venerdì 28 luglio 2017

IL CAMPO DI GRANO NERO - PRIMA PARTE

Era il 1987. Avevo appena compiuto otto anni, Mark frequentava già le scuole medie. Ci eravamo da poco trasferiti nella casa in fondo a Pilgrim street, la maleodorante casa di campagna in cui avremmo trascorso pochi mesi, prima che papà ottenesse il trasferimento in città. Era una casa decadente, con la carta da parati ammuffita e ingrigita alle pareti. Un bagno di fortuna e appena due letti matrimoniali dalle lenzuola ingiallite, probabilmente rosicchiate dai topi nel periodo in cui il luogo era stato disabitato. All’epoca potevamo permetterci solo quello, eppure conservo ancora un ricordo meraviglioso di quel posto. Appena fuori dall’uscio secondario di casa, si apriva a noi una vasta pianura, che non si poteva misurare con gli occhi. Non eravamo mai stati in un posto del genere, abituati come eravamo alla periferia di Columbus. Mai avevamo avuto a disposizione spazi così sconfinati per le nostre scorribande, e questo ci aveva fatto presto dimenticare il degrado della casa in fondo a Pilgrim street. Passavamo le nostre giornate a rincorrerci, a fingere di essere soldati su un campo di battaglia. Spesso Mark si divertiva a nascondermi degli oggetti nei campi dietro casa, per poi disegnare una mappa alla bell'e meglio, che mi avrebbe - almeno secondo i suoi piani - guidato al ritrovamento del mio prezioso oggetto, che talvolta era un tappo colorato, altre volte un ritaglio di giornale. Era per me una gioia riuscire a ritrovare i miei preziosi tesori nella sconfinata campagna, mi faceva sentire davvero come quegli eroi archeologi della televisione. Capitava però che ci mettessimo più del previsto, io e Mark, a ritrovare un oggetto nascosto, e dovevamo rientrare in casa prima che facesse buio. Immagino che a volte neanche mio fratello sapesse ritrovare gli oggetti da lui stesso seppelliti, tanto erano ampi quegli spazi.


Un giorno mi prese a mia insaputa il coltellino svizzero che papà mi aveva regalato per il mio settimo compleanno, quello che il nonno gli aveva regalato quando lui era un bambino. Scavò una buca e lo nascose molto lontano da casa. Schiaccio poi il grano attorno alla buca per lasciare un segno del suo passaggio e, come al solito, disegno uno schizzo della mappa del posto sul retro di un foglio scarabocchiato. Tornò quindi a casa e mi diede il foglio, aspettando di seguirmi come un dottore segue il suo fido detective. Ricordo che quella volta mi arrabbiai molto, gli avevo espressamente detto che avrebbe potuto nascondermi tutto, tranne il coltellino di papà, al quale ero molto legato. Lo usavo per intagliare gli arbusti, credendomi un grande artista. Ci sminuzzavo gli avanzi si cibo per lasciarli agli animali notturni. Non me ne separavo mai.
Superata l’arrabbiatura, partì alla scoperta, convinto di riuscire a ritrovare il mio amato coltellino. Non volli che mio fratello mi seguisse perché non avrei sopportato le sue risatine ad ogni svolta sbagliata. Non questa volta, che l’aveva fatta troppo grossa. Partì e capì subito che ritrovare il coltello sarebbe stato un’impresa più ardua del solito. Mark all’epoca era molto bravo a disegnare, e soprattutto a creare queste mappe del tesoro. Riusciva sempre a riprodurre a grandi linee le proporzioni della realtà, rendendo possibile il ritrovamento di oggetti anche molto piccoli, anche nascosti meticolosamente. Notai che l’albero più imponente, quello secco inclinato verso est, era raffigurato attaccato alla nostra casa. Se non si fosse tratto di un errore, allora la X sarebbe potuta essere anche a due chilometri dal punto di partenza. Il sole cominciava già ad essere meno aggressivo quando mi incamminai verso nord. Superai la casa della signora Lathimer, scavalcai la recinzione per le volpi degli Smith, e arrivai alla linea dei covoni. Io e Mark non ci eravamo mai spinti oltre, nostra madre aveva posto quella linea come il limite delle nostre avventure, ma se la mappa indicava oltre la linea dei covoni, allora anche Mark l’aveva oltrepassata. Mi feci coraggio, pronto ad inventare una scusa poco credibile nel caso in cui mia madre avesse scoperto il fatto, e proseguì il mio viaggio. Il sole stava cominciando a calare quando vidi in lontananza un vuoto nel grano rigoglioso, un cerchio mancante. Nel rosso del tramonto, presi a correre verso la meta. Scostai le ultime spighe e scoprì un cerchio perfetto di grano bruciato, grano nero. Del mio coltellino neanche l’ombra. Il sole era ormai tramontato e l’imbrunire galoppava, quando sentì una brezza fredda sferzarmi il volto da destra. Quando mi voltai, mi accorsi di essere molto vicino ad un’abitazione particolare. Bassa, con le finestre sbarrate, un buco nel tetto e grano bruciato tutto intorno. Tutta la casa, dalla maniglia della porta alla finestra circolare del piano della mansarda, era di un nero pece profondo come il buio.
Impaurito e con le mani remanti, udì una voce bisbigliare qualcosa, prima indistintamente, poi riconobbi il mio nome.
“Kevin”
Con gli occhi carichi di paura cominciai a scappare verso casa, senza voltarmi indietro. Inciampai nella recinzione degli Smith, caddi, ma mi rialzai rapidamente e ricominciai a correre. In pochi minuti tornai a vedere casa mia. Il cielo era ormai scuro. Scavalcai la staccionata. Mia madre mi aspettava sulla soglia di casa con sguardo severo. La scostai con forza.
“Ehi, giovanotto! Dove scappi?”
 “Mark! Mark! Ho visto una casa abbandonata, era in un campo di grano nero”.


