisica per mettere in scena un film estremamente raffinato, curato, coinvolgente e spettacolare nello sciorinamento della matassa. A stupire maggiormente è l’ interpretazione del genere fantascientifico, che entra nel canone di Villeneuve e ne esce rafforzato da una struttura cinematografica solida. Uno dei migliori, se non il miglior film di fantascienza degli ultimi quindici anni.



5 - T2 - Trainspotting di Danny Boyle
Veder tornare sul grande schermo dei personaggi cult invecchiati di vent’anni sarebbe già di per sé un evento mondiale. Il primo Trainspotting si chiudeva con un monologo indimenticabile che arrivava a compimento di una riflessione sulla società degli anni ’90. Cosa avevano ancora da dire i quattro personaggi di Edimburgo? Danny Boyle rilancia il guanto di sfida a questo nuovo presente nato da un cambiamento-peggioramento e mette da parte la questione delle dipendenze per concentrarsi sulle disfunzioni dell’animo umano. Il risultato è un passo avanti sotto il punto di vista critico, la regia di Boyle poi è maturata notevolmente in questi vent’anni e l’esperienza migliora di gran lunga la riuscita finale. Rispetto al film del ’96 però questo T2 - Trainspotting non raggiunge le stesse vette iconiche e non riesce a racchiudere in sé la rappresentazione di una generazione in maniera altrettanto spiazzante. Resta un film fantastico e soprattutto necessario.



4 - Blade Runner 2049 di Denis Villeneuve
E con questa posizione diventa fondamentale la premessa noiosa dell’inizio: non si tratta di una classifica assoluta, e non aspira ad esserlo; semplicemente rispecchia i miei gusti cinematografici. Quindi Arrival è il più bel film di fantascienza degli ultimi quindici anni? Sì, ma personalmente ho preferito Blade Runner 2049 per tutto ciò che rappresenta e per la mole di emozioni che una pellicola all’apparenza asettica è riuscita a trasmettermi. Parliamo ancora di Denis Villeneuve - presente due volte in questa classifica - e della sua versione del mito di Blade Runner. Forse non era necessario rimettere mano al capolavoro di Scott, specialmente in ottica franchise aperto, ma il modo in cui Villeneuve rielabora gli stilemi del padre della fantascienza esalta e stupisce. Ancor più che in Arrival, questo Blade Runner 2049 trasuda cinema di spessore. Ogni inquadratura è un dipinto, ogni location respira e si muove nella desolazione di un mondo decaduto. Ryan Golsing dà vita ad un personaggio tutt’altro che scontato, in grado di reggere il paragone con il Rick Deckard di Harrison Ford.
Non un film privo di difetti, ma ogni ombra è rischiarata dalle luci più splendenti della magnificenza di Blade Runner.



3 - Detroit di Katrine Bigelow
Il film più importante dell’anno. Kathryn Bigelow mette tutto il suo talento al servizio di una storia vera che riapre un discorso attuale e futuribile sulle colpe storiche che la società bianca cerca di nascondere dietro un dito. L’opera in tre atti mette in scena una ricostruzione realistica di una guerriglia urbana nella città di Detroit  per poi concentrarsi su di un vero e proprio massacro avvenuto in un motel poco lontano dal centro. Grazie ad un comparto tecnico eccezionale, Bigelow conduce lo spettatore all’intero della faida e lo costringere a guardare in faccia la violenza più sudicia dell’uomo forte sul più debole e indifeso. Un film che vuole arrivare allo stomaco e alla mente, colpendo e aprendo un dialogo costruttivo. Quando il cinema migliore trova il valore sociale. Se non dovesse essere preso in considerazione per gli Oscar si tratterebbe solamente di un caso di cattiva distribuzione nell’ambito delle “cene per le candidature”. Il poco rumore non intacca minimamente il valore assoluto dell’opera.



2 - Dunkirk di Christopher Nolan
Con la seconda posizione ci avviciniamo allo spettro luminoso del capolavoro. Nolan è semplicemente IL regista del nuovo millennio: amato e odiato, criticato ed esaltato, sulla scia di Kubrik riesce a mantenere una cifra stilistica elevata e inconfondibile pur variando il genere. Con Dunkirk i fratelli Nolan esplorano il cinema di guerra, un banco di prova non indifferente visti i maestri che hanno contribuito alla storia del genere. Dunkirk depenna totalmente l’aspetto empatico dalla spiaggia francese e punta a narrare una situazione di guerra, senza una reale storia a fare da motore per gli eventi. È la narrazione tripartita in tempi e luoghi differenti a dare lo slancio necessario all’opera per raggiungere il suo obiettivo. La grandezza delle gesta umane arriva ugualmente, senza proclami o frasi ad effetto, ma unicamente grazie alla regia quadrata e misurata di Nolan. La condizione dei soldati prende il sopravvento e lo spettatore è portato naturalmente a vivere la precarietà di quei giorni, senza bisogno di un personaggio posticcio o di una situazione fasulla per creare un legame irreale. La magia del cinema, la maestria di Nolan.



1 - La La Land di Damien Chazelle
Se dovessi affibbiare ad un solo titolo l’appellativo di “capolavoro” per questo 2017 non avrei dubbi su quale scegliere. La La Land è un film totale che si rifà al musical classico per raccontare una storia senza tempo. Il comparto tecnico rasenta la perfezione, dopo Whiplash Chazelle dimostra ancora una volta di avere un’abilità fuori dal comune nel mettere in scena la musica. La storia di Mia e Sebastian è coinvolgente e travolgente, e, pur non spiccando per originalità, risulta stupefacente per il modo in cui è stata realizzata dal regista. La La Land è un film che crea dipendenza con le sue atmosfere magiche, le sue musiche indimenticabili. I protagonisti entrano fin da subito nel cuore degli spettatori, mentre le immagini meravigliose ammaliano gli occhi e non si può fare a meno di crollare emotivamente in un finale che riporta la magia alla realtà e ci ricorda tutto quello che non è stato, tutto quello che sarebbe potuto essere. Se Detroit era il film più importante dell’anno, La La Land è quello che resterà negli annali. Un capolavoro, la consacrazione definitiva di tutti coloro che hanno preso parte al progetto, dal regista al ragazzo che porta il caffè. Un onore essere nato in questo periodo per poter vivere La la land.

