domenica 31 gennaio 2016

RECENSIONI DELLA SETTIMANA 25 - 31 GENNAIO


FILM: Operazione U.N.C.L.E. (2015)
Cosa guardare quando non sei a casa e non sei in possesso di una stabilissima connessione ADSL  per poter usufruire in maniera legale di servizi streaming a pagamento? Non rimane altra scelta se non quella di rivolgersi al redivivo videonoleggio di fiducia. E poi, tra un Pixels e un horror fantastico finché non lo guardi ecco che rispunta Guy Ritchie, un dei registi che ancora oggi porta avanti una personalizzazione del ruolo autoriale e una tendenza allo stile che era propria della prima e forse della seconda Hollywood, ma che oggi sembra più vicina ad un cinema di nicchia del del Vecchio Continente. Artista unico, spesso poco considerato; ma quando il secondo lungometraggio è il cult Snatch, come potersi superare? Come sostenere le aspettative? Operazione U.N.C.L.E. non riesce infine a competere con il masterpiece del regista britannico, ma tiene testa a quest’ultimo lavoro per larghi tratti.
Berlino, guerra fredda più fredda, gelida. Un agente della CIA e uno dei KGB si scontrano in una travolgente e rocambolesca fuga nel tentativo di acciuffare e ottener informazioni da una ragazza che sarebbe legata in qualche modo ad uno scienziato tedesco, ex collaboratore forzato di Hitler, presumibilmente rapito per le sue conoscenze in campo atomico. Sequenza d’apertura che da sola vale svariati prezzi del biglietto per la fantastica messa in scena molto british e per la regia fresca e mediata tra l’eccessiva dovizia di particolari dei due Sherlock Holmes e l’immediatezza innocente dei primi lavori di Ritchie. Da questo punto in poi si alternano momenti più riusciti, quelli in cui le due spie entrano effettivamente in azione, ad atri più statici e meno movimentati che si allontanano dal senso coinvolgente che segna sostanzialmente l’intera pellicola.
Peccato per un paio di scelte nell’ultima mezz’ora che avrei preferito venissero gestite in maniera diversa, anche per questioni di coerenza con il resto dell’opera. Ultima scena invece amara sul momento ma decisamente sensata in relazione a “Organizzazione U.N.C.L.E.” che cita in maniera intelligente e lascia presagire un inutile seguito che non verrà in realtà mai realizzato. VOTO: 7.5



FILM: Moneyball - L’Arte di Vincere (2011)
Altro film sportivo, che a noi americani coloniali piacciono sempre, altro film con Brad Pitt, che da quando produce anche è un po’ ovunque. Ma stavolta è diverso. È diverso il modo di rapportarsi al tema sportivo, diversa la narrazione, diversi gli intenti. Stavolta non si tratta di rivalsa sociale e non siamo in presenza di carcerati bianchi e neri, ma ci troviamo di fronte ad un film tecnico attento e preciso, incentrato sulla figura di un manager talismano balzano inverso che si ritrova a dover costruire una squadra di baseball optando per la via della parsimonia intelligente e basandosi sui numeri. Tutto ruota intorno a delle cifre, e ciò è esplicativo del tono e della scelte emotivamente mozzata dello sceneggiatore. Finalmente assistiamo ad una sequela di eventi di contorno nei quali la componente sentimentale rappresenta la cornice, o forse così ci vorrebbero far credere, alla luce del finale in cui il personaggio di Brad Pitt prende in mano la situazione e la traghetta verso una personale conclusione che non stona nel complesso ma non segue fedelmente il filone mantenute strettamente dal film fino a quel momento. Ottime le prove dei due protagonisti e interessante e coraggiosa la scelta di invertire i canoni classici del sottogenere sportivo per costruire una storia priva di grande pathos o di stucchevole melassa. VOTO: 8



FILM: St. Vincent (2015)

