domenica 29 novembre 2015

RECENSIONI DELLA SETTIMANA 23-29 NOVEMBRE


FILM: Paura e Delirio a Las Vegas (1998)
Da dove cominciare? Paura e Delirio a Las Vegas è un concentrato di elementi inqualificabili che fa dello stesso film un prodotto quasi impossibile da analizzare, ma ci proviamo lo stesso. Verso gli inizi degli anni ’70, un giornalista e il suo avvocato partono alla volta della città del peccato (che stavolta non è quella di Millar) per realizzare un servizio su una gara motociclistica. Fin qui tutto normale, se non fosse per un piccolo dettaglio da non trascurare: la droga. I due protagonisti (Depp e Del Toro) sono infatti dipendenti da tutte le droghe esistenti in quel momento in America, e tale loro lieve debolezza stravolge completamente l’intera esperienza del film. Ciò porta la trama a passare in ultimo piano per lasciare spazio al Delirio a cui i due personaggi molto sopra le righe vanno in contro; a parte poche scene, infatti, si potrebbe dire che, agli occhi di uno spettatore esterno, non accade nulla di rilevante sullo schermo.
Le scene più ispirate sono quindi indubbiamente quelle che vedono Depp in preda agli effetti degli stupefacenti: la sequenza con i dinosauri raggiunge vette di nonsense esilaranti, ma il vero culmine è la ricostruzione della sera precedente nel secondo albergo di Las Vegas. Pazzia totale. Da questa analisi emerge quanto le due interpretazioni  siano state fondamentali per la resa delle scene alterate. Due maestri che vent’anni fa promettevano decisamente molto bene.
Una componente purtroppo troppo ridimensionata ad un’analisi complessiva della pellicola è quella storica: la situazione statunitense in quegli anni, indubbiamente interessante e ricca di spunti utili allo sviluppo di una trama più consistente, viene rapidamente liquidata senza grandi giri di parole. Ma forse l’obiettivo del veterano Terry Gilliam era un altro.
A parte un paio di monologhi interessanti e profondamente veri, dunque, il film non presenta ulteriori contenuti degni di nota che conferiscano uno spessore all’opera. Ci troviamo “solo” di fronte alla delirante descrizione della mente di un individuo perennemente sotto l’effetto di stupefacenti  di ogni tipo, e se dovessimo valutare il prodotto unicamente sotto questo aspetto il voto sarebbe buono perché complessivo di una regia interessante, delle interpretazioni fantastiche, della novità, della comicità e del coraggio necessario per portare sul grande schermo questo agglomerato vuoto. Ma basta questo per fare un film? Forse si. VOTO: 8



FILM: Invictus (2009)
Clint Eastwood è una certezza, Morgan Lucius Freeman un pilastro del cinema mondiale, Matt Damon un grande attore troppo spesso sottovalutato. Nelson Mandela è invece il simbolo di una generazione. Di un mondo che forse non esiste nella realtà, più ma che alberga nei nostri cuori. L’utopia vivente che ha fatto la storia col silenzio e con il perdono.
Invictus è la storia romanzata dell’insediamento di Mandela in Sud Africa e dei mondiali di Rugby del 1995. Eastwood cerca di ridare voce ad una favola dura mai davvero raccontata attraverso un punto di vista interno che il mondo potrebbe non aver colto a suo tempo. L’incipit è di altissimo livello e lo spettatore riesce in pochi minuti a focalizzare l’attenzione sul momento storico e politico descritto dalle immagini. Lo sviluppo è convincente fin quando la storia riesce a svilupparsi su due binari in maniera bilanciata. Quando invece l’attenzione si sposta quasi unicamente su Damon e sulla sua squadra, la tensione venutasi a creare precedentemente sfuma gradualmente verso una scalata sportiva per niente elettrizzante ed appassionante. I match di rugby non prendono lo spettatore (o almeno non me) e scorrono via senza lasciare traccia, denotando una carenza in questo genere specifico per quanto riguarda il grande Clint. Sottotrama che prende il sopravvento in maniera totalmente antiadrenalinica.
Il vero fulcro dell’opera è colui che sarebbe dovuto essere il protagonista per l’intera durata del film: Nelson Freeman. Il vecchio Morgan è infatti una controfigura perfetta del politico sudafricano e, in ogni inquadratura in cui è presente polarizza l’attenzione riempiendo la scena in maniera unica. Una storia più nelsoncenrica avrebbe giovato alla narrazione e avrebbe nascosto le lacune di Eastwood in modo più convincente.
Un plauso particolare va fatto ad una scena meravigliosa che da sola vale tutto i prezzo del biglietto, ovvero quella in cui la squadra sudafricana è chiamata ad incontrare un gruppo di disagiati bambini neri. L’apice. Valutando il film nel complesso non posso però astenermi dal denotare una netta carenza nella seconda parte, dovuta in particolar modo al cambiamento discutibile del protagonista. Il voto è quindi la media tra la prima e la seconda parte, il tutto amalgamato dall’irraggiungibile qualità del regista premio Oscar. VOTO: 8


ALBUM: Saint Cecilia EP (2015)
I Foo Fighters ritornano (anche da seduti) e tentano un ritorno a sonorità passate con un EP nostalgico, compassato, ma anche convincente, formato da cinque brani. Il primo pezzo, che poi da il nome all’intero EP, sembra davvero tornare agli inizi dei 2000 con una chitarra ispirata e la voce di Dave (Davide, se siete di Cesena) ruvida e graffiante come un tempo. Un’ulteriore conferma delle immense potenzialità della band dell’ex batterista dei Nirvana. Le altre quattro canzoni invece sembrano essere un po’ meno innovative basandosi su sonorità più tradizionali; ma il livello riamane comunque alto.

Molti gruppi raggiungono l’apice della loro produttività molto presto, continuando poi a trascinarsi senza più molto da dire, da cantare. I Foo Fighters invece spostano sempre più un passo oltre il loro apice e continuano un percorso musicale talvolta sottovalutato, ma di indubbio valore. Una mosca quasi trasparente. VOTO: 7

sabato 28 novembre 2015

COSA ASPETTARSI QUANDO SI ASPETTA? - PILOT

Dopo aver riflettuto sull’importanza delle aspettative nella valutazione di un prodotto (film o album che sia), ho deciso di aprire una nuova rubrica, a cadenza casuale (cioè quando mi pare), per esprimere le mie aspettative verso un opera prima di approcciarmicivi, approcciarmivici, di guardarla o ascoltarla insomma. Tale rubrica sarà ospitata eccezionalmente solo oggi sul blog, mentre continuerà imperterrita eimperturbabile sulla pagina Facebook (che trovate qui - mettete mi piace, mi raccomando), in quanto il formato flash mi sembra più adatto al tono e alla lunghezza dell’articolo.


Oggi parliamo de “Il Viaggio di Arlo”, in originale “The Good Dinosaur”, film Pixar del 2015 per la regia di Peter Sohn, all’esordio dietro la macchina da presa. Il fatto che la Pixar, almeno qui in Italia, abbia deciso di far uscire due film nell’arco di pochi mesi, dopo una pausa di quasi due anni dall’ultimo ("Monster University"), potrebbe rivelarsi un’arma a doppio taglio, specialmente considerando la qualità assoluta di Inside Out, cartone animato dalle vesti infantili ma dal contenuto assai adulto e profondo. Dai trailer rilasciati in questi mesi ho potuto notare che The Good Dinosaur opta decisamente per una linea più bambinesca mirando direttamente a quel pubblico e quindi senza lasciar intendere direttamente la presenza di messaggi secondari velati e scrutabili sono con occhio critico, magari adulto. L’ambientazione appare molto più colorata, luminosa e giocosa; anche i protagonisti, Arlo e il bimbo dall’igiene personale discutibile di cui ancora non conosco il nome, ma credo si chiami Spot, ci vengono presentati in maniera semplice e immediata, sono caratterizzati con poche linee sinuose e assomigliano, specialmente il dinosauro, a quei giocattoli approssimativi che più o meno tutti abbia posseduto anni or sono. Personalmente ho rivisto nel dinosauro un aspetto giocattoloso che mi ha ricordato direttamente la trilogia (presto quadrilogia) di Toy Story, nella quale, ricordiamolo per gli sciagurati che non lo sapessero, sono presenti due dinosauri: Rex e Trixie. I movimenti sono indubbiamente più fluidi rispetto ai giocattoli di Andy, ma la linea infantile mi pare sostanzialmente la stessa.