E voi? Siete d'accordo con questa classifica quali sono i film che vi hanno colpito di più in questo 2017? Ditelo con un commento qua sotto o sui social. Ci rivediamo il 31 dicembre, per parlare del male di questo 2017 cinematografico: la tanto temuta Flop 5. Snyder-Whedon aspettatemi!

mercoledì 20 dicembre 2017

MACERIE PRIME

Da vignettista campanilista e underground, Zerocalcare è diventato la voce di una generazione disagiata. È in grado di dare parola ad un sottobosco di storie reali che non sembrano andare da nessuna parte, colorandole con un significato ironico e amaro.


Dopo Kobane Calling, capolavoro impegnato dell’autore, la conferma era tutt’altro che scontata. Eppure, partendo da una scomoda quotidianità, Calcare ha trovato il piglio per aprire un discorso in due volumi sulla difficoltà di vivere queste macerie post-contemporanee. Macerie Prime si sviluppa attraverso due fili narrativi, uno tendente al realismo, l’altro più vicino al postapocalittico di Ken il guerriero. Questi due elementi sono riuniti da un legame di personaggi e spiriti negativi che regolano i sentimenti peggiori. I temi trattati tornano dai precedenti lavori: dalla precarietà alla routine, dal tempo alla memoria fino al cameratismo di Rebibbia, ma stavolta sono mescolati in una chiave più dura, che sa sdrammatizzare e al contempo colpire alla bocca dello stomaco.
Le macchiette comiche delle prime opere si sono evolute verso personaggi con un background che consente loro uno slancio, anche se minimo, al futuro. Ciò rende l’opera viva nella sua evoluzione verso un finale difficile e tronco.


Macerie prime è il loop temporale che si genera nel paradosso della nostra società e che rende impossibili i rapporti duraturi per una frustrazione interiore che arriva dal tempo che passa senza che questo presente possa divenire futuro. E torniamo a rifugiarci in un passato setacciato che ci riporta agli stessi rapporti che ci chiudono nel presente e definiscono chi siamo. Il circolo infinito dell’odio e della ripetizione dei sentimenti ripudiati, rifioriti e riappassiti. Possiamo essere sempre solo noi stessi, all’ombra di un’immagine futura che non raggiungeremo mai.



Zerocalcare ha sviluppato l’incredibile capacità di rompere gli schemi intellettuali per parlare di noi, nel profondo, con poche, semplici vignette. Trova sempre la giusta metafora, il paragone alla cultura pop, la parola più leggera per l’idea più pesante. E questo dono fa delle sue opere miniere di umanità di cui non si vede il fondo. Macerie prime è l’incipit di un racconto che sa toccare le corde giuste per mostrare alcuni tesori della miniera e parlare sulla verità con le nostre parole, le nostre immagini.

giovedì 14 dicembre 2017

STAR WARS: GLI ULTIMI JEDI [NO SPOILER]

Ragionare su un film di Star Wars non è come farlo per qualsiasi altra pellicola. L’idea di Lucas del ’77 ha dato vita ad un universo che si regge sulle sue stesse gambe e di cui noi possiamo ammirare alcune sfumature soltanto saltuariamente. Star Wars vive di una forza intrinseca che supera di gran lunga i confini cinematografici sfociando finanche nella quotidianità dei più appassionati. La saga non è paragonabile ad altri progetti ugualmente importanti per il semplice motivo che ieri sera in sala c’erano dei ragazzi con le spade laser e tutti avevamo indosso un capo con uno stormtrooper o un x-wing, mentre lo stesso non si può dire per Harry Potter o per Il Signore degli anelli. In questo quadro il cinema è uno dei mezzi più che il fine ultimo; la regia ad esempio rappresenta solo una parte minima dell’opera e questo deve essere tenuto a mente nell’approccio alla critica del film. È l’empatia che guida schiere di appassionati nelle sale e proprio con l’empatia è giusto accogliere Star Wars.


La saga è sempre stata fondata su dei topoi ben precisi (la principessa, il burbero gentiluomo, il padre traditore) e, dopo sei film caratterizzati da alti e bassi, i responsabili della trilogia sequel si sono scontrati con la difficoltà dell’evadere da un infinito loop familiare, spostando l’attenzione su una nuova generazione di eroi e antieroi. Sembra che questa nuova alba per il brand abbia proprio l’obiettivo primario di sganciare la saga da alcune dinamiche ricorrenti partendo proprio dal calco delle stesse dinamiche, quell’operazione nostalgia-remake che è stato il settimo capitolo. Gli ultimi Jedi ha il merito di esplorare una nuova costruzione delle avventure spaziali che non mira alla magnificenza dei conflitti su larga scala, ma si concentra su poche situazioni per entrare nel merito dei rapporti familiari e portare alla luce una volta per tutte i pilastri che hanno retto fin dagli albori le relazioni tra la famiglia Skywalker, la forza e il lato oscuro, per poi virare verso nuove avventure della galassia lontana lontana. Il tempo di Luke e Leia in questa storia sta giungendo al termine, è chiaro. Questa dimensione meno eclatante e più intima è però rafforzata da un ritorno in grande stile della forza che restituisce un peso notevole all’intera vicenda.


Gli ultimi Jedi è un film consapevole fin dall’inizio della sua destinazione finale e ciò è frutto di una programmazione meticolosa che non era appartenuta alla prima trilogia. La costruzione dell’ottavo capitolo consiste in un concatenamento di scelte che avrebbero dovuto traghettare la trama dalla conclusione del capitolo precedente alla situazione programmata per la battaglia finale di questo capitolo. Il problema è che la maggior parte delle scelte falliscono nel loro intento di dare sostanza alla narrazione d’intermezzo e finiscono per aggrovigliarsi su loro stesse fino al momento in cui l’inerzia accumulata in anni di guerre stellari porta effettivamente la trama in una zona calda per il cuore degli appassionati. La prima parte del film, che potremmo far coincidere con i primi due atti, è certamente debole, scarna, inconcludente e guidata da un montaggio qualitativamente non all’altezza, ma è anche l’apertura ad un terzo atto mozzafiato.