“Guardalo!” mi avevano detto. “C’è Bill Murray in formato Oscar” mi avevano giurato e spergiurato. Alla fine l’ho visto e, magari condizionato inconsciamente dalle dicerie dette in precedenza, sono rimasto relativamente freddo (ma stavolta non gelido) nei confronti della storia, delle interpretazioni e del film nel suo complesso. Fin dal principio ci si rende conto delle pecche tecniche di una pellicola esaltata da alcuni, ma che voleva inizialmente proporsi unicamente come commedia esistenziale, formativa e cattolica adatta a tutta la famiglia. La trama vorrebbe in qualche maniera emulare il più famoso e blasonato Gran Torino, ma né Bill Murray, per certi versi, né il regista di questo filmetto è comparabile al Biondo del grande schermo. La situazione prende però una via differente e più emotivamente toccante, almeno sulla carta. Viene sviluppata maggiormente la storia personale del protagonista, la quale smette di avere misteriosi elementi di interesse, ma appare chiara e stereotipata sotto la luce delle stelle della ribalta. Da questo momento in poi troppe situazioni, troppa confusione, troppa religiosità e perbenismo interessato. Troppa finta bontà che permea ogni scena, ogni intermezzo musicale (di quelli scadenti che non si vedevano dagli anni ’80) e il finale. Un finale terribilmente dolce, forzato e fintamente religioso con la questione della santità. Se poi a ciò si aggiunge che le scene che mi hanno strappato un sorriso abbozzato si contano sulle dita di una mano di un reduce dal Vietnam, ma di quelli che hanno lasciato un pezzo di loro nel paese delle piogge, potete comprendere il giudizio finale. VOTO: 5

giovedì 28 gennaio 2016

NBT: THE REVENANT

L’anno scorso abbiamo vagato con Michael Keaton nei labirintici corridoi del St. James Theatre di New York, quest’anno strisciamo con Leonardo DiCaprio tra le nevi del Sud Dakota del XIX secolo ma il risultato è lo stesso: un coinvolgimento emotivo totale.
Dopo il successo di “Birdman” il regista messicano Alejandro González Iñárritu ci fa vivere ancora una volta un’esperienza cinematografica straordinaria. “The Revenant” è riuscito a farmi immergere completamente fin dai primi minuti nell’atmosfera selvaggia e terribile della frontiera americana, è stato come se per magia fossi stato teletrasportato nel 1823. Nella ormai celebre scena dell’attacco del grizzly il coinvolgimento ha toccato l’apice ma durante tutto il film ero partecipe delle vicende come se le stessi vivendo in prima persona. Questo è stato possibile grazie alla sapiente regia di Iñárritu che usa la macchina da presa in modo magistrale consegnando al pubblico una prospettiva unica dell’azione e facendolo sentire sempre “dentro” la scena.


In “The Revenant” Iñárritu abbandona i virtuosismi estremi di “Birdman” anche se non rinuncia ad inserire qualche long take qua e là, questi però risultano essere più sobri rispetto ai lunghissimi piani sequenza visti nel suo penultimo film e passano quasi inosservati nella frenesia dell’azione. Tenendo la macchina da presa spesso vicinissima al viso dei personaggi Iñárritu ci fa percepire le sensazioni che questi provano in modo molto intenso e deciso. In una scena la cinepresa si avvicina al volto di DiCaprio così tanto che il respiro dell’attore finisce con l’appannare la lente. Un aspetto che mi ha incuriosito parecchio è stato proprio la scelta di far sporcare spesso la lente della macchina da presa con acqua, neve, sangue, fango  e via dicendo. Un’idea interessante che contribuisce ancora meglio all’immersione del pubblico nel film.
Il direttore della fotografia Emmanuel Lubezki (“Children of Men”, “Gravity”) ci consegna delle inquadrature da pelle d’oca. La fotografia meravigliosa di “The Revenant” è ancor più stupefacente considerando la scelta temeraria di usare solo luce naturale. Lubezki ha dichiarato in una recente intervista a Variety: “Volevamo fare un film che fosse coinvolgente e viscerale. L'idea di utilizzare la luce naturale ci è venuta perché volevamo che il pubblico percepisse il tutto come se stesse succedendo davvero” E direi che ci sono riusciti eccome!