Nel film, come suggerisce il titolo italiano dell’opera, si narra appunto di un viaggio compiuto dal piccolo Arlo per ritrovare qualcosa o qualcuno. Le mie aspettative sono quindi incentrate su un road movie, rivolto ad un pubblico pre-adolescenziale, caratterizzato dagli usuali stilemi del cinema di viaggio, ossia la crescita dei protagonisti. Mi immagino dunque un Arlo inizialmente spaventato dal mondo che lo circonda, timido e impacciato (anche fisicamente), che riesce a prendersi una rivincita sulla società esigente solo attraverso la maturazione conferitagli dal viaggio. In questo processo credo che venga collocata anche la figura del bambino selvaggio; una doppia crescita incrociata mi sembrerebbe però eccessiva alla luce del target, quindi suppongo il comprimario venga parzialmente accantonato nel momento in cui si tirano le somme dell’avventura.
Dal punto di vista grafico mi aspetto invece un capolavoro, uno dei migliori lavori Pixar. La luminosità, il realismo nella finzione delle immagini cartoonesche, la costruzione dei modelli poligonali, tutte caratteristiche che mi sembrano sopra la media, a giudicare dalle prime immagini.
Ciò che più mi aspetto è però il momento commovente: ogni Pixar ha il suo momento in cui la lacrimuccia è d’obbligo, e "The Good Dinosaur", vista la fragilità propria del protagonista, promette di non fare eccezione. Io comunque i fazzoletti me li porto.
Un film Pixar meno stratificato e complesso del solito, ma in ogni caso un prodotto sopra la media.


Queste le mie impressioni e aspettative dunque. E le vostre? Avete già visto il film? Lo andrete a vedere? Detestate i film Pixar? Avete avuto un’infanzia difficile? Ditelo con un commento qua sotto o sui social. Io invece perlerò in maniera più approfondita del film in questione solo dopo averlo visto (credo martedì) nella consueta rubrica delle Recensioni della Settimana. Vi ricordo inoltre di mettere mi piace a QUESTA PAGINA se l’articolo vi è piaciuto e se volete continuare a leggere “Cosa aspettarsi quando si aspetta?”. Piccolo spoiler: il prossimo sarà sull’ultimo album dei Coldplay.

lunedì 23 novembre 2015

QUANTO CI MANCAVANO I DIGIMON

Ho maturato l’idea che l’uomo sia un essere limitato per natura, e ciò lo porta inevitabilmente a catalogare sommariamente e metodicamente il mondo che lo circonda per poterlo in parte capire e per poter interagire con esso. Il problema nasce dall’evidente discrepanza tra le facoltà umane e la natura, evidentemente superiore. In questo modo il soggetto può sì interagire con il mondo circostante, ma lo farà sempre attraverso un filtro che gli impedisce di cogliere la vera essenza della vita che scorre attorno a lui. Per questo motivo, già da un po’ di tempo, ho deciso di limitare il più possibile l’uso di etichette limitanti e di ragionare senza giudicare a priori le situazioni in cui mi trovo, le persone con cui ho a che fare. Ammetto di trovare delle difficoltà, ma la certezza della validità di quest’idea mi spinge ogni giorno a perseverare in quest’epochè radicale degli usi e dei costumi umani. Tutto questo per dire che, nonostante i miei sforzi atti ad eliminare ogni sorta di categorizzazione nella mia mente, esiste in me una divisione che ancora non riesco ad eliminare. Rimane radicata nonostante tutti i miei sforzi. Ancora divido il mondo tra coloro che hanno visto i Digimon (rigorosamente la prima serie) e coloro che non lo hanno fatto. Ci sarebbe anche un’ulteriore sottocategoria della seconda, ovvero coloro che alla parola Digimon rispondono con “Che?!? I Pokemon intendi?”; ma di questi non parleremo. Questi dovrebbero solo finire a fare compagnia a Lucifero, non chiedo molto.


Se quella antecedente era stata indubbiamente la generazione Dragon Ball, la mia è la generazione Digimon. Avevamo appena cinque anni quando fu mandato in onda sulle reti Rai per la prima volta (quando ancora la Rai tentava di accaparrarsi qualche esclusiva interessante), ma credo fu l’estate successiva a rappresentare il vero apice della popolarità dei coloratissimo mostri digitali, quando la serie venne riproposta alle 8:30 su Rai 2 in piena estate, cioè quando i bimbini sono liberi da impegni scolastici e passano giornate intere davanti ad un televisore. La mia famiglia in realtà, come ogni anno, quell'estate aveva affittato un ombrellone al lido Miramare, ed io ero sempre l'elemento ritardante per la truppa dovendo finire di vedere la puntata. Un attaccamento morboso simile a quello che le casalinghe disperate provavano per Beautiful più o meno negli stessi anni.
E quindi, perché questo momento nostalgia? Perché ripescare dal fondo del cilindro la prima stagione di una serie ormai decaduta? Perché i creatori hanno deciso di accantonare i mecha e le fusioni umani-mostri per ridare al pubblico attempato una nuova gioia, una nuova stagione incentrata sulle avventure dei primi digiprescelti, ma ambientata circa otto anni dopo la drammatica conclusione di Digimon Adventure. Un paio di giorni fa è andato finalmente in onda il primo film della nuova serie, Digimon Adventure Tri. "Film" perché poi hanno optato per creare una serie composta da sei film da proiettare nelle sale nipponiche nell’arco di un paio d’anni. Scelta opinabile, ma tant’è; ne riparleremo.


Una volta appresa la notizia, dopo aver rotto il soffitto con la testa, mi sono rituffato nella visione della prima storica stagione per rinfrescarmi la memoria e sinceramente per verificare con mano le impressioni che tale cartone animato (perché all’epoca erano ancora cartoni animati) mi aveva lasciato. Prima di cominciare la visione, avevo paura di sbagliarmi, avevo paura che le mie vecchie sensazioni venissero cancellate dal tempo e rimpiazzate con adulta indifferenza, e invece no.
Confermo: la prima serie dei Digimon è e resterà un classico per la mia generazione, e non mi capacito di come i creatori e i responsabili del brand abbiano affossato una serie con potenzialità così palesi attraverso scelte di marketing evidentemente molto sbagliate. Una tale miniera d’oro e di sogni crollata perché si scavava tra le fondamenta erodendole anziché cercare l’oro. I punti a favore dei Digimon sono moltissimi e tutti validi, ma vorrei soffermarmi su tre in particolare: le tematiche mature, la trama coinvolgente e i mostri digitali stessi. A differenza di molte altre serie animate destinate ad un pubblico molto giovane, infatti, i Digimon proponevano delle tematiche profonde e complesse come la nostalgia dei luoghi natii, l’amore, l’amicizia, la morte e la resurrezione, l’abbandono, la solitudine e la paura, la crescita. Temi pesanti se pensati in relazione ai destinatari del prodotto, ma nonostante ciò i bambini erano accompagnati per mano dalle immagini nella scoperta di questi concetti. Tutto veniva presentato al momento giusto e nella maniera corretta, senza appesantire eccessivamente il cartone, magari andando a discapito dell’intrattenimento e del divertimento. Queste tematiche interessanti avevano però bisogno di una struttura solida per poter arrivare in maniera chiara e funzionale ai bambini. Ecco dunque la trama che ancora oggi ricordiamo a memoria. I bambini prescelti e i loro Digimon riescono ad entrare immediatamente in sintonia con il pubblico e ciò porta ad un’immedesimazione che cresce sempre più con  il prosieguo della storia. I protagonisti vengono strappati dalle loro abitazione e trasportati contro la loro volontà sulla celeberrima Isola di File. Qui dovranno fare i conti con i mostri influenzati dai Black Gear e con loro stessi, con i loro sentimenti. E poi Etemon, il deserto, le digievoluzioni, i digimedaglioni, il mistero sulla loro predestinazione, i contatti con il mondo reale, la sovrapposizione dei due mondi e i Digimon dimenticati. Il giovane telespettatore diviene un vero e proprio digiprescelto grazie all’immedesimazione, tanto che io stesso pensai mi sarebbero venuti a prendere quando, verso la metà della serie, i protagonisti tornano nel mondo reale per fermare Myotismon e trovare l’ultimo componente del loro gruppo. Altro che lettera di Hogwartz, io sto ancora aspettando Tai e Izzy in camera mia. Venite presto.