Dopo un settimo capitolo che riapriva le maglie del discorso riproponendo una struttura familiare al primo film del 1977, si percepiva lo spauracchio di un ottavo episodio che andasse a ricalcare L’impero colpisce ancora. In realtà Gli ultimi Jedi riprende ancora una certa dialettica da Guerre stellari, ribattezzato successivamente come Una nuova speranza. Il tema della speranza è ricorrente sia per la storyline di Rey che per quella di Leia e dei personaggi a lei vicini. In un momento di estrema crisi per la resistenza torna e ritorna il tema dello slancio ad un futuro migliore rappresentato da una scintilla che potrà distruggere il Primo ordine. La ricerca di una nuova speranza per la galassia si coniuga abilmente con l’ambivalenza degli Jedi all’interno dell’equilibrio della forza, temi che sanno toccare le corde giuste ed eclissare alcune lacune evidenti. Su questa base che mescola il giusto citazionismo a nuove trame esplode improvvisamente la vera anima del film, che ci regala delle sequenze incredibilmente potenti, le quali tornano ad invocare l’empatia del fan. il compimento della trama de Gli ultimi Jedi racchiude in sé alcuni dei punti più alti dell’intera saga. Narrazione, emotività e speranza si incontrano per dare vita a tutto ciò che avremmo voluto da un film di Star Wars.


Sulle premesse di un quadrato e convincente settimo episodio si sarebbe potuto fare certamente di meglio, a partire dalla gestione più intelligente di certi momenti e soprattutto di alcuni personaggi, sia vecchi che nuovi. Ma quando la grandezza della forza che caratterizza un universo si manifesta in quella misura, quando un bambino impugna una scopa a mo’ di spada laser e guarda il cielo stellato come abbiamo sempre sognato di fare anche noi, non resta che applaudire.

N.B. quando dico applaudire, intendo dentro, con classe. Non fate come i miei colleghi di visione che hanno riservato un lungo applauso al proiezionista. Grazie

mercoledì 13 dicembre 2017

SMETTO QUANDO VOGLIO - TRILOGY

Smetto quando voglio: Ad honorem arriva dopo appena dieci mesi dal suo illustre predecessore per tirare le fila del progetto e dare una degna conclusione alla trilogia di Sibilia. La fine torna alle origini con un terzo capitolo che punta nuovamente a pungere il sistema accademico e la situazione economico-sociale odierna dopo una parentesi più action e disimpegnata. La costruzione di questa saga, dalla sua programmazione inaspettata alla realizzazione in back-to-back, valica i limiti della commedia italiana contemporanea nell’ordine di una manovra pop, ardita, acida, seriale, insomma assolutamente innovativa. La trilogia di Smetto quando voglio ha saputo distinguersi fin dal primo capitolo per un’impostazione differente e dei propositi che hanno dato vita ad un unicum nel nostro panorama cinematografico; il nuovo standard, insieme a Lo chiamavano Jeeg robot, per le commedie alternative che verranno. Ma questo successo nasce da lontano.


Il primo film nasceva come uno stand alone concepito dalla mente di Sibilia e prodotto brillantemente dal duo Procacci-Rovere. Una fotografia particolarmente carica e saturata verso i toni acidi del giallo e del verde faceva da biglietto da visita per un’opera fortemente malinconica sulla crisi del lavoro per la generazione dei quarantenni. Il concept prendeva a piene mani dal successo planetario di Breaking Bad per fondere la discesa morale ad una componente sociale. Questo capitolo, nascendo come opera unica, aveva il merito di delineare alla perfezione la banda dei protagonisti, lasciando poche situazioni intentate e chiudendo sostanzialmente il cerchio con la fine dello scontro col Murena. Opera prima certamente più classica, quadrata e autonoma.


La vera svolta, anche per i miscredenti dell’ultima ora, è arrivata con il secondo capitolo, coscritto da Francesca Manieri e Luigi di Capua, che ha saputo scucire l’arazzo del primo film per allungare i fili dell’intreccio e continuare a ricamare una storia ben scritta, ben diretta e perfettamente giustificata. Alcune scene del primo film tornano per essere mostrate da un’altra prospettiva, e un semplice movimento di macchina genera la necessita di un’ulteriore sviluppo degli eventi. I personaggi prendono il sopravvento sui loro stereotipi accademici e salgono in cattedra per dettare i ritmi comici e narrativi dell’opera. Smetto quando voglio: Masterclass vira verso una trama situazionale che apre ad una forte componente action e spinge sul pedale della comicità. Al netto del capitolo più brillante e irresistibile fa da contraltare un passo indietro voluto e cercato dal punto di vista della critica sociale.


Il terzo capitolo della saga torna alla Sapienza per distruggere definitivamente l’istituzione accademica o per salvare il responsabile che ha messo in moto l’intero sviluppo. Smetto quando voglio: Ad honorem è coerente con gli intenti del primo film e riporta i toni ad un sorriso amaro che si fissa sul viso dopo le risate. Le due anime sviluppate dai capitoli precedenti tornano in un film diviso in due grandi macrosequenze: quella della fuga da Rebibbia e quella alla Sapienza; tutto ciò arriva a compimento di un progetto cresciuto esponenzialmente nel suo sviluppo. È interessante notare inoltre come sia ancora più preponderante la scelta di richiamare scene dei film precedenti per dare all’intreccio degli snodi narrativi risolutivi. Il finale poi non tradisce e preferisce colpire con una drammatica nota di realismo piuttosto che esaltare ulteriormente l’epicità della situazione.


L’impressione complessiva è quella di trovarsi di fronte ad un altro cinema, rivolto ad un pubblico differente rispetto a quello delle solite commedie-dramedy italiani. Nel rinascimento del cinema italiano, la trilogia di Smetto quando voglio può issarsi a baluardo di un’alternativa reale grazie ad un approccio differente alla materia cinematografica. Ambizione e compiutezza hanno spinto Sibilia a ritrovare un’internazionalità italiana: non più un’opera dialettale che solo il pubblico nostrano sarebbe in grado di apprezzare, ma un esperimento che internazionalizza temi italiani e contemporaneamente localizza trame e dinamiche internazionali. Se vista all’estero, la trilogia mantiene un senso e un certo appeal nonostante le scene conclusive non siano girate un’università qualunque, ma proprio alla Sapienza, nonostante il carcere da cui i protagonisti devono evadere sia proprio quello di Rebibbia.