Continua

martedì 25 luglio 2017

TWIN PEAKS 3 - EPISODIO 11

Puntata bipolare nel suo sviluppo: ad una prima parte caratterizzata da un pathos senza eguali e da un occhio alla tradizione non indifferente, segue una seconda povera di contenuti ma ricca di ironia. Si sente una nota di tradizione, la quiete delle relazioni nella Twin Peaks a noi cara, ma persiste una punta di fastidio, rappresentata in parte dalle mancanze che ancora ci impediscono di avere un’immagine completa del tutto, in parte dallo stile narrativo di Lynch.


La prima location approfondita dall’autore è proprio la legnosa di Twin Peaks; il triangolo Becky-Shelly-Bobby potrebbe sembrare staccato dalla narrazione principale, ma ha il necessario compito di riportare alla luce quelle atmosfere familiari, molto anni ’90, a cui contribuivano le storyline secondarie delle prime due stagioni. Abbiamo finalmente la conferma sulla paternità di Bobby, il quale resta uno dei personaggi che meglio hanno vissuto il salto temporale - probabilmente proprio in virtù del legame con il padre. La riunione familiare conduce inoltre ad una scena costruita su un crescendo di suoni innervosenti e fastidiose luci, atti a generare nello spettatore il giusto stato d’animo per il dialogo tra Bobby e la signora corpulenta nella macchina grigia. L’argomento della conversazione è fin dal principio criptico e la forte scena della bambina in trance non offre una chiave di lettura adatta. Un ulteriore enigma da decifrare in attesa di una svolta definitiva che dia le giuste risposte ai nostri quesiti. Le parole della donna che potrebbero celare il cuore del mistero sono: “Her uncle is joining us”; ma troppi dati mancano all’appello per la risoluzione del problema.


Otteniamo quindi nuove informazioni sulla preparazione di Hawk e del nuovo sceriffo Truman alla spedizione che li condurrà nel posto indicato dal maggiore Briggs. Fin da subito spicca un particolare incongruente con quanto mostrato nell’ormai arcinoto ottavo episodio. In tale capitolo infatti abbiamo pensato di vedere l’origine della loggia nera e la dispersione della sua malvagità nel mondo, contrastata simultaneamente dalla creazione della sfera dorata di Laura Palamer. La mappa dei nativi americani - altro riferimento all’indicazione che il ceppo aveva fornito nel primo episodio - che Hawk mostra a Truman nasconde dei particolare che si riferiscono alle modalità attraverso cui possono manifestarsi gli spiriti della loggia, ossia il fuoco e l’elettricità. Hawk inoltre afferma che la mappa risalga ad un periodo lontano nel tempo. Considerando il ruolo particolare che la corrente elettrica svolge per le entità della loggia nera, non possiamo più essere certi che gli esperimenti atomici del 1945 abbiano generato la loggia nera nella sua interezza, ma più presumibilmente, essi hanno dato vita all’entità di Bob, o a quella che poi ha espulso Bob con la garmonbozia.
Hawk equipara poi il fuoco raffigurato sulla mappa con l’elettricità moderna, avvalorando la tesi secondo cui il fuoco, così come la corrente, possa rappresentare un elemento fondamentale sia per gli spiriti della loggia nera che per quelli della loggia bianca, in quanto “Dipende, dipende dalle intenzioni”. Eppure, se il ceppo di Margaret ha paura del fuoco, è certo che le intenzioni della loggia nera nei confronti di potenziali intrusi possano rivelarsi avverse.


Sorvolando sulla seconda metà dell’episodio, che narra ironicamente delle disavventure di Coop, ancora incastrato nei panni di Dougie Jones, passiamo quindi al vero cuore pulsante della puntata: il buco nera di William Hastings. Gordon, Albert, Tammy, Diane e l’agente della polizia locale riescono a ricostruire l’ubicazione del luogo dell’incontro metafisico tra il preside Hastings e il maggiore Briggs, si imbattono in un portale per un’altra dimensione, avvicinandosi alla soluzione del caso, ma questo movimento in avanti implica la morte dello stesso Hastings, che subisce la medesima fine di Ruth Davenport. Possiamo riposizionare alcuni tasselli dell’interrogatorio di William Hastings: sappiamo che i due amanti sono riusciti a risalire a questo luogo di periferia attraverso i loro studi sul paranormale e che proprio in quel luogo, in corrispondenza con il portale, sono entrati in contatto con il maggiore, in quel momento visualizzato ancora a figura intera. Dalle indagini dell’FBI sappiamo invece che la zona morta dietro il portale è abitata prevalentemente da uomini barbuti dalla faccia sporca, quelli che abbiamo identificato come il corpo armato della loggia nera. Briggs quindi, fermo biologicamente all’età della scomparsa, ha invitato Ruth e Bill a trovare per lui le coordinate della loggia bianca e solo a quel punto ha potuto lasciare le sue fattezze umane per spostarsi come spirito-testa verso il mare viola visto nel terzo episodio. Suppongo che in quel momento il corpo di Briggs, ancora quarantenne, sia precipitato attraverso il portale sulla terra. A quel punto, senza più la presenza del maggiore a fungere da tappo tra il luogo reale collegato al portale e la dimensione alternativa, gli uomini con il volto nero si sono riversati nella realtà e hanno brutalmente ucciso Ruth Davenport. Restano aperte diverse questioni: perché non hanno ucciso anche William, visto poi l’esito del sopralluogo dell’FBI? Chi ha raccolto il corpo di Briggs e la testa di Ruth per poi riposizionarli nell’appartamento della donna? Chi ha inserito nello stomaco di Briggs la fede nuziale di Dougie e perchéAlcune risposte sulle modalità non riducono la portata delle domande di fondo. In tutto ciò Diane continua a dimostrare un atteggiamento controverso, che denota la sua propensione a collaborare con Bob, come si evince dalla sua reazione alle coordinate sul braccio di Ruth Davenport.