E poi ci sono loro: i Digimon. Agumon, Gabumon, Patamon, Gatomon, Tentomon, Gomamon, Biyomon, Palmon e tutte le loro digievoluzioni. Meravigliosi, coloratissimi e perfettamente accoppiati ai bambini prescelti. Protagonisti tanto quanto la loro controparte umana. Erano loro a rendere l’intera serie accattivante, divertente e movimentata. Ripetitiva nella struttura narrativa (soprattutto nella prima metà dell’opera) senza mai perdere di vista lo sviluppo della trama e dei personaggi. Semplicemente il connubio perfetto tra serializzazione e merchandising legato ai giocattoli dei vari mostri. Anche se devo confessare che come Angemon non ce n’è, mi spiace per tutti i sostenitori di Metalgraymon  e Omnimon.
Ma la vera ciliegina della prima serie dei Digimon è forse il finale: fantastico, insuperabile. Nel 2001 piansi a dirotto quando l’autobus prese il volo per lasciare definitivamente Digiworld separando dunque bambini e mostri, ma devo dire che la mia reazione qualche giorno fa non è stata da meno. Pensare che un’avventura così immensa e formativa debba finire è un gran dispiacere. Mi dev’essere finito qualcosa nell’occhio. Sigh.

Questi e molti altri i motivi della genesi del mito. E ora ci risiamo. Ora ritorniamo sull’isola di File a combattere e a crescere ancora. Aspettatevi quindi altri due o tre articoli in cui parlerò della nuova serie, del confronto con i Pokemon e di tante altre avventure legate al mondo digitale che, stavolta per davvero (non come per Dragon Ball Super), ci mancava non poco.

Mamma, dove hai messo il digivice?

domenica 22 novembre 2015

RECENSIONI DELLA SETTIMANA 16 - 22 NOVEMBRE


FILM: Colpa delle Stelle (2014)
E alla fine l’ho visto anch’io. Parlare di un film così emotivamente carico e potente potrebbe essere rischioso. Una receimpressione che si rispetti deve anche analizzare gli aspetti tecnici del prodotto che tratta, ma in questo caso il valore sentimentale è oltremodo superiore e ingombrante, per cui cancellate la parola “recensione” dalla vostra mente e lasciate “impressione”. Questa la mia impressione sul film che ha commosso il mondo nel 2014, ovviamente senza voto.
Sinceramente partivo abbastanza prevenuto nei confronti di questa pellicola considerandola principalmente un prodotto per giovani ragazzine che ascoltano musica dozzinale, oggi leggono storie strappa lacrime (o strappa storia lacrime, l’ordine lo decidete voi) e domani leggeranno romanzi Harmony; ma avevo torto. Avevo torto in partenza perché il film non è rivolto solamente al pubblico descritto da me sommariamente qui sopra: il destinatario di Colpa delle Stelle è chiunque che abbia un minimo di cuore a questo mondo. La trama (che immagino ormai conosciate tutti a menadito) parla della storia d’amore quasi impossibile tra una ragazza malata di cancro e un giovane senza gamba, persa anni prima per lo stesso male. Il film si divide in due due grandi parti: nella prima abbiamo la protagonista, Hazel Grace, che tenta invano di allontanare il ragazzo per evitare di ferirlo, nella seconda invece veniamo a sapere dell’aggravarsi della malattia sopita del ragazzo, Augustus, e, prima che il pubblico se ne renda conto, la situazione degenera verso il dramma reale e tangibile, atmosfera perfettamente ricreate grazie alle interpretazioni struggenti dei due protagonisti. Quel discorso sulla panchina ad Amsterdam colpisce lo spettatore al cuore, ma una speranza ancora persiste in fondo all’anima. La scena che davvero taglia le gambe ad ogni pensiero positivo è senza dubbio quella in cui Augustus chiama Hazel Grace nel cuore della notte perché lontano da casa, fisicamente provato ed immobilizzato dal terrore di morire. Una scena forte e terribilmente realistica che uccide definitivamente il perfetto amante a cui ci si era affezionati in precedenza.
Crisi, perdita di forze, risultati negativi, interruzione della terapia. Tutto orribile, tutto vero.
Il finale chiuso ma aperto, incentrato su quella mail che non avremmo mai voluto leggere, poi, strappa fiumi di lacrime e fa riflettere sull’importanza della vita, sul poco tempo che ci è concesso rispetto all’infinito, sui piani, sui sogni infranti e sul ricordo. È importante essere ricordati da tutti? Quanto durerà il nostro ricordo? Quanto contano le ultime parole? Di Bob Marley ne è esistito solo uno e Ziggy lo sa. Nella realtà le persone si ammalano, soffrono, perdono un po’ di dignità e se ne vanno in silenzio. Senza preavviso. Senza discorso finale. Di fronte alla morte non ci sono eroi. Ciò valorizza la vita.
Un film che sa toccare le corde giuste, non per tutti, ma consigliato a tutti.



FILM: School of Rock (2001)
Un classico moderno che sta invecchiando meglio ogni anno che passa. Il one man show Jack Black (di cui avevamo già parlato in relazione a The Brink) si carica sulle spalle l’intera pellicola riuscendo a non far mai stancare lo spettatore. Tutti i personaggi, in particolar modo i bambini prodigio, sono caratterizzati in maniera perfetta e ciò li rende immediatamente riconoscibili ed adorabili. Zack il chitarrista, Freddy Jones, Lawrence e la sua pistola, Summer presidente degli Stati Uniti, le coriste, lo stilista, i bodyguard e il tecnico delle luci. Tutti fantastici e indimenticabili.
La trama forse non mostra grandi aspetti innovativi, ma l’argomento della musica è trattato in maniera encomiabile e unica, mostrando realmente quanto tale magnifica arte possa valere per la vita di un uomo che la società considera uno sconfitto e per dei bambini innocenti incatenati dall’istruzione e dalle regole benpensanti. Il finale, inteso come liberazione da tutti i pregiudizi, le catene e la maldicenze, si mostra a noi in tutta la sua potenza emotiva. Un tripudio di musica, rivincita e ottimo cinema.
In realtà questa receimpressione avrei potuto postarla già qualche tempo fa: in casa mia School of Rock è d’obbligo una volta ogni 2/3 mesi e ormai io e mio fratello non sappiamo più in che lingua guardarlo per poter rendere la cosa più interessante. Ormai sappiamo tutte le battute e cantiamo a squarciagola le fantastiche canzone che scandiscono il perfetto ritmo del film; specialmente quelle originali. Forse non un capolavoro, ma indubbiamente uno dei film che sento più miei. VOTO: 9



FILM: Mal è il Nostro Produttore Segreto (2015)
Quando mi sono imbattuto in questo documentario sugli esordi degli Elii pensavo si trattasse di un lavoro semiserio: eventi veritieri narrati con la scanzonata comicità nonsense che da sempre contraddistingue il gruppo di Stefano e i suoi amici. La storia ci viene presentata da un inedito Mal che, decisamente a sorpresa, si presenta a noi come produttore segreto degli Elio e le Storie Tese, ossia mente geniale che ha guidato nell’ombra la band al successo tra gli anni ’80 e i ’90. Al momento c’ho creduto. Ho davvero pensato che il frontman dei Primitives potesse aver avuto un ruolo così importante nella nascita e nella crescita di una delle band più talentuose e al contempo sottovalutate d’Italia. Quando invece sono venuto a sapere della montatura alla base di tutta la storia mi sono sentito poco intelligente, molto poco intelligente. Oltretutto questa storia di Mal l’ho anche raccontata in giro finché l’ho ritenuta plausibile. Povero me, che figuracce che mi fai fare, Stefano.
Per il resto la solita spensieratezza e la solita bravura. Semplicemente EELST. Anche se la modella pochissimo vestita che talvolta si alternava al grande Mal proprio non l’ho capita. Forse ho perso un passaggio. Anche se il fatto che questa signorina fosse presentata come direttrice dell’ufficio stampa, o simili, del gruppo poteva in minima parte farmi sospettare di qualcosa. Che ragazzo sbadato. VOTO: 7