La svolta fondamentale sta nel rilancio di un’immagine e nella costruzione di un nuovo immaginario collettivo per un cinema intelligente e ricercato. Smetto quando voglio è il trionfo di Sibilia, di Rovere e della nostra banda, le migliori menti in circolazione. 

mercoledì 6 dicembre 2017

RENZI CONTRO LE FAKE FAKE NEWS

Domenica sera mi è capitato di imbattermi nell’intervento di Renzi ospite da Fazio. Anche se definirlo intervento sarebbe riduttivo; azzarderei comizio, intervallato da brevi e imbarazzanti siparietti comici. Matteo Renzi è solo uno standup comedian che non ci ha creduto fino in fondo. L’imitazione di Berlusconi vince il premio cringe dell’anno.
Tra i vari argomenti toccati dall’ex premier anche un’aperta condanna delle fake news. Le fake news esistevano anche prima della rilevanza mediatica che il fenomeno ha assunto negli ultimi anni; erano le bufale urbane che giravano nei luoghi di aggregazione e spesso finivano sulle testate giornalistiche con molti meno allarmismi. L’ondata di informatizzazione ha però permesso alle fake news di ingrandire la loro portata e sistematizzarsi all’interno della rete.


Esistono fondamentalmente due matrici che danno vita alle fake news, una di tipo goliardico, l’altra a scopo di lucro. Jessica Jones sorella di Laura Boldrini appartiene al primo gruppo, la notizia per cui le due ragazze rapite in Siria nel 2014 avrebbero avuto rapporti sessuali consenzienti con i loro rapitori al secondo. A prescindere dagli intenti però questo fenomeno ha aperto una crisi dell’informazione fatta di indignazione e soprattutto del dibattito aperto sul valore della postverità nella società contemporanea. Il Renzi politico è arrivato alla questione delle fake news attraverso una notizia falsa diffusa sui social che lo riguardava in prima persona: un video in cui il segretario del PD guida semplicemente una Lamborghini azzurra per pochi secondi. L’origine del video ci suggerisce anche il suo scopo. Esso è infatti stato realizzato dalla pagina Facebook “Generatore di immagini gentiste di bassa qualità” che si dedica proprio alla derisione del fenomeno delle fake news creando immagini e video palesemente ironici, basti pensare alla musica di sottofondo nel video specifico di Renzi. L’ex sindaco di Firenze era stato in realtà invitato a prendere parte ad una celebrazione del marchio automobilistico. Eppure la notizia ha iniziato a circolare per il web, lasciandosi alle spalle una scia d’indignazione verso un personaggio politico polarizzante. Eppure è stato necessario per Renzi rivolgersi alla nazione per smascherare una fake news nata dall’ironia. Proprio dall’ironia arriva l’appello di Renzi ad un controllo sistematico delle notizie sui social media. Ma quanta distanza passa dal controllo delle fake news alla censura? Quanto è pericoloso conferire un potere del genere ad un organo parastatale?

Avanguardia NERA sempre sul pezzo

Per affrontare questo argomento scindiamo per un attimo il risultato immediato delle fake news, quella sana indignazione che è la chiave per la vita digitale, e il conseguente dibattito relativo alla postverità. Personalmente non mi ritengo vittima sistematica delle fake news. Non è la mia generazione, la stessa delle figlie di Renzi, a sventolare la bandiera dell’indignazione, ma, in larga scala, una diffusione capillare di false informazioni può effettivamente produrre uno sbilanciamento nell’umore dell’opinione pubblica. Per scongiurare il pericolo delle fake news è necessario affrontare le dinamiche dell’era digitale con la giusta consapevolezza che nasce sempre da una formazione, da un’istruzione, intesa sia in senso classico che come un’educazione informatica. La mia generazione ha maturato e sta ancora processando un atteggiamento attento attraverso l’esperienza di vita vissuta in rete. Esperienza che manca però alla generazione dei nostri genitori, i quali hanno magari una base culturale ma mancano del linguaggio proprio dell’era digitale, non sono interni alle dinamiche e si trovano in difficoltà nell’approccio al mezzo. Due forme d’istruzione sono indispensabili per affrontare i pericoli dell’informazione digitale con le giuste difese.


L’unica arma per sconfiggere una falsa informazione è una vera istruzione. I pericoli della disinformazione, ieri come oggi, si combattono investendo nella scuola, nell’università e nella ricerca. Formando gli adulti del domani e offrendo la possibilità agli adulti di oggi di correggere le loro defezioni. Un’istruzione più profonda e completa che possa anche rispondere alle esigenze impellenti. Per arrivare ad affrontare con più consapevolezza il dibattito sulla postverità.

La soluzione non è mettere i paraocchi ad uno sguardo socchiuso, ma illuminare ciò che abbiamo di fronte con la luce della cultura.

giovedì 30 novembre 2017

DETROIT - IL FILM PIÙ IMPORTANTE DELL’ANNO

Kathryn Bigelow mette le sue indiscutibili doti al servizio di uno specchio planetario che taglia trasversalmente le pieghe del tempo, restituendo un’immagine di ieri che è il ritratto di oggi. Ma le fondamenta di questa nostra società impediranno alla storia di irrompere fragorosamente domani?


Nel 1967, in un’epoca di grandi cambiamenti sociali, la città di Detroit, nel Michigan, fu il teatro di una rivolta urbana che presto si trasformò in una vera e propria guerriglia. A scatenare gli eventi drammatici fu l’ennesimo abuso da parte della polizia locale che irruppe in una casa privata del quartiere nero per interrompere una festa e condurre tutti i presenti in caserma. Gli scontri durarono quattro giorni, dal 23 al 27 luglio. 43 morti, 1.189 feriti, più di 7.200 arresti e oltre 2.000 edifici distrutti. La storia del film si concentra su alcune di queste morti avvenute nel teatro degli orrori dell’Algiers Motel.



Detroit è un dramma dal taglio documentaristico in tre atti, scritto con mestiere e realizzato a regola d’arte. La prima parte della pellicola si preoccupa maggiormente di contestualizzare la violenza, e all’interno della ricostruzione storica vengono brevemente anticipati i personaggi principali che saliranno poi in cattedra nei restanti due atti. La contestualizzazione del momento storico rende tangibile una tensione vitale esplosa a seguito della condizione alla quale era costretta la popolazione nera in quegli anni. Chi è senza peccato scagli la prima pietra. Eppure è palese che non si tratti del blitz nella casa privata e neppure delle vetrine infrante, ma le scintille fanno luce su un fuoco che ardeva da tempo, alimentato dal pensiero come dalle azioni di una popolazione divisa in se stessa. Un patteggiamento è impossibile; la regista non cade nella banale spettacolarizzazione del dolore che distingue i buoni dai cattivi, il nero dal bianco. Ogni momento si trascina dietro un peso ideologico insostenibile che diventa la sconfitta del reale. La rabbia è forse l’unico sentimento distinguibile nella confusa guerra civile che si apre nella città di Detroit nella notte del 23 luglio 1967, i suoni armoniosi dei gruppi vocali lasciano il posto ad un rabbioso rumore.