Rispetto ai primi due episodi, le singole narrazioni, con qualche dovuta e concessa eccezione, cominciano a convergere verso un unico epilogo che coinvolge allo stesso tempo Twin Peaks, l’FBI, Bob e Cooper. Il gusto della scoperta continua ad alimentarsi con nuovi misteri minori che cancellano del tutto l’immeritata chiusura della seconda stagione, quando il mistero principale crollò. Ogni sequenza, anche la meno comprensibile, ha in sé il seme della genialità di qualcosa che va oltre le nostre possibilità. In un panorama saturo e attendibile è raro meravigliarsi ancora.

giovedì 20 luglio 2017

PERCHÉ L’INDIE ITALIANO È GIÀ MORTO

Il 2016 è stato l’anno della svolta: centinaia di migliaia di giovani mossi da nuove sonorità, nuovi idoli, nuovi orizzonti. È possibile che questo movimento abbia già esaurito il suo slancio vitale? Ma facciamo un passo indietro: cos’è l’indie? Potremmo dire che individuare una data d’inizio del genere indie sia pressoché impossibile, sia perché esso è nato contemporaneamente alla musica prodotta dalle major discografiche, sia perché definire l’indie un “genere” sarebbe alquanto improprio. Se per indie intendiamo tutto ciò che esula dalle produzioni maggiori, allora si perde il senso di univocità musicale per una definizione puramente tecnica. Culturalmente siamo abituati ad identificare un possibile genere musicale indie con la scena britpop o quella dell’underground americano anni ’90. Ma il 2016 italiano ha avuto il merito di riscrivere questo genere in un’accezione propriamente nostrana.


Il 2016 è stato l’anno di Calcutta e di Motta, degli Ex Otago e dei Cani. L’anno di Cosmo. Artisti che hanno saputo esprimere un pop italiano che andasse fuori dai canoni della musica leggera, esaudendo i desideri di una larga schiera di ascoltatori alla ricerca di una rappresentazione musicale nostrana in cui ritrovarsi. Avevano compreso il senso della musica indipendente: slegata da un commercio intensivo, ormai ristagnante, e libera nell’espressione di un gusto artistico nuovo per il pubblico italiano meno abituato ad un ascolto internazionale. Non avevamo compreso noi il senso di un anno zero per la musica, confondendo l’arte e la modalità di fruizione del prodotto.
L’esempio che ha rotto gli argini della finzione è stato “Cambogia”, artista indie in rampa di lancio, rivelatosi un troll costruito fin dalle prime note per sperimentare la facilità dell’ambiente indie italiano, ormai assuefatto da prodotti troppi simili per poter essere ancora l’espressione di quella genuina libertà iniziale. La rivelazione sulle pagine di Noisey, a metà tra sfottò e venerazione per quello che a tutti gli effetti è diventato realmente un punto di riferimento del genere musicale.

"Cambogia non esiste. Cambogia è un personaggio di fantasia creato da Ground's Oranges. Il progetto nasce ad agosto 2016 come estremizzazione della figura del cantante indie e come esperimento sociale volto a sottolineare la maggiore importanza attribuita all'hype rispetto alla reale proposta musicale. Andrea, che voi identificate come Cambogia, non sa cantare e non sa suonare, non è nemmeno un attore, è solo un amico che ha prestato il volto giusto a questa causa. [...]”

Cambogia ha smascherato un’industria florida, alimentata dalla necessità popolare di un nuovo canone obsoleto. Il movimento indie è esondato, ha  trasceso l’essenzialità della componente musicale - ormai riconducibile un modello standardizzato - per rispecchiarsi in un canone umano in linea con i tempi. E questa semplificazione della realtà che sta dietro la composizione artistica ha definitivamente affossato l’originalità degli artisti che si affacciano nel mondo indipendente. Non è più lo sfogo artistico di una generazione oppressa in un paese immobile, ma il nuovo canone “artistico” che ha cristallizzato nuovamente il movimento giovanile, impedendogli un progresso rilevante. E qui muore il movimento indie, quando non è più in grado di rappresentare l’innovazione della scena musicale pop, ma contribuisce solamente ad affossare l’aspirazione di una nuova discografia. I legami che potevano rendere l’ambiente unito da nord a sud, si sono rivelati catene dell’anonimato, le maschere bruciate da Cambogia.


Ma tanta parte di questo fallimento artistico nostrano è da attribuire al pubblico di questa nuova ondata musicale, nel quale, per certi versi, mi includo, avendo creduto, agli albori di questa realtà, che l’indie, inteso come contenitore, potesse risollevare le sorti di un mercato senza futuro. Noi fruitori abbiamo trasceso la musica alla ricerca di una forma di riconoscimento sociale che ci portasse verso il futuro, e invece siamo caduti nella melma del riciclo di un mondo passato, che nulla propone di nuovo, se non un paio di synth. Avevamo bisogno di identificarci in qualcosa, invidiosi del metal sottobosco e della crescente ondata trap, ma altrettanto altezzosi da non ammettere le nostre necessità.