ALBUM: Bad Blood (2013)

Album di maggior successo dei Bastille, ovvero la colonna sonora degli ultimi tre Fifa. Più della metà delle canzoni contenute in quest’album, infatti, sono ormai di dominio pubblico tra singoli, pubblicità e appunto videogiochi simulativi di calcio. Il tono scelto dalla band londinese è decisamente leggero e i brani scorrono in maniera semplice, mai tediosa. Indubbiamente non ci troviamo di fronte ad un capolavoro della musica contemporanea, ma se adattate ad un contesto corretto, le musiche dei Bastille possono essere assai piacevoli. Nei brani di Bad Blood infatti si respira chiaramente l’odore del mare, delle vacanze, delle amicizie giovanili, delle sere tarde e delle notti infinite, degli amici. Racchiudere tutte questi profumi in un solo album non è cosa da tutti, pur riconoscendo poca inventiva e originalità. Pompeii, Flaws, Laura Palmer, Oblivion, tutte colonne sonore di un’estate. La citazione a Twin Peaks, poi, è qualcosa di spettacolare. VOTO: 7.5 

sabato 21 novembre 2015

COMMENTO THE KNICK 2 - EPISODI 4 E 5

La piccola grande creature di Soderbergh è in lenta ma costante crescita. Il che fa sperare in un climax ascendente che porti la seconda stagione quantomeno a livello della prima. Rispetto al secondo e al terzo, il quarto e il quindi episodio delineano finalmente una trama di fondo che riesca a colpire e ad appassionare lo spettatore. I momenti migliori di questa doppia puntata li abbiamo infatti quando l’attenzione della macchina da presa (impugnata dispoticamente dallo stesso regista) si sofferma sul protagonista della serie e sui personaggi che sono legati a lui in maniera più diretta. Più una sottotrama è vicina e coinvolge Thack, più questa risulta appetibile ed interessante. Il problema sorge quando la narrazione indugia su storie lente e scontate come le disavventure della suora infanticida o la vita di coppia dell’immorale Barrow.


Va però riconosciuto che, a volte, gli sceneggiatori sono anche riusciti ad introdurre sottotrame interessanti come la nuova vecchia moglie di Edwards o le uscite serali dell’infermiera Lucy. Spero che il medico nero più amato dell’East coast riesca a liberarsi della fastidiosa (ma giustificata) donna sposata in un attimo di distrazione. Chi di voi non sposerebbe una ragazza in un momento di euforia? Sono invece abbastanza felice per l’infermiera-ginecologa che finalmente sembra essersi allontanata dalla figura negativa ed ingombrante del primario, ma avrei preferito che, al posto del belloccio rampollo, ci fosse il simpatico e non più innocente Bertie. Bertram che intanto sta silenziosamente rubando la scena a tutti gli altri protagonisti attraverso la trama meglio calibrata, scritta e strutturata. Fondere insieme elementi di novità derivati dal suo trasferimento, l’amore per un’adorabile ed esilarante reporter ebrea, il dramma della madre e la ricerca storicamente credibile sulla radioterapia e sull’adrenalina contemporaneamente non era, sulla carta, semplice da realizzare, e invece la storia del giovane medico scorre piacevolmente e tutto sembra poter diventare con il tempo la colonna portante dell’intera serie. Una sorta di passaggio di testimone tra Thackery e Bertie che non mi auguro, ma che a questo punto potrebbe verificarsi, viste le premesse.


In ogni caso considero il quinto episodio il migliore della seconda stagione finora in quanto è riuscito abilmente a mescolare la vita ospedaliera con le storie personali dei vari protagonisti; ci ha mostrato nuovamente un Thack catturato in toto dalle sue ricerche (che mi parrebbe non siano andate a buon fine) e ha ristabilito un ordine gerarchico parzialmente accantonato nel terzo episodio. Altro enorme punto a favore di questa doppia puntata è stata la comicità ritrovata. Dopo qualche passaggio a vuoto siamo infatti tornati a ridere come non facevamo da tempo all’interno dell’ospedale in cui non vorremmo mai capitare. Black comedy pungente che si avvicina in parte a quella insuperabile di Fargo (la serie, quella che dovrei commentare di tanto in tanto - quando trovo tempo).
Thack invece, oltre a rendere i propri pazienti delle comparse di quel quentiniano film sui nazisti, pare aver riallacciato i rapporti con la ragazza dal naso alquanto stano, anche se la nuova modalità d’assunzione delle droghe gli permette di non essere scoperto da Lucy durante i consueti controlli. Credo che prima della fine avremo un lieve senso di deja-vu e probabilmente sarà l’amore per la sua vecchia conoscenza a trattenerlo dall’andare oltre il tremendo finale della prima stagione. Ma chissà, magari mi sbaglio. Magari questa potrebbe essere l’ultima stagione di Clive Owen.



Ciò che pare chiaro ed evidente, per dirla in termini cartesiani, è che le potenzialità di questo prodotto siano pressoché illimitate, ma, nonostante ciò, rimangono ancora molti dubbi sulla costruzione degli episodi, sulla scrittura e sul bilanciamento dei tempi. Sul finale del quinto episodio (tanto spettacolare nelle scene successive allo scoppio della miniera, quanto ammorbante nella parte conclusiva) ho pensato anche che forse parte della colpa potrebbe essere attribuita alla lunghezza delle puntate che si estende fino a un’ora quando probabilmente, limando alcuni elementi per farla rientrare nei canonici quarantacinque minuti, si otterrebbe un ritmo più costante senza sbalzi sì necessari ma eccessivi. Slegato dalla questione temporale è invece il problema della lentezza nello sviluppo delle situazioni. A mio parere infatti l’evoluzione di alcune sottotrame, probabilmente condizionata dall’eccessivo numero di personaggi e rapporti tra questi, sembra davvero rallentata al limite del sopportabile. Uno snellimento generale gioverebbe all’intera serie, credo. Ma quando arriva il venerdì non esiste altro che il Knick, con tutti i pregi e i suoi difetti.

giovedì 19 novembre 2015

FIVE BY FIVE #4 (SPECIALE HOW I MET YOUR MOTHER)

Alcune parole tirano fuori la parte più dislessica di me. Ad esempio, tendo a pronunciare deckstop invece di desktop. Non scherzo, devo davvero concentrarmi per pronunciarlo correttamente. Ebbene, qualche giorno fa mi è sorto un dubbio e, conoscendo i miei polli (o, in questo caso, il mio pollo, ovvero me stesso) sono andato a controllare. Come temevo, nella scorsa puntata ho invertito le “g” con le “b” e ne è uscito fuori un improbabile CGBG. Me la sarei potuta cavare con un “Volevo vedere se eravate attenti...” ma sarebbe stata un’infamia, quindi ecco questa errata corrige.