Nel secondo atto vengono ripresi i pochi personaggi caratterizzati durante il primo e il contesto lascia il posto ad un’azione. La trama prende piede per raccontare una storia drammatica tra le molte tragedie di quei giorni. Una pistola da starter è il pretesto per scatenare la violenza omicida della polizia locale. La situazione iniziale, tranquilla sull’orlo della crisi, degenera sempre più mentre vengono scoperte le umanità dei ragazzi del motel e dei loro seviziatori. Il film si spinge all’apice del ritmo in una spirale di segregazione e massacri da togliere il fiato per la loro gratuità.



Il terzo ed ultimo atto dell’opera si slega da una ricostruzione storica aristotelica, abbandona il campo di battaglia e riprende la storia narrando brevemente gli eventi salienti dei mesi a seguire. Si tratta del momento della caccia ai colpevoli, il momento del processo e della (as)soluzione. Nelle ultime sequenze la regista abbandona il crescendo di ansia e disgusto, abbandona i colori forti, i rumori, la notte del dramma. Sembra un altro mondo, un’altra vita, perché la società ha voltato pagina e un processo messo in piedi dagli stessi torturatori sembra un buon compromesso per superare la crisi sociale. Ma questo processo agli uomini è la soluzione ideale per le concause che avevano acceso la miccia della situazione incipiale? Da quelle notti, immagine di un dolore ben più profondo e tornato in letargo, è rimasto in sospeso un conto umano e umanitario che ancora oggi continua ad incidere nella guerra razziale. Sminuire un sostrato ideale che fonda la violenza sociale con un processo ai colpevoli materiali è un insulto alla memoria di quei giorni e di ogni situazione di discriminazione della storia. È questo il momento esatto in cui, da film-reportage tendente alla ricostruzione storica, Detroit si spinge oltre, con uno sguardo al futuro. Il ragazzo che non è più in grado di cantare per gli uomini bianchi rappresenta il salto che ancora separa la realtà dall’immagine che pensiamo essa abbia acquisito in seguito ai nostri compromessi storici.


Detroit non è solo esercizio di stile, denuncia sociale o propaganda, si tratta di uno sguardo attento e posato sulle falle del nostro sistema, è un monito futuro che non deve essere sottovalutato né dimenticato. Riuscire a parlare di futuro in questo presente deragliato è un valore assoluto. Quando un messaggio sociale così alto incontra l’eccellenza tecnica e stilistica, si ottiene il capolavoro e il film più importante degli ultimi anni. 
Kathryn Bigelow riesce a far emergere la vergogna di essere questi uomini.

sabato 25 novembre 2017

MEZZA FETTA DI LIMONE

Mattia Labadessa appartiene ad una nuova tendenza pop del fumetto italiano che nasce da una mancanza editoriale ed esistenziale. Incarna la risposta ad una società vetusta e asfissiante che preme sulla vita quotidiana di una gioventù incastrata. Sulla scia di Zerocalcare, l’autore napoletano crea ormai da due anni situazioni realistiche attraverso un tratto fantasioso per dare voce ad un divertente disagio generazionale. Il percorso de Labadessa è allo stesso tempo particolare e usuale. Peculiare se analizzato nel suo complesso, del tutto naturale se calato ai nostri giorni. Il fenomeno dell’uomo-uccello rosso su sfondo giallo nasce dal web, da una pagina facebook diventata ben presto virale e arriva nelle librerie. Questo percorso editoriale coincide con una maturazione artistica che ha permesso all’autore ampliare il mezzo di trasmissione del messaggio di fondo. In questa espansione si cela anche la criticità di Mezza fetta di limone, primo inedito de Labadessa.


Nella prima graphic novel, che arriva dopo una fortunata raccolta di vignette, attorno all’uomo-uccello viene creato un contesto fin troppo usuale che comprende Wilson e Francuccio, un coniglio nano antropomorfo dedito all’uso di droghe leggere e un uomo-tucano nero. Le new entry sono il punto forte dell’opera, i colori pastello fanno il resto, ma la mole di sviluppo non è giustificata dal messaggio che l’opera tenta di trasmettere e il racconto di uno straordinario sabato sera come tanti si riduce a pochi siparietti comici, due concetti realmente sinceri e molti ricami. Mezza fetta di limone non riesce ad essere efficace come le singole vignette della pagina facebook, non coglie nel segno. Questa nuova tendenza artistica che si rivolge ad un pubblico giovanile si fa fregio di riuscire a far trasparire verità universali attraverso poche immagini, senza didascalie superflue. Labadessa invece non riesce ed asciugare alcuni intermezzi, si dilunga nella contestualizzazione e accompagna alle immagini descrizioni superflue nell’economia dell’opera. Il passaggio dalle vignette all’opera prima ha rappresentato un importante salto creativo da un format che l’autore aveva ormai fatto proprio ad un altro ben più complesso e rischioso da gestire. Concettualmente, la riflessione di Mezza fetta di limone si colloca invece in continuità con la linea tracciata dall’uomo-uccello e anzi entra nel dettaglio di un sentimento malinconico che prima muoveva solamente la comicità verso un impatto immediato e istantaneo, mentre ora tende a raggiungere un contatto con il lettore per condividere questa difficoltà, il muro della terra della nostra generazione, la socialità, il futuro. Elementi che vanno a costruire un quadro amaro e condivisibile, definendo ulteriormente i connotati di un personaggio iconico che è Mattia Labadessa, che siamo a anche noi.