Il movimento indie italiano, sia come contenitore di sperimentazioni che come genere vero e proprio, è già morto. Restano però alcuni artisti, coloro che sono stati inclusi in questo fallimento che arranca e che invece meritano di sopravvivere alla fine del genere. Che probabilmente sono sempre stati mossi da un’altra aspirazione: la musica. Iosonouncane, Cosmo, Populous, Motta.

mercoledì 19 luglio 2017

TWIN PEAKS 3 - EPISODIO 10

È stato ripetuto diverse volte: la libertà concessa a Lynch nella realizzazione della sua creatura prediletta sta facendo la differenza, specialmente se paragonata ai paletti restrittivi della seconda stagione. Eppure la volontà dell’autore - che come sappiamo era arrivato anche ad abbandonare il progetto pochi mesi prima dell’inizio delle riprese - immaginava questo terzo atto come un unico film di diciotto ore. Anche alla luce della visione che egli stesso ha della sua opera, dobbiamo tendere a valutare ogni episodio sia autonomamente, perché così ci viene fornito da Showtime, sia nel complesso di una narrazione univoca. E nella divisione settimanale che è stata fatta del prodotto finito, attraverso l’escamotage delle sonate al chiaro della luce soffusa del Bang Bang, è possibile che alcune “Parti” pecchino di contenuti che mettano la giusta dose di carne al fuoco, e che invece tendano a privilegiare uno sviluppo circolare, andando a toccare situazioni marginali. Nonostante una densità minore, questo decimo episodio offre alcuni contributi interessanti. Proviamo ad approfondirli allontanandoci da una modalità cronologica.


Il rampollo Horne si è rivelato essere effettivamente il figlio di Audrey, ma tra malefatte, corruzioni ed estorsioni, della madre neanche l’ombra. Che fine avrà fatto la piccola e temeraria ragazza che aveva stregato Coop nella prima stagione?  Dopo i primi due episodi avevamo ipotizzato che Audrey, data la sua disponibilità economica e il legame che la legava a Cooper, poteva essere la donna dietro l’operazione della scatola di vetro. Questa teoria aveva poi ottenuto una conferma indiretta dalle parole del dottor Hayward, che aveva fatto luce sugli avvenimenti successivi al finale della seconda stagione. Ora però questa teoria potrebbe crollare nel tempo di un otturatore. Tammy infatti mostra a Gordon e Albert una foto del doppelganger di Coop nella scatola di vetro. Il mandante dell’operazione potrebbe essere lo stesso Bob, anche se i suoi metodi, a partire dal prequel, sono sempre apparsi meno sofisticati e più pragmatici. Da lui è facile aspettarsi l’organizzazione di un corpo di assassini, meno quella di un sistema complesso per intercettare lo spirito di Coop verso il terzo doppelganger, Dougie Jones. Chi si cela allora dietro la scatola di vetro, ma soprattutto, verso quale parte tende la moralità del clan della scatola?


Il messaggio di Bob a Diane, di cui abbiamo appena accennato nelle scorse settimane, rivela più di quanto potessimo aspettarci da un meraviglioso personaggio. Diane, dopo anni passati all’ombra di un registratore, è riuscita a ritagliarsi una personalità allo stesso tempo convincente e ambigua. Se abbiamo ormai imparato ad aspettarci dal suo personaggio alcune battute ricorrenti, alcuni modi di fare, alcuni atteggiamenti, il suo travagliato passato - che poi l’ha presumibilmente spinta all’alcolismo - nasconde la reale dimensione del personaggio, che opera un doppiogioco tra Bob e l’FBI. La soluzione più semplice sarebbe ammettere una storia d’amore tra Diane e Cooper e quindi giustificare il suo comportamento nel tentativo di coprire quello che lei crede non essere il suo amante, ma comunque l’uomo che indossa le spoglie del protagonista. Questa versione cozzerebbe però con l’idea che Gordon e Albert ci hanno proposto di Diane, ossia di una personalità che ha delle informazioni sugli eventi di Twin Peaks ancora celata agli agenti. Coop aveva una corrispondenza diretta con la donna ed è presumibile che lei abbia tentato di ricostruire il puzzle della battaglia delle logge, per cui non possiamo accettare che il suo comportamento si fondi solamente sull’assuefazione dell’immagine. La mia proposta è quella di un secondo incontro: credo che il confronto tra Diane e Bob in carcere - uno dei momenti più alti della serie finora - non sia in realtà il primo. Bob potrebbe aver avvicinato precedentemente la donna, costringendola a collaborare in cambio dell’incolumità di Coop, o della promessa del ritorno di questo nella figura fisica di Dougie Jones. Un puzzle intricato che non trova ancora una soluzione, ma che apre le porte della narrazione ad un doppiogioco già noto, che potrebbe evolversi in una caccia all’uomo al contrario, nel tentativo di attirare Bob in una trappola.


Il ritorno della signora Ceppo, in queste condizioni, è sempre un evento, a prescindere dal contesto. Se poi questo cameo inaspettato porta con se le conferme di un progetto escatologico, allora il momento televisivo non può che innalzarsi. “Laura is the one”, è la conferma che aspettavamo per credere ancora che tutta questa vicenda abbia il suo cuore in Laura Palmer, che fu la sfera ambrata, la ragazza avvolta nella plastica e che potrebbe tornare ad essere l’ultimo baluardo della loggia bianca, in attesa del risveglio di Coop. Quel che è certo è che la storia di Laura deve ancora finire. Il suo personaggio, di cui è rimasto uno spirito dagli occhi bianchi rinchiuso nella loggia nera, avrà ancora una rilevanza fondamentale, e questo ci porta a dedurre che il luogo degli eventi per la conclusione della storia, come indicato dal maggiore Briggs, potrebbe essere proprio la loggia nera.