Quelli di voi che attenti lo erano si saranno accorti da alcuni riferimenti fatti più o meno consciamente nelle ultime puntate, che da qualche tempo sono in fissa con HIMYM, che sto recuperando avendola vista in precedenza a sprazzi e non completamente. L’impresa è stata ardua (si fa per dire), ma sono quasi al termine.
Una delle qualità di questa serie che ho apprezzato di più è la scelta della musica: le canzoni, oltre ad essere azzeccatissime per ogni situazione, diventano vere e proprie coprotagoniste della storia, leitmotiv e running jokes come Let’s Go To The Mall, pseudo-hit dell’adolescente Robin Sparkles, ma soprattutto come I’m Gonna Be (500 Miles), vecchio singolo dei The Proclaimers che è semplicemente impossibile non canticchiare, in macchina e possibilmente stonati, ovviamente. Senza dubbio la canzone da viaggio definitiva.  
Al di là di queste perle però, in quasi ogni puntata si ascolta ottima musica che presumibilmente rispecchia i gusti del protagonista. Tra le tante passioni di Ted c’è infatti la musica Indie, e ogni stagione è disseminata di pezzi, alcuni molto noti, altri più di nicchia, ma tutti molto interessanti e molto buoni di gruppi che hanno reso celebre il genere a cavallo tra secondo e terzo millennio. Oggi vi parlo di alcuni tra i  miei preferiti, quelli insomma che fra una risata e l’altra mi hanno fatto esclamare: “Ehi, ma questi sono i…




Belle and Sebastian – We Rule The School (01x04)
Natalie e il suo Krav Maga (che esiste davvero) sembrano avere davvero poco a che fare con la dolcezza e la poesia della musica del gruppo scozzese, eppure la ex di Ted ne è una grande fan, a giudicare dalla mole dei loro dischi che ci viene mostrata vicino al suo stereo in una delle prime puntate della serie. In effetti all’epoca degli eventi narrati i Belle and Sebastian erano probabilmente all’apice del loro successo, ottenuto grazie a due eccellenti album come “Tigermilk” e “If You’re Feeling Sinister”. Dal primo di questi arriva We Rule The School, a cui Natalie è particolarmente legata.




Vampire Weekend - Oxford Comma (05x01)
La quinta stagione comincia con il primo giorno di Ted in veste di professore alla nientepopodimenoche Columbia University. E quando si parla di Combia University il pensiero non può che andare ad Ezra Koenig e ai Vampire Weekend. È proprio sulle spensierate note dei quattro allora poco più  che studentelli nel suddetto college e sui versi “Who gives a fuck about an Oxford Comma?” che il nostro protagonista muove i primi passi nell’aula 101…o 305?   




Band of Horses – The Funeral (08x01) 
Attenzione aspiranti montaggisti(?) sonori!!! Ecco cosa vuol dire sfruttare al massimo una canzone! Nel finale dell’inizio dell’ottava stagione sono tante le cose che succedono; mentre Klaus, in fuga da un matrimonio che non sarebbe comunque avvenuto, espone a Ted le sue tesi sull’amore, ci vengono mostrati in sequenza tutti i protagonisti, ognuno legato all’altro da un legame indissolubile e da un gentile arpeggio. Si sovrappone poi la voce del cantante e dopo una pausa appena accennata, quasi a voler raccogliere tutte le emozioni provate in quei toccanti minuti, il pezzo esplode come e con un tuono, in tutta la sua energia.
Uno dei miei momenti musicali (e non solo) preferiti di tutta la serie, non ci sono altre parole per descriverlo. Anzi sì: lebenslangerschicksalsschatz!




The Unicorns – I Was Born (A Unicorn)
Ad onor del vero bisogna dire che in tutta la serie non c’è nessun pezzo dei The Unicorns, band connazionale di Robin che pubblicò un paio di album all’inizio degli anni 2000 per poi sciogliersi. “Allora perché parlarne?”, direte voi. Be’ perché I Was Born (A Unicorn) fa parte di “Who Will Cut Our Hair When We’re Gone”, il disco che Ted nota nella cameretta di Cindy, in realtà prestatole dalla coinquilina, ovvero…
Mentre voi cercate di ricordare, vi racconto qualcosa di questo album (non fatemi riscrivere il titolo per favore) semisconosciuto ma davvero ottimo. A dispetto delle melodie decisamente briose, WWCOHWWG tratta temi molto poco vivaci, la morte su tutti. Ciò che rende grande l’album è il tono scanzonato e spensierato con cui affronta questi argomenti. Tutto sommato si può dire che sia un album immaturo, ma riesce a esserlo in maniera positiva o, meglio, riesce ad avere quella saggezza che solo chi non si prende troppo sul serio è in grado di avere. E soprattutto la musica è stupenda. 




The Shins – Simple Song (08x24)
Be’ non potevo certo dimenticare questo momento, questa scena e questa canzone. Non ve lo sto nemmeno a dire, anche se non conoscete gli Shins (nel qual caso rimediate subito, hop hop!) vi ricorderete di Simple Song  quando la ascolterete, garantito.

Non è mica finita qui, ci sono ancora i Wilco, Grizzly Bear, Florence & The Machine, Radiohead, The Decemberists, eccetera eccetera…insomma, nel grande, piccolo mondo che è HIMYM la buona musica non manca affatto.

Marsha Bronson
  




lunedì 16 novembre 2015

RECENSIONI DELLA SETTIMANA 9-15 NOVEMBRE


FILM: Inside Llewin Davis (2014)
Utilizzo il titolo originale perché la traduzione “A proposito di Davis”, che cerca di strizzare l’occhio alle commedie goliardiche anni ’90, mi è sembrata fuori luogo ed evitabile. Inside Llewin Davis è invece l’album solista che il protagonista tenta invano di proporre ad agenti ed impresari durante l’intera durata del film.
L’ultimo capolavoro dei Coen (in attesa del prossimo “Ave,Cesare!”) è, a mio parere, un film perfetto, privo di sbavature. Uno dei migliori prodotti del 2014, nonostante non abbia ottenuto grandi riconoscimente a livello di critica.
La trama è pressoché assente: la macchina da presa si limita a seguire in maniera compassionevole, ma mai pietosa, una settimana della vita di Llewin Davis. Né un inizio, né una fine. Solo vita. Perché la vita non ha trama, la vita scorre e l’uomo si trova spesso ad essere trascinato dagli eventi senza riuscire a lasciare la sua impronta su questa Terra. Llewin è uno sfortunato musicista folk che, all’inizio degli anni ’60, dopo la morte del partner, cerca di sbancare il lunario e rimanere vivo a dispetto di un mondo a cui lui è inadatto per natura, probabilmente. Gli eventi lo investono e lui riesce sempre e comunque a prendere la decisione sbagliata, non tanto perché sia sbagliata in senso assoluto, ma forse più perché è proprio lui a prenderla. Non possedendo un alloggio, è inoltre costretto a scroccare un posto sul divano di amici, conoscenti, sconosciuti. Tanti gli voltano le spalle e pochi rimangono vicini a lui. Inoltre un figlio in arrivo rischia di uccidere definitivamente il sogno di vivere di musica.
La svolta potrebbe arrivare da un viaggio che Llewin compie verso Chicago alla ricerca di fortune migliori. L’ultima spiaggia. A voi il piacere di scoprirne l’esito.
In tutto questo contesto malinconico e in parte struggente, i Coen riescono a far ridere e sorridere lo spettatore con la loro solita comicità nera e graffiante che prende di mira tutti senza fare nomi. Riusciamo ad affezionarci al protagonista perché tra i due opposti, la vita disgraziata e sfortunata e la comicità sopra le righe, arriva al pubblico in maniera molto naturale, realistica.
Il comparto tecnico come al solito si conferma sopra la media riuscendo a rendere perfettamente le atmosfere gelide della New York degli anni ’60 e a trasmettere le emozioni che il protagonista prova anche attraverso le immagini. La colonna sonora inoltre confeziona il capolavoro innalzando a dismisura il livello del prodotto.
Il messaggio dei fratelli Lumiere è quello di non giudicare mai il clochard che troviamo per strada, l’artista di strada, colui che soffre, che tenta, ma che non riesce a trovare mai la chiave per aprire la porta giusta. Chi sbaglia, chi pecca e chi perde oggi e anche domani, perché molto spesso l’insuccesso, la fatica, la povertà e l’infelicità sono condizioni dettate dalla fortuna, più che dalle doti o dalle scelte. A volte compatire senza provare pietà è la scelta migliore. Semplice poesia. VOTO: 10


FILM: Zoolander (2001)
Spiegare la trama di questo classico moderno sarebbe inutile. Chi di voi non ha visto neanche una volta nella vita le espressioni facciali che hanno reso famoso sia il personaggio di Zoolander che il suo interprete Ben Stiller? Immagino pochi.
Ci troviamo di fronte ad una commedia semplice ma non stupida che cade volontariamente spesso nella demenzialità e nel nonsense, ma lo fa con misura riuscendo ad essere allo stesso tempo dissacrante e intelligente. Il finale probabilmente tende leggermene verso la componente meno acuta della comicità del film, ma in generale Stiller si dimostra coerente nella scrittura di un opera parodistica che rimane sulla stessa linea dall’inizio alla fine (aspetto non da sottovalutare per film di questo genere).
Non ci troviamo di fronte ad un capolavoro o ad un film che ha rivoluzionato i canoni, ma la discreta qualità ha contribuito alla genesi del cult sdoganando ormai ogni espressione ormai di dominio pubblico. Alcune scelte, alcune scene rivedibili e un comparto tecnico (in particolar modo la regia) non eccelso però ridimensionano l’opera. VOTO: 7