Nonostante alcune difficoltà fisiologiche e strutturali, Mezza fetta di limone conserva diversi punti a favore, tra cui la capacità di trasporre su carta una certa napoletanità, che rappresenta un mondo di significati, da una particolare comicità a dei tempi propri della vita nei vicoli dei Quartieri Spagnoli. Riaffacciarsi alla meravigliosa cultura millenaria della civiltà partenopea è già un modo per incanalarsi verso un’identità artistica; un luogo dell'anima, come Rebibbia lo è per Zerocalcare. L’opera de Labadessa riesce ad intrattenere anche grazie alla semplicità con cui è in grado di far rivivere la nostra monotona quotidianità, grazie alla piacevolezza che si prova nella lettura. Il finale poi tira le fila del discorso con una certa poesia nell’aria. Pur non avendo centrato appieno il bersaglio, Mezza fetta di limone si distingue per la sua originalità, per la freschezza e la voglia di arrivare a questa stanca gioventù.

mercoledì 22 novembre 2017

JUSTICE LEAGUE - PER ANDARE DOVE DOBBIAMO ANDARE

Prima della sciagurata morte della figlia, Zack Snyder era il padre del progetto DC extended universe. Tre regie su cinque film, produttore e produttore esecutivo nei rimanenti due. La Warner aveva deciso di affidare nelle mani dell’eccentrico regista il futuro di un progetto nato all’ombra della coloratissima Marvel e Snyder si era dimostrato coerente con il suo percorso artistico: alcuni pregi, molti difetti, un’enorme spavalderia stilistica. Batman V Superman è stato il punto più basso raggiunto dal progetto fino alla scorsa settimana. Andai a vederlo al cinema e mi ritrovai di fronte al film più (involontariamente) comico dell’anno, lo aggiunsi alla flop del 2016 e, per rispondere ad un bisogno masochista, decisi di acquistare l’Ultimate Edition per verificare con mano la bontà della director’s cut da 182 minuti. Alcuni approfondimenti vitali non bastarono però a rivoltare un giudizio negativo, quanto più a mitigarlo e a far emergere il coraggio di alcune scelte. Indubbiamente il progetto DCEU aveva sposato una linea stilistica più matura, più complessa e carica di metafore a riempire una narrazione altalenante. Una linea sbagliata, inadatta, migliorabile, ma differente. C’è una sottile differenza tra la correzione e l’adattamento, e sta nell’originalità della proposta.


Il tragico dramma familiare di Zack Snyder ha allontanato per la prima volta il regista inglese dagli studi losangelini della Warner e ciò ha permesso ai responsabili del progetto di mettere in atto la mossa che probabilmente avevano in mente da tempo, ossia chiamare un caposaldo della concorrenza per competere sullo stesso piano del MCU. La scelta è ricaduta sul rinnegato Joss Whedon, famoso per aver mantenuto la giusta medietas nella trasposizione cinematografica dei più famosi Vendicatori. Il passaggio di testimone da Snyder a Whedon è quantomai visibile nella tendenza ad andare verso un’altra proposta d’intrattenimento.


Justice League si appiattisce attraverso uno sviluppo povero e ingiustificato. Fallisce nella creazione di un nuovo standard di competitor e inciampa ripetute volte nella corsa all’oro che la Marvel non ha la minima intenzione di condividere. La competizione sul modello che porta ormai la firma di Feige e Stan Lee è un suicidio dichiarato, lo zoppo che sfida il velocista. La gestazione confusa e un ambiente diffidente (con Ben Affleck sempre sul punto di abbandonare il ruolo di Batman) non hanno certo contribuito a sorreggere il peso di un nome pesante e il risultato è stato un miscuglio di già visto, poco originale, mal calibrato e superficiale, condito con una buona dose di computer grafica scadente. Il vero problema di Justice League è la mancanza assoluta di qualcosa di nuovo e se ad un cinecomic moderno sottraiamo la suspance, lo stupore e la novità, resta la noia, la morte dell’intrattenimento.



La Warner Bros è sempre un passo dietro la Marvel, perché è effettivamente arrivata dopo in questo specifico settore e non ha saputo fare tesoro dei successi targati Nolan. Noi siamo fruitori di un mercato che tende a convergere verso uno standard ormai superato anni fa. Avengers aveva riempito un desiderio latente, ma già con Avengers: age of Ultron qualcosa dello standard corale aveva iniziato a mancare il bersaglio. I Guardiani della Galassia ancora resistono perché non si tratta di supereroi, ma di personaggi sui generis coinvolti in meravigliose avventure intergalattiche; un modello molto più vicino a Star Wars che alla Marvel. La figura dell’uomo che scopre di avere dei poteri e combatte minacce sempre più temibili in una tutina attillata ha fatto il suo corso. Il MCU va avanti per l’inerzia emotiva che ha saputo inculcare nelle menti degli spettatori, gli X-Men stanno perdendo la loro carica sociale, la DC ha scelta di non battere nuovi territori per tornare alla via amica/nemica.


Thor: Ragnarok vira verso un preponderante umorismo basso alla cinepanettone spaziale. La Justice League di Whedon insegue il fantasma sepolto degli Avengers di Whedon. Non è nient’altro che un triste livellamento verso il basso di un intrattenimento che sta esaurendo il suo potenziale. Non resta che ammetterlo e smetterla di mentirsi: i film con i supereroi non sono più adatti a me

sabato 18 novembre 2017

RICK E MORTY 3 - ANCORA SULLA CRESTA DELL’ONDA?

La terza stagione è in calo rispetto alle precedenti due? L’opinione pubblica si è spaccata nella valutazione della terza stagione: da una parte la conferma di una serie superiore, dall’altra il primo passo falso. Dopo aver conquistato il pubblico mondiale - anche grazie alla diffusione capillare garantita da Netflix - ed essere entrata nell’olimpo delle serie cult, Rick e Morty era chiamata ad un salto di qualità per esprimere appieno alcune peculiarità appena accennate

Pickel Rick

Una terza stagione sulla falsa riga delle due precedenti avrebbe certo ridimensionato le possibilità future dell’intera serie. C’era bisogno di uno slancio verso qualcosa di più. E lo slancio è arrivato come contestualizzazione del passato di Rick e Beth e, di conseguenza, di quello che abbiamo visto in precedenza. In questo modo i personaggi principali vengono approfonditi in maniera più esplicita, mentre sullo sfondo della terza stagione si connotano le conseguenze della separazione di Beth dal marito Jerry. In generale cambiano alcuni rapporti di forza interni alla famiglia Smith e un Rick molto più umano appare allo stesso tempo il signore indiscusso del multiverso e legato a dinamiche familiari molto più basiche.


Quella dell’esplicitezza è una scelta narrativa attorno alla quale poi è stato sviluppato il delirio usuale della serie, il motivo che l’ha trainata al successo. La terza stagione non può dirsi riuscita appieno per non essere stata in grado di realizzare le potenzialità espresse nelle prime due stagioni, ma almeno ha prodotto uno sviluppo e posto delle buone premesse per una serie duratura e non più caratterizzata da una forte componente episodica - one-shot.