Dale Cooper invece, nonostante alcuni siparietti divertenti, non sembra muoversi verso il cuore degli eventi. È chiaro che debbano essere gli eventi a raggiungerlo e proprio il ritrovamento della fede di Dougie Jones nello stomaco del cadavere del maggiore Briggs potrebbe spostare l’Fbi verso Las Vegas. ma per quale motivo Coop fatica a svegliarsi? Che possa essere solamente il ricongiungimento dell’anima con il corpo originale a farlo rinsavire? In ogni caso, visto l’andazzo, immagino la presenza del vero Cooper possa essere ridotta agli ultimissimi episodi, proprio verso il finale di questa epopea.



Dopo dieci puntate comincia a farsi sentire il peso dello stile narrativo lynchiano, che predilige uno sviluppo lento, arricchito da simboli e richiami che strizzano l’occhio e garantiscono soddisfazione solo a coloro che sanno coglierli. Noi fan della seconda ora, che all’epoca della prima messa in onda non eravamo ancora nati, non abbiamo vissuto l’esperienza diretta, frammentata della prime due stagioni, e non abbiamo potuto provare il senso di smarrimento che riempie lo spazio vuoto che intercorre tra le diverse storie. È il senso di sospensione che oggi ci attanaglia e ci fa sperare che arrivi presto un nuovo capitolo, soprattutto quando l’ultimo non ha cercato di darci le spiegazioni che andiamo cercando, ma ha fornito altre risposte, ad altre domande.

mercoledì 12 luglio 2017

TWIN PEAKS 3 - EPISODIO 9

Siamo così invischiati nel mood della terza stagione da riservare un peso esiguo alla distanza. Spesso dimentichiamo lo spazio temporale che ha diviso sia nella realtà che nella finzione le prime due stagioni da questa terza evento. E un lasso di tempo di queste dimensioni si presta perfettamente alla riscrittura totale di alcuni personaggi della serie; è il caso del maggiore Briggs, di cui probabilmente avevamo intuito solamente alcuni caratteri, ma che nascondeva invece, fin dal 1991, una narrazione nascosta di fondamentale importanza. Come lo spirito del vero Cooper, siamo stati risvegliati per questo revival e non riusciamo a rapportarci coerentemente con uno sviluppo narrativo di venticinque anni di buio. La soluzione alla futura resa dei conti potrebbe essere proprio nel presente mancato tra il passato remoto e il presente mozzato.


L’episodio rimette i piedi nel presente reale e riprende la sua narrazione a partire dalla (poca) tangibilità del capitolo precedente. Vediamo quindi Bob che, rientrato in possesso del corpo di Cooper, si incontra con dei suoi adepti (provenienti direttamente dal cast dell’ultimo capolavoro di Tarantino), confermandoci il suo diretto coinvolgimento negli attentati alla vita di Dougie Jones nel corso degli ultimi episodi.


Torniamo poi a Las Vegas, dove ormai la polizia locale comincia a collegare i tasselli di un puzzle incongruente: non ci sarebbe alcuna prova dell’esistenza di Dougie prima del 1997, anno in cui è stato probabilmente creato il terzo doppleganger. Perché proprio il ’97? Perché Bob, o chi collabora al suo piano sovversivo, avrebbe dovuto creare il fantoccio Dougie Jones proprio in quell’anno, quando erano passati già sette anni dalla vittoria dell’entità maligna su Dale e ne mancavano ancora diciotto per il ritorno dell’agente? Cosa è realmente avvenuto nel ’97?


Lynch sceglie poi di tornare a Twin Peaks per mostrarci un personaggio appena accennato durante la serie originale in una situazione assai spiacevole: si tratta di Johnny Horne, figlio di Benjamin e fratello maggiore di Audrey, affetto da disturbi psichiatrici, che, in un momento di involontaria libertà, si schianta violentemente contro una foto della cascata di Twin Peaks appesa al muro. A soccorrerlo è una voce che potrebbe ricordare quella della sorella, ma che dovremmo probabilmente collegare alla madre. Questo richiamo alle vicende secondarie della città di Twin Peaks mi ha riportato alla mente l’uomo malato di cancro che aspettava la moglie nel settimo episodio. Lynch ha da poco rassicurato i fan più scettici dicendo che tutto avrà un senso. Lungi da me pretendere di comprendere la totalità dei rimandi simbolici della serie, mi chiedo se queste scene toccata e fuga siano effettivamente utili a costruire una trama orizzontale o se si tratta solamente di espedienti narrativi adottati dall’autore per dare vigore all’atmosfera della serie.