ALBUM: Maximilian (2015)

Max Gazzé torna ad imitare David Bowie e, dopo le lenti a contatto di colori diversi, decide di crearsi un alter ego e di tornare a fare musica senza gli altri componenti del trio FSG proponendo, almeno sulla carta, un sostanziale cambiamento nelle sonorità e nei testi. “Almeno sulla carta” perché io tutta questa ventata d’aria fresca non l’ho percepita e per me Maximilian non differisce poi molto dal vecchio Max. il singolo che ha anticipato l’album è molto orecchiabile, ben studiato, divertente e non banale a livello di testo, ma, a parte “La vita com’è”, l’album riserva poche sorprese andando a ricalcare i soliti stilemi gazzeani. Le novità a livello di sonorità si percepisco quasi unicamente all’inizio, quando in realtà l’album parte in maniera convincente mostrando subitamente le potenzialità del cantautore romano. Tutto però poi va lentamente a morire nella consuetudine e nella banalità di testi che, se privati di qualche metafora interessante, potrebbero essere stati scritti da un bambino. Amore, amore, sempre amore. “Teresa” il prossimo singolo, secondo me. VOTO: 5

giovedì 12 novembre 2015

NBT: SPECTRE

Spectre” (2015) è il ventiquattresimo film della serie di James Bond (senza contare i due film apocrifi: “Casino Royale”e “Mai dire mai”) ma non fatemi iniziare a parlare dei film precedenti altrimenti parto con uno sproloquio infinito e non mi fermo più. Meglio cominciare subito da “Spectre” senza indugi. Vi devo avvertire però: essendo un gran fan boy non potrò parlarvi di questo film con l’oggettività che si converrebbe, ma tant’è. Il film a mio parere è uno dei peggiori dell’era Craig assieme a “Quantum of Solace”. Dopo l’ottimo “Skyfall” uscito due anni fa speravo che il regista sarebbe riuscito a replicare con “Spectre” ma non è stato così. Il ventiquattresimo non è tra i migliori, poco ma sicuro. I difetti sono molti e, temo, difficilmente perdonabili.



Questa volta Bond si trova a fare i conti con la misteriosa organizzazione Spectre capeggiata dallo spietato Hannes Oberhauser. L’impostazione generale è quella del classico film di 007: inseguimenti in giro per il mondo (Messico,Londra, Roma, Austria, Marocco), sparatorie, esplosioni, Vodka Martini, british humor, completi impeccabili e via dicendo. Questa volta però si sente che manca qualcosa. Alcune parti sono state rese bene, come ad esempio la scena iniziale a Città del Messico nel Dia de los Muertos oppure l’inseguimento notturno sul Lungotevere, ma nel complesso il quadro non è particolarmente esaltante.
Il regista è lo stesso di Skyfall: Sam Mendes  (famoso per film come “American Beauty” e “Revolutionary Road”). La sua regia si mantiene sui  buoni livelli del Bond precedente e non si possono fare troppe critiche al film su questo punto di vista. La vera debolezza di “Spectre” è sicuramente la sceneggiatura, sia in primo luogo per quanto riguarda la caratterizzazione del villain, sia per l’impostazione generale. Il film non fa un bel lavoro nel presentarci le vicende, non è ben chiaro cosa sia effettivamente l’organizzazione Spectre e come sia collegata agli avvenimenti dei film precedenti.


James Bond in questo film viene interpretato ancora da Daniel Craig che si conferma per la quarta volta come un’ottima scelta. Il suo è un Bond che all’apparenza sembra duro, freddo ed implacabile ma che in realtà è incerto, pieno di dubbi. È un Bond che non ha paura di mettersi a nudo e di rivelarci le proprie insicurezze. Cade il mito dell’agente segreto invincibile, infallibile e invulnerabile. Ora è una persona che sbaglia, cade e sa rialzarsi. Questa rivoluzione del personaggio che era iniziata nei film precedenti prosegue anche in “Spectre”, è una modernizzazione della figura di James Bond che viene adeguata ai canoni cinematografici moderni. Anche se personalmente preferisco il Bond “classico” non posso negare che una rivisitazione del personaggio fosse necessaria.
L’aspetto che più mi ha deluso in Spectre è stato il villain ovvero Hannes Oberhauser alias Ernst Stavro Blofeld. Il personaggio di Blofeld è già apparso nella serie in ben sei film prima di Spectre, è una figura ricorrente nell’universo di 007. Ci viene presentato come il cattivo dei cattivi, la mente dietro a tutti gli avversari che Bond - Craig ha dovuto affrontare negli ultimi anni: Mads Mikkelsen, Javier Bardem, eccetera. In realtà in questo film non è nemmeno lontanamente carismatico come dovrebbe essere. È un personaggio banale ed insapore che non dà mai l’impressione di costituire una vera minaccia per Bond. La mia frustrazione è amplificata dal fatto che Blofeld è interpretato da quel fenomeno di Christoph Waltz.
Waltz è un attore austriaco che fino a qualche anno fa era semisconosciuto e viveva di comparsate occasionali in serie come “Il commissario Rex” e simili. Nel 2008 è stato scoperto da Quentin Tarantino ed è stato inserito in “Bastardi senza gloria” dove si è esaltato in una performance strepitosa nei panni del sadico Colonnello  Hans Landa che gli è valsa il Prix d'interprétation masculine, l’Oscar al miglior attore non protagonista e la fama internazionale. In seguito ha collaborato con registi come Roman Polanski, Terry Gilliam e Tim Burton ma la sua popolarità è sempre rimasta legata al ruolo di Landa, uno dei villan più fenomenali della storia del cinema. Quando scoprii tempo fa che era stato scelto per essere il “Bond baddie” di Bond 24 ero esaltato, sapevo che c’erano i presupposti per un cattivo coi controcazzi. Purtroppo sono rimasto amaramente deluso. Waltz è stato sfruttato pessimamente, è uno degli antagonisti più mediocri e sconclusionati che la serie ricordi. MALE!  Malissimo. Avrebbero potuto usare Stephen Hawking e sarebbe stato meglio.



Invece ho apprezzato l’idea di inserire Dave Bautista come tirapiedi di Waltz, in ogni scena in cui è presente porta dinamicità e divertimento. Per lui vale il discorso opposto a quello fatto per il villain principale, lui è uno degli sgherri migliori della serie. Grosso, cattivo e poco aperto al confronto: è lo scagnozzo che ognuno vorrebbe avere al proprio fianco.
Recitano in questo film in ruoli secondari anche Ralph Fiennes, Léa Seydoux e Monica Bellucci. Ralph Fiennes  interpreta M, il capo dell’MI6  ed è un peccato vedere un attore così talentuoso interpretare un personaggio così piatto ma comunque il suo lavoro lo fa senza infamia e senza lode. Léa Seydoux è la Bond girl di turno mentre devo ancora capire il ruolo di Monica Bellucci … cosa dovrebbe essere? Si vede solo in una scena, nella quale si accende di passione per Bond ma poi scompare dai radar e non si vede più per tutto il film. Un personaggio assolutamente inutile.
 “Spectre” come tutti i film di Bond che si rispettino è pieno di umorismo autoreferenziale, così avremo una scena in cui Craig ordinerà l’iconico Vodka Martini e gli porteranno un frullato iperproteico, oppure le classiche gag sull’agente 009 sempre nominato ma mai mostrato sullo schermo e avremo come sempre una buona dose di gallows humor molto british  (“Non puoi salvarmi, puoi solo regalarmi altri cinque minuti!” “Ottimo. C’è tempo per un drink”)
Una menzione speciale va fatta alla nuova auto di Bond: una Aston Martin DB10. Questo modello di auto è stato costruito specificamente per il film e ne sono stati prodotti solo 10 esemplari. Un’auto stupenda, una delle migliori che James Bond abbia mai guidato e...no James Bond non ha guidato solo auto spettacolari. Non vi ricordate quelle maledette BMW dei tempi di Pierce Brosnan?