Indubbiamente la scelta di andare a spiegare alcune dinamiche emotive influenza anche il resto dello sviluppo: la terza stagione è meno divertente, meno imprevedibile delle due precedenti, eppure si percepisce uno spessore maggiore nel non-detto, che arriva sì da una costruzione pregressa ma che riesce, attraverso questa terza stagione, a crearsi la possibilità di uno costruzione futura. Nell’economia della serie, anche una stagione meno brillante nello specifico degli episodi può rivelarsi fondamentale.


Concentrandoci sulla riuscita degli episodi appunto, elemento maggiormente criticato dal pubblico, è impossibile non riconoscere la grandezza dell’episodio 7, “Tales from the Citadel”. Esperimento di fantapolitica realizzato con due soli personaggi e un intreccio incredibilmente reale. Non si ride, ma il livello d’intrattenimento semplicemente superiore. Come questo settimo episodio, anche altri lasciano il segno per inventiva e imprevedibilità. Il problema celato è forse una rivalutazione complessiva a posteriore, alla luce della mancanza di un finale emotivamente all’altezza. Certo, bissare il finale della seconda stagione, con "Hurts" dei Nine Inch Nails in sottofondo, era operazione quasi impossibile, però gli sceneggiatori non hanno neanche realmente tentato la strada del cliffhanger per una sciatta conclusione quasi come non si trattasse del memorandum per i mesi senza Rick e Morty. Questa sì, una scelta infelice, ma non possiamo riconoscere il giusto valore di un’intera stagione per dieci assenti minuti.



Rick e Morty colpiscono ancora con qualcosa che tenta di differenziare la proposta, approfondiscono il multi verso e i protagonisti, ma mancano ancora il salto di qualità definitivo che faccia dire a gran voce di aver visto compiuta la piena potenzialità della serie. Non tutto è perduto, questa terza stagione potrebbe aver solo rimpinguato le basi per il capolavoro che tutti noi aspettiamo da anni a questa parte. La prossima stagione non deluderà.

sabato 11 novembre 2017

AFMV - THE JACKAL RIMANDATI A SETTEMBRE

Addio Fottuti Musi Verdi, il film dei Jackal, un altro “Film del web”. Difficile scrollarsi di dosso questo appellativo quando anche la critica specializzata antepone il dettaglio dell’origine del gruppo di creativi all’effettivo progetto. I precedenti hanno inevitabilmente condizionato le aspettative verso l’opera prima di Francesco Ebbasta. Anni di Fuga di cervelli, Game Therapy e il meno disprezzabile film dei Pills hanno già condizionato un’opinione pubblica schizofrenica tra la voglia di novità e l’astio verso la bellezza dell’ingenuità. Mi ero ripromesso di mantenere basse le aspettative prima di entrare in sala, ma, dopo le varie proiezioni in anteprima sparse per tutto il paese, e dopo aver riscontrato nel pubblico un’accoglienza positiva, a tratti entusiasta, mi sono lasciato trascinare dalla curiosità e sono entrato in sala con una forte voglia di essere sorpreso.


Il progetto AFMV presentava delle difficoltà fin dalla sua ideazione. I Jackal hanno dovuto tradurre un linguaggio in un medium differente e adattare i tempi comici al grande schermo. Due elementi che insieme fanno la differenza tra la nuova comicità seriale in pillole e il cinema. Alla luce del risultato finale è possibile dire con certezza che il cinema, la settima arte, è in parte presente nel primo film dei Jackal, ma la traslitterazione mediatica ha lasciato indietro troppi elementi significativi perché il progetto possa dirsi riuscito.


I problemi risiedono in larga parte nelle scelte, non nei mezzi. Tecnicamente infatti il film raggiunge un livello invidiabile e la tanto osannata computer grafica rappresenta solo la ciliegina sulla torta della realizzazione complessiva. I difetti di uno script borderline però controbilanciano in negativo i picchi qualitativi. Dopo un esordio scoppiettante, lo sviluppo dell’intreccio va naufragando verso un livello alquanto mediocre, sia nella scrittura dei personaggi e delle loro relazioni che nel dipanarsi della trama principale. Il problema fondamentale del film è la profondità mancante, lo spessore promesso che non raggiunge, per fermarsi prima, nella terra di mezzo tra una riuscita commedia grottesca e un rivedibile film demenziale che lascia il tempo che trova. Il villain sui generis - interpretato dall’eccentrico Roberto Zibetti - risulta inoltre scritto male, pensato per una comicità che non rispecchia il target di riferimento del film, e mal calibrato nel corso dello sviluppo della trama. Questa disparità tra una realizzazione tecnica impeccabile e le succitate difficoltà nell’identificazione di una linea definita da seguire in fase di scrittura lascia l’amaro in bocca, perché per larghi tratti il film diverte e intrattiene, ma mai fino in fondo, perché è l’intero progetto a non spingersi fino in fondo nelle diverse strade tastate con quest’opera prima.


Oltre alcune mancanze, l’errore: il modello è indubbiamente la trilogia del cornetto di Edgar Wright, ma, a differenza di questa, AFMV subisce passivamente troppi salti da un registro comico all’altro. Si passa in pochi secondi dal demenziale alla satira sociale, dal nonsense alla parodia; gli ambiti toccati sono molti e le differenze tra le trovate più originali e quelle meno riuscite è eccessiva. La caratterizzazione di Ciro ad esempio è surreale, ma reale, credibile, vera. Brandon invece è finto, sopra le righe, terribilmente forzato. Le risate arrivano spesso di gusto, ma non si entra mai appieno nel clima e nel ritmo della battuta, perché cambia di continuo il contesto e una scena successiva arriva a smorzare l'ilarità di quella precedente. In questa costruzione psichedelica più che nello sviluppo di una trama lineare si nota il punto di partenza degli autori.



Parlare di cinema è però già un enorme passo avanti nell’ambito della creatività multimediale. AFMV nasce da una grande idea - quella del ragazzo italiano costretto ad emigrare nello spazio per trovare lavoro -, ottiene il suo sviluppo attraverso alcune buone trovate ed altre rivedibili, ma non punge come dovrebbe, come i Jackal sono in grado di fare. Ma, nonostante ciò, la colonizzazione del grande schermo da parte di Ciro e compagni risulta incredibilmente credibile e un’analisi come questa, cinematografica e metacinematografica, ne è la riprova. Il progetto nel suo complesso è da sposare, sostenere e promuovere, anche se, nello specifico di AFMV, i Jackal passano l’esame cinematografico con alcune, forse troppe riserve. Eppure il collettivo di Napoli merita l’esame di riparazione con il seguito di quest’opera prima, un film annunciato e atteso per colmare alcune lacune e confermare la nuova era di questo nostro vecchio cinema. Io aspetto con la stessa voglia che mi aveva preso prima di entrare in sala a vedere AFMV, la voglia di essere stupito.

lunedì 6 novembre 2017

STRANGER THINGS - COSA ACCADRÀ NELLA TERZA STAGIONE?