Passiamo quindi allo sviluppo narrativo più interessante di questo episodio, ovvero la riscrittura del personaggio del maggiore Briggs di cui accennavo nell’introduzione. Ma andiamo con ordine: il caso della rosa blu. Briggs era in origine un maggiore dell’aeronautica militare statunitense, incaricato di monitorare, attraverso dati satellitari, potenziali eventi ufologici sul territorio statunitense, che si erano poi via via concentrati maggiormente nella zona di Twin Peaks. Briggs è sempre stato caratterizzato da un rapporto conflittuale con il figlio, e alla luce delle rivelazioni sulla predestinazione di questo episodio, tale particolare non va accantonato.
Nella seconda stagione egli scompare per due giorni durante un’esplorazione nei boschi fuori Twin Peaks, per poi tornare alla realtà con le coordinate della loggia nera. Dato il grado di onniscienza dimostrato dal personaggio negli anni successivi all’evento (prima della morte), dobbiamo supporre che Briggs sia stato richiamato dalla loggia bianca e sia entrato in contatto con il gigante della loggia (che - attenzione - potrebbe non essere il gigante che conoscevamo dalla prima stagione). il guardiano della loggia, legato alla predestinazione del cosmo di Laura Palmer, avrebbe reso Briggs partecipe del futuro della comunità e del piano ordito dalla loggia bianca per contrastare l’operato futuro di Bob e degli uomini truccati di nero. Questo spiegherebbe il comportamento successivo di Briggs, il suo ruolo nella narrazione e il suo rapporto con il figlio nel periodo che va dalla fine della seconda stagione alla morte dello stesso maggiore. Briggs è quindi stato il tramite del nuovo gigante nel mondo reale dopo un incontro metafisico. Un’altra pedina del progetto escatologica per la salvezza del mondo.


E la rosa blu? Questo nome in codice utilizzato dagli agenti dell’FBI compare per la prima volta nel film FWWM, in occasione della scomparsa dell’agente Desmond. “Rosa blu” si riferisce quindi agli eventi sovrannaturali che coinvolgono la misteriosa scomparsa di una o più persone verso un piano metafisico. “Rosa Blu” nasconde più di quanto gli agenti abbiano fatto trasparire finora, rivelando un legame ben più profondo tra la volontà del progetto del gigante e l’operato delle forze dell’ordine in relazione agli eventi di Twin Peaks.
Ma per quale motivo la testa del maggiore Briggs sarebbe dovuta sopravvivere alla morte nella loggia bianca? Non credo che il maggiore fosse intriso di una forza spirituale particolare in vita, ma certamente è stato guidato da una mano onnisciente nelle sue ultime azioni. Nelle stesse dinamiche della loggia nera, però, anche la loggia bianca potrebbe trattenere una parte degli individui che la attraversano per poi renderli parte stessa del luogo. E quindi si spiegherebbe la presenza della testa di Briggs nel mare viola della loggia bianca alla visita di Dale. Resta da chiarire la dinamica della morte, ma la trama legata all’omicidio di Ruth Davenport sembra navigare a vele spiegate verso un ricongiungimento con gli eventi sovrannaturali di Twin Peaks.


Se precedentemente la trama del preside Jennings ci era sembrata lontana dal cuore degli eventi, un nuovo sguardo alla vita privata dell’uomo ha rivelato più di quanto potessimo aspettarci. Un legame forte unisce gli eventi di Backhorn alle disavventure delle logge. La sostanza si rimpingua nel momento in cui veniamo a sapere che l’innocuo preside di provincia era interessato fin da ragazza al paranormale e, accompagnato dalla sua fiamma Ruth Davenport, sarebbe entrato in contatto con le entità sovrannaturale di una delle due logge. In particolare egli fa riferimento ad un “Maggiore” (“Major”) che riconosce nel personaggio di Garland Briggs. L’incontro tra Hastings e Briggs sarebbe stato possibile grazie ad alcune coordinate fornite alla stessa Ruth da un personaggio sconosciuto. Il maggiore, in uno stato di ibernazione o prigioniero del luogo in cui si trova, avrebbe chiesto alla coppia di recuperare delle coordinate da un database governativo. Poi quelli che sembrerebbero essere gli uomini truccati di nero avrebbero aggredito fisicamente Hastings e Davenport, facendo espliciti riferimenti alla moglie di Williams, che sappiamo essere stata mossa da un entità per diverso tempo. Briggs, in possesso delle coordinate richieste, avrebbe iniziato a fluttuare e a pronunciare diverse volte il nome “Cooper”. Infine la sua testa, alla quale è legato il mistero della morte del maggiore, sarebbe sparita.


Ricostruendo gli eventi, proprio in virtù della vicinanza della moglie, William sarebbe stato infuso di una forza mistica che gli avrebbe permesso di accedere ad una dimensione metafisica. Gli indizi della prigionia di Briggs e degli uomini violenti che hanno assalito la coppia di indagatori dell’incubo lascerebbero intendere che essi si trovassero nella loggia nera. Le coordinate richieste da Briggs potrebbero essere quelle della loggia bianca, e questo, datato due settimane prima del momento presente, potrebbe temporalmente giustificare la presenza del maggiore nella loggia bianca. Ma cosa è avvenuto realmente nel momento del risveglio di Hastings? In quali circostanze è stata uccisa Ruth Davenport? In che modo l’ibernazione di Briggs nella loggia nera avrebbe conservato il suo corpo umano? In che modo essi sarebbero riusciti ad entrare nella loggia nera e quanti ingressi esistono? Le domande si moltiplicano nel momento in cui vengono date delle risposte generali. Aspettiamo di comprendere meglio gli eventi che hanno portato alla morte del maggiore.


Intanto a Twin Peaks la predestinazione incarnata dal maggiore sta lentamente conducendo Bobby, Truman e Hawk all’ingresso della loggia nera. nel biglietto lasciato nella capsula di metallo possiamo vedere stilizzati i due monti che danno il nome alla città, il simbolo dei gufi, uno spicchio di luna e un pianeta non ben identificato. Pare logico pensare che nella data indicata avverrà una sovrapposizione cosmica simile a quella che aveva aperto la loggia agli uomini nel 1991.