A parte qualche sporadico elemento positivo Spectre rimane un film mediocre  pieno di inverosimiglianze (Bond che abbatte un elicottero con la sua Walther PPK) e incongruenze(Oberhauser /Blofeld dovrebbe essere il capo di tutti i cattivi affrontati da Craig ma allora perché né lui né l’organizzazione Spectre sono mai nominati in “Casino Royale”, “Quantum Of Solace” e “Skyfall”?) .

Come avrete capito non il mio giudizio sul film non è positivo ma d’altro canto  è comunque un film di 007 ed io (in quanto fan boy) devo ammettere che mi sono divertito a guardarlo. In fondo diciamoci la verità nemmeno uno  dei 24 bond usciti in oltre cinquant’anni dal 1962 fino ad oggi può essere considerato un capolavoro. Sono pieni di cliché e loro qualità media è mediocre ma sono film cult che noi fan amiamo così come sono: esagerati, inverosimili ed imperfetti. 

lunedì 9 novembre 2015

COMMENTO FARGO 2 - EPISODI 2 E 3

Lo so, sono in ritardassimo, ma sto recuperando. Mi dispiace avervi abbandonati così su due piedi per privilegiare una serie che non sta regalando le soddisfazione che aspettavo. Errore mio. Rimedierò. Intanto Fargo 2 è ormai arrivato alla quarta puntata (probabilmente alla quinta quando io avrò pubblicato tale commento), per cui prometti di rimettermi in pare in breve tempo per riuscire a pubblicare il prossimo commento nel giro di una settimana a partire da ora. Ma queste sono tutte illazioni e raramente mantengo le promesse, sappiatelo.


In questi due ultimi episodi Fargo ha alternato momenti convincenti a passaggi a vuoto non clamorosi ma neanche trascurabili, confermando le voci che mi erano arrivate riguardo i contro della prima stagione. Il secondo episodio in particolare, a parer mio, non è riuscito ad enfatizzare i momenti clue(edo), di cui comunque era dotato, scadendo troppo spesso nella noia gratuita. E stavolta dico noia, non lentezza. La lentezza è una scelta stilistica e di scrittura attraverso cui i tempi delle azioni vengono dilatati per avvicinarsi alla realtà ed approfondire determinati temi o personaggi. La seconda puntata invece è lenta perché non riesce a bilanciare bene scene al cardiopalma e altre di intermezzo; quindi un errore nella gestione dei tempi è stato commesso e si nota. Il regista però riesce a sopperire alla parziale mancanza di materiale con la valorizzazione di uno dei capisaldi della serie, ossia lo stile visivo. Tutto è preciso, fine, geometrico, ordinato. Ogni elemento fuoriposto si colloca perfettamente in un contesto violento e sporco di sangue, ma per certi versi puro e immacolato. Sarà la costante della neve posata sui prati del Minnesota e del Sud Dakota.
Altra costante mantenuta in questi primi tre episodi è l’ironia tipica dei fratelli Coen che permea ogni scena, ogni inquadratura. Attraverso questo stile narrativo a tratti surreale, gli scrittori riescono a creare un mondo realistico ma irreale al punto giusto per risultare allo stesso tempo ilare e minaccioso. La scena in cui il suocero del protagonista ferma i malviventi di Kansas City riesce ad essere contemporaneamente carica di pathos ed estremamente divertente, grazie soprattutto allo scrittura del personaggio interpretato da Ted Danson: sopra le righe, dissacrante, intelligente e stranamente realistico. Sul binomio antitetico realismo- surrealismo si fondo l’intero clima dell’opera finora, e, se gli sceneggiatori riuscissero a mantenere il perfetto equilibrio mostrato finora, ci troveremmo finalmente al cospetto di una perla di black humor di rara bellezza.


Il terzo episodio, a differenza del secondo, è invece carico di eventi attraverso i quali si sviluppa la trama principale legata al caso dell’assassinio del giudice e quella secondaria collegata indirettamente alle indagini, ovvero l’imminente guerra tra i Gerhardt e la mafia di Kansas City. Delle due trame quella che sulla carta dovrebbe essere più affascinante e coinvolgente è la seconda, ma lo spettatore è portato dalla caratterizzazione dei personaggi secondari e dallo sviluppo degli eventi ad aspettare con più ansia il momento in cui la telecamera si concentra sulle intuizione della nostra madre preferita o sulle macabre usanze notturne dei macellai negli anni ’70. Spero che questo terzo episodio non rappresenti l’eccezione alla regola, perché a mio parere questo perfetto connubio tra momenti di stanca televisivi ed improvvise folate di eventi significativo potrebbe rappresentare il dispiegamento delle ali di Fargo.


La caratterizzazione dei personaggi, sia quelli principali che secondari, mi è sembrata inoltre estremamente naturale, mai forzata e perfettamente in linea con l’opera in toto. Non avremo mai una scena in cui due personaggi interagiscono tra di loro per il puro sviluppo dei due caratteri, ma tutte le scene sono in qualche modo legate alla trama e quindi non risultano mai fini a loro stesse. Da questo punto di vista va dato atto agli sceneggiati di un lavoro accurato e studiato nei minimi dettagli.
Angolo delle previsioni: la guerra sarà guerra e la mafia giungerà alla felice coppietta di assassini prima dei protagonisti. In ogni caso i morti, da qui alla fine, come ha dimostrato la scena del venditore di macchine da scrivere iper tecnologiche, non mancheranno.


Finora Fargo ha rispettato tutte le aspettative pur mostrando qualche lacuna dal punto di vista della divisione degli eventi e dell’organizzazione del tempo. Rimane però stilisticamente perfetto e dissacrante. Anche l’uso delle musiche è stato sviluppato in maniera intelligente in modo da coinvolgere ulteriormente lo spettatore nel nero della serie crime più bizzarra degli ultimi anni. Le premesse sono ottime, ma riusciranno a tenere sempre costante il livello d’intrattenimento in dieci lunghe puntate?

domenica 8 novembre 2015

LA MIA PAURA PREFERITA: AGORAFOBIA

Sarà ormai l’abitudine, sarà il suo tono pacato, sarà che si mostra sempre per quello che è e mai per quello che il suo personaggio gli chiederebbe di essere, ma quando conclude un suo canonico video con “Un bacione dal vostro amico Dario Moccia”, io ci credo. Credo davvero che a parlare sia un mio caro amico. Credo che, se ci trovassimo il sabato sera a discorrere delle nostre passioni, e magari a programmare nuovi tour in Giappone, il suo tono sarebbe quello dei video, i suoi tempi, le sue espressioni. Quello che rende realmente Dario un potenziale amico è la trasparenza e la naturalezza con cui abbatte le barriere tecnologiche irrompendo in camera nostra a portare un po’ di sana Nerd Cultura.


Quando il giovane divulgatore toscano ha annunciato la sua partecipazione alla realizzazione di un fumetto, non stavo più nella pelle. Rimanere al proprio posto portando avanti delle idee ben precise e coerenti dall’inizio alla fine; questi i meriti che giustificherebbero da soli l’acquisto, a mio parere. Poi ho finalmente messo le mani sull’albo realizzato in collaborazione con il disegnatore Giovanni Fubi Guida e sono rimasto attonito. Senza parole.
Agorafobia non è quello che un fan di Dario si sarebbe potuto attendere. È diverso, nel senso che va oltre l’idea che noi avevamo del ragazzo sotto l’effetto di taurina. Agorafobia è una storia breve ed autoconclusiva sporca e cupa, fredda e disturbante. La trama, in breve, narra di un ragazzo afflitto da un grande peso nell’anima che lo ha costretto a chiudersi sempre più rispetto al mondo esterno, sia metaforicamente che fisicamente. Passa le sue eterne giornate contemplando le avvolgenti coperte, chiamando per nome i treni che passano vicino al lui. Il mondo che scorre ad uno sputo dalla sua paura. Il pensiero ricorrente è sempre la colpa per la presunta scomparsa di un amico che vediamo solo in un paio di frangenti confusi. Gli elementi che più riescono a movimentare il quadro generale non sono altro che una caduta e una sigaretta. Morte dell’anima.
Da questo punto di vista il nostro beniamino mostra della lacune in fase di scrittura spesso evidenti, attribuibili più alla mancanza di esperienza che a mancanza di idee originali. il concept di sviluppare un solo personaggio e di farlo dialogare con se stesso è, parlando per esperienza personale, la maniera più semplice di costruire una storia, sorvolando sulla scrittura di dialoghi plausibili e sul bilanciamento dei tempi dei vari personaggi.