Lo specchietto per le allodole sta in una scena similare alla prima stagione in cui viene mostrata la minaccia che farà da traino per la prossima stagione. Stranger Things 2 nasconde in realtà un sottobosco di indizi rivelati in corso d’opera che lasciano lavorare la fantasia nell’immaginazione di una terza stagione. Analizziamo per punti cinque elementi che costituiranno, a mio parere, la spina dorsale della trama della terza stagione. È doveroso avvisare coloro i quali non hanno ancora visto la seconda stagione che questo articolo vive di spoiler, attenzione quindi a proseguire nella lettura.



THE MIND FLAYER
Come non cominciare dalla scena conclusiva della seconda, quella in cui siamo resi partecipi che la minaccia del mostro d’ombra non sia in realtà sconfitta, ma limitata nell’upsidedown. Sarebbe un errore confondere i poteri dimensionali di El (Jane) con la capacità di annullare l’essenza del mondo negativo, la materia oscura che governa le azioni e i pensieri dell’intera realtà parallela. Lo sforzo compiuto da El è servito a ripristinare una condizione di equilibrio tra le due dimensioni, ma la scena finale che vede il Mind Flayer scrutare la scuola, nonostante esso sia relegato all’upsidedown, denota una consapevolezza certamente maggiore; e la sola Eleven potrebbe non bastare contro un’offensiva ragionata delle forze d’ombra.



I NUOVI VECCHI ESPERIMENTI
Ed è qui che entrano in gioco gli esperimenti precedenti - ed eventualmente successivi - ad El. Nella seconda stagione abbiamo fatto la conoscenza di Kali (Eight), ragazza dotata di poteri, scampata alle grinfie degli esperimenti governativi e finita nel giro di losche azioni vendicative. È presumibile che insieme a lei altri ragazzi siano riusciti ad evadere da un futuro già scritto e potrebbe essere proprio grazie all’intervento di queste nuove forze paranormali che il Mind Flyer torni ad essere una minaccia contrastabile. Una scelta narrativa di questo tipo potrebbe però replicare l’esperienza dell’episodio 7, collocato al di fuori dei confini di Hawkins e universalmente bistrattato per essere troppo lontano dalla linea stilistica della serie. Starà agli sceneggiatori far convivere queste due anime, contro la nostalgia della nostalgia.
 
Joker


UN RITORNO ANNUNCIATO
Che il Mind Flayer sia in grado di riaprire un varco per il nostro mondo o avrà ancora bisogno dell’intervento delle tecnologie umane per scatenare la sua ira subdola? Un ritorno gradito potrebbe essere fare al caso del mostro d’ombra, si tratta del Dr. Brenner, solamente citato nell’episodio 7, sul quale aleggia ancora un alone di mistero. Matthew Modine è un attore di spessore che nella prima stagione veniva ridotto al villain umano della serie, ma un ritorno del suo personaggio potrebbe restituire all’attore lo spazio che egli merita. Inoltre il personaggio di Brenner non è mai stato realmente collocato in uno scacchiere più definito, rimanendo sempre in una zona grigia tra operazioni federali antiterrorisstiche e mire personali. La sua posizione di ritorno potrebbe coincidere con un nuovo punto di contatto tra il nostro mondo e l’upsidedown.
 
Guarda mamma, come Will!


EPIDEMIA DI MASSA
Arrivati a questo punto della narrazione, con un gruppo che ha imparato a dare il meglio di sé proprio nel momento di coesione massima, è prevedibile una scissione forzata per tornare poi nuovamente a ricreare di slancio l’atmosfera dell’unità. I due personaggi che hanno dimostrato di avere un’integrità assoluta nel corso delle prime due stagioni sono sicuramente Dustin per il gruppo dei ragazzi e Jim Hopper per quello degli adulti. I due condividono la scomoda casualità di essere entrati in contatto con le spore dell’upsidedown, le quali - come sappiamo - contengono una parte dell’essenza assoluta del luogo e rispondono alla volontà del Mind Flayer. Abbiamo visto come il mostro d’ombra sia in grado di controllare la mente di coloro che sono entrati in contatto con la vegetazione viva del mondo negativo e quello dei voltagabbana inaspettati sarebbe un ottimo espediente per rimescolare le carte in tavola pur mantenendo pressoché identico il parco interpreti. Siete preparati ad un Dustin malvagio? E se l’epidemia di massa non si limitasse ai soli personaggi citati ma si espandesse come in un zombie movie?



PUBERTÀ
Come dimenticare la componente propriamente seriale che riguarda i personaggi e il loro sviluppo? La scena conclusiva del ballo invernale con le varie coppie che si ritrovano, i Police e Dustin laccato ha rapito tutti; la crescita di ciò a cui siamo affezionati ha sempre un posto speciale nei nostri cuori, crea empatia, fidelizza. E il luogo ideale dove siamo diretti e proprio quello degli ormoni incontrollabili, dei primi amori e di Big Mouth. Prevedo una terza stagione ancor più focalizzata sui rapporti tra i ragazzi del gruppo dei protagonisti, con un occhio di riguardo al triangolo amoroso Nancy-Steve-Weirdo. Io ve lo dico, tifo per Steve, ha la lacca migliore.

Epic lacca guy


Le speculazioni cominciano a delinare una trama ben definita, ma, se queste si rivelassero anche solo in parte vere, cosa ne sarebbe dell’effetto sorpresa? Le premesse gettate nel corso della seconda stagione sembrano accantonare sempre più l’effetto sorpresa per lasciare spazio allo sviluppo dei protagonisti. In realtà questa tendenza arriva a compimento di un percorso intrapreso già nella seconda stagione. Dalla progettualità che ne è stata fatta, sarebbe forse più corretto riferirsi a Stranger Things come ad una stagione autonoma più una trilogia ideale che lima se stessa per rientrare nei canoni della serialità televisiva. Riusciranno i Duffer a replicare la magia della prima stagione o dovremo accontentarci di una bellissima serie normale?