I dettagli, anche quelli più insignificanti, stanno facendo la differenza, come è sempre stato per Twin Peaks. I dettagli, i simbolismi, le sfumature di azioni comuni, stanno riportando in vita il mito e lo stanno conducendo ad una resa dei conti finale che non tradisce alcun tassello. Questo Twin Peaks ha dei momenti nostalgici, ha delle melodie storiche, ma guarda decisamente al futuro, e all’arte, senza badasi di piacere e piacendo in modo smisurato.

Piccola nota a margine:

il blog curato da William Hastings, The search for the zone, è stato ricreato realmente, in concomitanza con la messa in onda del nono episodio. Potete trovare la pagina qui. La rapidità con cui è stata ricostruito questo omaggio, ha portato molti a credere che dietro l’operazione di marketing ci sia la stessa produzione di Showtime. Se così fosse, un particolare specifico balza all’occhio una volta sulla piattaforma: l’anno di creazione della pagina è retrodatato al 1997, e William non cita mai questa data durante le sue apparizioni sullo schermo. Il 1997 è anche la data della creazione di Dougie Jones. Non abbiamo abbastanza informazioni per creare un ponte tra questi due dati, ma questo piccolo, ridicolo dettaglio, su una fanpage realizzata per celebrare un’inezia, potrebbe essere un indizio fondamentale per la comprensione dell’intricato puzzle di legami che traina questo capolavoro.

lunedì 10 luglio 2017

LA PEGGIOR COVER DELL’ANNO

Le cover, quelle serie, quelle curate - non quelle amatoriali di Asia Ghergo -, non sono affatto da disprezzare. Talvolta possono essere in grado di riabilitare un brano, riportarlo in auge dopo decenni di anonimato o addirittura ridare ad un pezzo un senso che non aveva mai avuto. Bisogna però rispettare alcuni principi e soprattutto rispettare il valore storico e musicale che alcuni brani si portano dietro fin dalla loro composizione. Non è possibile riproporre un pezzo esattamente identico all’originale, perché, anche da un punto di vista discografico, una manovra di questo tipo non avrebbe senso, e allo stesso tempo bisogna prestare attenzione a non allontanarsi eccessivamente dal concept di partenza, qualora questo fosse il cardine del brano. Stravolgere l’arrangiamento è possibile finché la coscienza del pezzo lo permette ma quando sono le note stesse, oltre al testo, a rappresentare il senso del successo di un pezzo della storia della musica, allora sarebbe il caso di rivolgersi altrove se si è alla ricerca di cover facili. Non tutti gli album si prestano perfettamente all’opera di coverizzazione e non basta la volontà di ridare senso al tempo a giustificare una mossa commerciale del genere. 


Un autore affermato, dotato di una certa cifra stilistica, è chiamato a rispettare al contempo l’oggetto della cover e se stesso per lasciare la sua impronta al di sopra del brano da reinterpretare. In questo modo il campo si restringe ancora di più, sacrificando tutti gli album che non possono idealmente rientrare in uno stile compositivo senza causare delle difficoltà superiori. Michael Bublé ha nel suo repertorio una serie di cover che hanno raggiunto il successo mondiale proprio perché l’autore italo-canadese è stato in grado di coniugare la sua cifra stilistica pop-blues con il rispetto dei mostri sacri ai quali si è avvicinato.


Ma gli esempi si sprecano; uno fra tutti, Johnny Cash, che si rilanciò negli ultimi anni di carriera con la serie “American Recordings”. Questi album, di cui due postumi, contenevano alcune cover famose, tra cui spicca certamente “Hurt”, incisa originariamente dai Nine Inch Nails. “Hurt” è la summa di una carriera, di una vita e di uno stile, nel rispetto del capolavoro, che questa volta deve essere attribuito a Trent Reznor.


Valutare un’opera “in prestito” deve quindi esulare dalle categorie classiche di giudizio e focalizzarsi su aspetti ritenuti secondari, che guardano dietro la musica, al passato, alle esperienze e alle individualità.


Pochi giorni fa, navigando tra le novità di Deezer, mi sono imbattuto in un nuovo album di Passenger, artista folk statuniteste famoso per la sublime “Let her go”. Avendo apprezzato i precedenti lavori dell’artista, ho concesso una possibilità a “Sunday night session” nonostante si trattasse di una raccolta di brani non originali. E mi duole ammettere che Passenger, a mio parere, sia andato totalmente fuori tema: nel tentativo apprezzabile di condividere le musiche della sua maturazione nel suo stile particolare - caratterizzato dalla predominanza del binomio voce-chitarra - l’autore ha mancato di confrontarsi con la grandezza dei suoi avi artistici, schiantandosi clamorosamente a bordo di pezzi mediocri, banali e inutili. Ma vorrei soffermarmi in particolar modo su “Love will tear us part”, cover dello storico brano del 1980 dei Joy Division.


“Love will tear us apart” fu un manifesto assoluto di ciò che i Joy Division avevano rappresentato nella loro breve storia. Il brano fu scritto nel 1979 dallo stesso Ian Curtis, ma venne pubblicato come singolo solo nel giugno del 1980, stampato su un 7’’, ad un mese di distanza dalla morte dell’autore. Divenne quindi in brevissimo tempo il volto di una band senza volto. Il più grande successo commerciale dei Joy Division.

Cover del 7'' 

Nelle parole della canzone erano presenti diretti richiami alla catastrofica situazione sentimentale di Ian Curtis nel 1979, situazione che avrebbe contribuito poi a maturare in lui l’idea del suicidio, come raccontato minuziosamente nel film biografico “Control”. Ma è dall’interpretazione che emerge il senso delle parole di Curtis: rabbiosa e rassegnata, triste e malinconica, profonda, fredda e solitaria, come l’anima di Ian Curtis. In un brano racchiusa l’essenza di un uomo.