I disegni di Fubi, che, giudicando il monaco dall’abito qualche mese fa, quando erano uscite le prime tavole, non mi avevano fatto gridare al capolavoro, invece aiutano in maniera convincente il lettore ad empatizzare con lo stato d’animo del disperato e tremante protagonista attraverso linee sporche, connotati abbozzati e macchie. Molte tavole sembrano essere frutto di un incidente di percorso, di un rovesciamento del calamaio, ma ogni linea fuori posto sembra essere lì per un motivo, per una paura recondita. Ogni elemento grafico contribuisce a creare l’aspetto fondante che contraddistingue l’opera: l’atmosfera. Ogni sguardo del protagonista sa di morte, ogni battuta detta o pensata è un’agonia sia per il personaggio che per il lettore se riesce ad immedesimarsi appieno. L’immedesimazione è appunto importante per cogliere delle sfumature di significato che rendono la lettura più appagante e coinvolgente, ma ciò che davvero conta è l’esperienza. Due momenti in particolare mi hanno colpito e toccato: l’inizio dell’opera, quando il protagonista insonne osserva i piccoli oggetti della sua prigione, e la scena dell’ombra allo specchio. Chiunque nella vita potrebbe trovarsi, o si è già trovato in passato, a lottare strenuamente con l’ombra di se stesso, a cercare di ribellarsi ad un istinto superiore che ci impedisce di vivere come vorremmo e ci costringe ad arretrare, a rinunciare alla vita che sognavamo e che ci sta sfuggendo di mano per colpa nostra. Nostra e di nessun altro. Essere nemici di si stessi al punto di non vivere più, questa è la fine dell’uomo. Un’ombra densa di dolore e rabbia che nessuno vede a parte noi; noi che facciamo finta di niente e intanto pieghiamo la schiena.


Un tema sempre attuale trattato con la semplicità di una voce esperta e di una mano mossa al punto giusto. Agorafobia (che potete trovare qui) è quindi un prodotto sinceramente poco innovativo e non esente da pecche, ma è anche un punto di partenza per nuove collaborazioni di Dario e soprattutto un viaggio. Un viaggio nella parte oscura dell’anima che viene sfiorata, ma non approfondita. Alcuni momenti davvero ben calibrati, toccanti e disarmanti. A voi la lettura dunque, purché il vostro animo sia pronto.

Un bacione dal vostro amico Mattia Santoro.


sabato 7 novembre 2015

COMMENTO AQUARIUS - EPISODI 7 E 8

Che Aquarius abbia smarrito la retta via pare ormai chiaro a tutti. Non perderò il mio tempo quindi a cercare di salvare il salvabile, perché tra umori ballerini, eventi poco interessanti e confusionari e pessima gestione dei tempi, trovare il salvabile sarebbe già impresa ardua. Vorrei invece parlarvi di ciò che Aquarius sarebbe potuto essere, ma che evidentemente non è  stato e non credo possa essere nelle successive puntate. O meglio, potrebbe essere stato, ma non nel modo giusto. È un discorso contorto, lo so, ma mi capirete solo leggendo. Quindi Aquarius sarebbe potuto essere…


… la storia travagliata di un poliziotto moralmente retto, ma dai modi burberi e con un passato da alcolista, che cede spesso ai piaceri della carne e non riesce a dare un ordine alla sua vita, ma continua imperterrito a risolvere casi con le buone o con le cattive, sfruttando le conoscenze che anni di vita di strada gli hanno garantito. Se poi una storia del genere fosse stata ambientata negli Stati Uniti durante i turbolenti e rivoluzionari anni ‘60, allora ci saremmo trovati di fronte ad un prodotto usuale nella narrazione e nella trama, ma innovativo ed accattivante nello stile.

… la storia di un giovane agente negli stupefacenti sixties che contemporaneamente fa uso di droghe illegali (per lo più leggere) e viene scelto per indagare sul pericoloso narcotraffico messicano, trovandosi inevitabilmente a nascondere le proprie attitudini tra due fuochi che rappresentano due aspetti fondamentali della sua vita. Cosa fare dunque? Quale parte appoggiare? Meglio tenersi saldo un lavoro statale ben retribuito o far valere le proprie ideologie mostrando l’elemento umano della macchina? Se a questa simpatica storiella aggiungessimo anche maggiore violenza e maggiore pathos, a mio avviso, otterremmo una serie da candidatura all’Emmy, qualità permettendo.

… la storia di un criminale efferato che raggira giovani ragazze per abusa di loro e per convincere a sostenere il suo sogno di diventare musicista folk. Questa storia sarebbe più interessante se ci fosse davvero uno stuolo di poliziotti alle calcagna del malvivente. Una corsa contro il tempo per scoprire l’ubicazione del circolo giovani amiche e per incastrare l’antagonista (che, scegliendo un nome a caso dal cappello magico, chiameremo Charles) magari facendo leva sul possesso e lo spaccio di stupefacenti, sul sequestro di minore, sull’abuso di minore, sul furto, sulla rapina privata, ecc… Diciamo che questi ipotetici agenti avrebbero qualche piccolo ed insospettabile crimine per incastrare il giovane e dannato Manson (ops, mi è scappato anche il cognome).

…  la storia di un giovane militare appena arruolatosi nella marina statunitense e costretto a scontrarsi con la dura verità della guerra in Vietnam, che si ribella al sistema e decide di denunciare al mondo le terribili torture che il popolo asiatico oppresso è costretto a subire giornalmente da quelli che in patria sono considerati molto più che eroi. In questo tortuoso percorso di verità verrà però osteggiato dal governo e dai massimo esponenti dell’esercito fino ad arrivare alla morte del giovane protagonista, ormai abbandonato anche da coloro che un volta lo sostenevano. Una storia triste ma comunque storicamente assai plausibile.

… la storia di un famoso attore di Hollywood trovato morto, nudo e crocifisso nel suo camerino durante le riprese di un film. Si verrà poi a sapere che il celebre interprete era omosessuale e i produttori volevano in tutti i modi nascondere la verità sulla sua sessualità affiancandogli spesso avvenenti escort che fingessero di essere la sua compagna. Magari si scoprirà anche, nel corso delle indagini, che l’attore era originario dei territori filosovietici e che ciò potrebbe essere stato il movente dell’efferato omicidio, considerando il clima che si respirava negli Stati Uniti durante la Guerra Fredda.

… la storia di una donna agente di polizia che, negli anni ’60, quando ancora le donne venivano discriminate per il loro sesso, cerca di emanciparsi lavorando sottotraccia ai casi più importanti del commissariato e riuscendo a risolverli prima dei colleghi, mostrando al mondo il futuro.



Perfino la storia del prete poker face sarebbe potuta essere molto più interessante se approfondita e analizzata con i giusti tempi. Credo comunque che il fondo lo si sia toccato quando un agente del distretto pronuncia al protagonista una frase tipo: “Ma poi quella ragazzina scomparsa?”; e la scena cambia repentinamente. Trame scollegate e sconclusionate che talvolta si perdono nel marasma generale. Dare un ordine ed un senso a tutto ciò mi risulta davvero difficile. Neanche il colpo di scena finale è riuscito in qualche modo a smuovere la mia curiosità nei confronti dei prossimi decisivi episodi e sinceramente, con The Knick e Fargo da seguire più assiduamente per meriti palesi, non sono sicuro della prosecuzione di questa rubrica ormai settimanale. Forse la concluderò, forse scriverò un articolo “Perché non ho concluso Aquarius”. Chissà.