Passenger è stato in grado di ammorbidire il senso della canzone, di privarla della sua forza dirompente, di estirpare da essa la matrice Joy Division e lo spirito di Curtis, producendo un pezzo inconsistente, più vicino ad essere una canzone da mettere in sottofondo nelle afose serate in spiaggia piuttosto che il manifesto d’amore di una generazione sovversiva. E questa per me rimane, al di là della questione musicale, la peggior cover dell’anno. Ubi maior minor cessat.

mercoledì 5 luglio 2017

DIVENTARE GRANDI

Lo slittamento delle età ha provocato un ritardo temporale nello sviluppo dei nuovi cittadini. Lo scorso secolo, contraddistinto dalle due guerre mondiali, aveva avvicinato una gioventù ancora adolescente al mondo degli adulti, al lavoro e all’autososotentamento. Questo modello era rimasto in vigore anche in un periodo di ripresa economica in cui si era portati a vedere nei ragazzi una fonte di manovalanza a basso costo. Ciò si traduceva, nello specifico, nella possibilità dei giovani di emanciparsi dalla famiglia d’origine - seppure i rapporti familiari rimanevano certamente più stretti rispetto a quelli attuali - e all’emancipazione seguiva necessariamente un’assunzione di responsabilità per la propria persona, il proprio futuro. Una responsabilità sociale che richiedeva a gran voce un interessamento per le problematiche comuni, una forma, talvolta involontaria, di partecipazione al dibattito sociale.
Oggi questo modello ha lasciato il posto ad un allungamento spropositato dei tempi, viziato dalla difficoltà dell’ingresso nel mondo del lavoro. Viviamo una gioventù dilatata e tendiamo ad avvicinarci tardi al sostrato adulto della società. Gli uomini di domani sono quindi eterni bambini che non smettono di crogiolarsi nell’infinità della gioventù umana, e ciò potrebbe alla lunga rappresentare un problema, nel caso in cui il dibattito politico si limitasse ad una cerchia ristretta di persone, andando contro il principio proprio della democrazia. Saremo in grado di far valere le nostre ragione quando, già troppo adulti, tenteremo di ritagliarci il nostro posto nel mondo?
Diventare grandi significa anche allentare il cappio al collo del cordone ombelicale dei genitori per essere responsabili delle proprie azioni, dei successi e soprattutto delle sconfitte, dalle quali passa realmente lo sviluppo umano del soggetto. Diventare grandi significa evolvere un rapporto di dipendenza da altri in modo da poter rappresentare a propria volta l’appoggio di un’altra vita. In quest’ottica, la possibilità che tale forma di emancipazione sociale avvenga appare sempre più risicata. Avviandoci verso un futuro di insicurezza e solitudine.



Ma pochi giorni fa qualcosa è cambiato.
Io e mio fratello eravamo soli in casa. Io ventun anni, lui diciotto. Ad un certo punto, mentre preparavamo il pranzo, ci siamo accorti di una lucertola per le scale che portano alle camere che Shin Godzilla pare Prezzemolo.  E allora PANICO!
“Chiama Papà!”
“Ma quello sta a un’ora di macchina da qua, è andato a mangiare fuori”
“E quindi?”
E quindi dobbiamo toglierla noi
“Nono, fallo tu, io sto cucinando, lo vedi che sto cucinando?! Non posso proprio toglierla io”
E allora, sprezzante del pericolo, ho afferrato il coraggio a due mani, ho riflettuto un po’ sul da farsi e ho preso due bicchieri di plastica per rinchiudere la bestia e gettarla in giardino. Mi sono avvicinato cauto all’essere ignaro e ho cominciato ad intrappolarlo in modo che non potesse far altro che lanciarsi nel bicchiere, nella mia trappola mortale. Ma nulla. Perché in tutto questo ho dimenticato di dire che la lucertola era appena nata, sarà stata lunga 3/4 centimetri compresa di coda, e faceva anche fatica a camminare. Quindi rinchiuderla in un bicchiere di plastica, incastrandola nell’angolo formato dall’incontro di due scalini non era proprio la migliore delle idee. Eppure, piegando appena il bicchiere sono riuscito a raccoglierla. Poi, con invidiabile virilità, ho gridato a mio fratello - che intanto fingeva di essere impegnato ai fornelli - di aprire la porta di casa. Sono uscito con rapidità olimpica e ho scagliato con tutta la mia forza i due bicchieri chiusi a maracas verso il giardino, proprio mentre l’essere intrappolato sembrava aver riacquisito l’equilibrio necessario a rovesciare il mio piano. Quindi, con la stessa celerità di prima, sono tornato in casa, sbattendo la porta alle mie spalle.


Sono stato io. Io ho salvato la casa, io ho sbrogliato la matassa. Io sono diventato grande, a ventun anni. In questo momento, superata l’enfasi iniziale, sento davvero di aver compiuto un grande passo verso l’emancipazione dal mondo della dipendenza umana giovanile, verso la responsabilità che ci terrorizza e ci ammalia. Ora sento che è arrivato il momento di essere la roccia di una nuova vita. È arrivato il momento di avere un figlio.
Grazie mamma, grazie papà, da qui vado da solo.

In fin dei conti è semplice, l’essere rivela la sua essenza nel momento della fine. E realizzare la finitezza del tutto apre alla responsabilità di una vita piena. Basta avere la possibilità di crescere.
La finitezza è stata una lucertola.

Che non sapeva camminare.