Sarebbe poi un delitto non parlare dell’ interpretazione straordinaria di Leonardo DiCaprio in questo film. Una interpretazione estremamente fisica,  con pochissime parole. Una performance intensa e sofferta resa ancora più difficile dalla scelta del regista di usare un approccio da purista assoluto. La scelta di girare il film in location estreme con temperature che scendevano sotto i -25 gradi ha sicuramente condizionato sia DiCaprio che i gli altri attori che hanno dovuto fare i conti con sfide al limite delle loro capacità. Lo stesso  DiCaprio ha definito The Revenant come il film più difficile a cui abbia mai lavorato. Ma il risultato è veramente notevole: un film crudo, forte, che colpisce lo spettatore e non può lasciarlo indifferente.
La caratteristica principale che accomuna “Birdman” e “The Revenant” come ho detto è l’immersione totale del pubblico. Entrambi i film ipnotizzano lo spettatore e lo tengono incollato allo schermo per tutta la loro durata. Le imperfezioni di Birdman sono riuscito a notarle solo a freddo riguardando il film dopo qualche mese, penso che sarà così anche con “The Revenant” dato che anch’esso è un film che rende impossibile qualsiasi giudizio critico dopo la prima visione per via del livello di coinvolgimento che fa raggiungere allo spettatore.

Antonio Margheriti








domenica 24 gennaio 2016

RECENSIONI DELLA SETTIMANA 18 - 24 GENNAIO


FILM: La Grande Scommessa (2015)
La Grande Scommessa in ogni senso. Questo film si pone infatti come un’inusuale pellicola su un tema inusuale, girata in maniera decisamente inusuale. Ciò si potrebbe tradurre come la genesi di un prodotto qualitativamente interessante ma lontano anni luce dal gusto comune, e invece, a quanto parrebbe, l’ultima produzione di Brad Pitt (presente anche come attore) ha fatto breccia nel cuore dei più puntigliosi Americani. Questo successo potrebbe essere legato al soggetto molto patriottico del film, ma credo anche lo stile, la qualità e le scelte narrative abbiano influenzato non poco il responso dell’opinione pubblica. The Big Short è quindi ciò che mi aspettavo di vedere? Non esattamente. Il film mostra fin da subito degli evidenti punti a sfavore che rischiano di ammorbare lo spettatore meno aperto a opere incentrate principalmente su meccaniche finanziarie. I tecnicismi infatti portano la pellicola ad un livello di specificità difficilmente raggiungibile se non in un frangente specifico di nicchia. Immagino che gli studiosi e gli appassionati della materia abbiano trovato panifici alle sei di mattina. Altro punto a sfavore è la complessità, voluta ma eccessiva, dell’intreccio tra i vari personaggi. Intreccio che spesso compie anche dei salti temporali decisamente non decodificabili se non attraverso le didascalie.
D’altra parte però il film propone un tono generale completamente distaccato e freddo riguardo argomenti molto vicini alla sensibilità del popolo americano. Questa scelta rappresenta forse il più grande punto a favore dell’intero prodotto, conferendo quell’aura di unicità e novità che spesso viene a mancare quando si trattano (o, in questo caso, sfiorano) temi così nazionalpopolari. Ottima anche la scelta di virare verso il personale nel finale e fantastico il discorso conclusivo molto irriverente e accusatorio del personaggio di Ryan Gosling. Ottime prove attoriali e scelte registiche alquanto bizzarre, come la rottura della quarta parete, aumentano l’interresse verso un film quantomeno “diverso”. VOTO: 8



FILM: L’Amore Non Va in Vacanza (2006)
Il film che lasciai fuori da “I Miei Film Di Natale” ormai quasi un mese fa. Lo esclusi al momento della lista dei migliori cinque titolo perché in questo film, a differenza di Love Actually, il Natale non c’è e non si vede. È poco più di un sfondo statico, il perché di un incipit che va sviluppando una storia d’amore incrociato separata e distaccata dalla festività specifica. Ma questo non lo esclude dalle Recensioni della Settimana. Indubbiamente ci troviamo di fronte ad un film usa e getta che lascerà poco o nulla nelle menti degli spettatori. La forza trainante è rappresentata dai quattro protagonisti: quattro affermati attori che sembrano perfettamente calati nella parte. Sembra quasi che i loro ruoli siano stati scritti sulla base delle loro stesse persone. Jack Black in particolare convince e sembra essere davvero a suo agio nella parte.
Il problema fondamentale è però la gestione delle tempistiche che fa sembrare il film troppo lontano dalla realtà rispetto a quanto avrebbe voluto. A tratti ci sembra che siano passati mesi, a tratti minuti, ma non ci si raccapezza mai come si dovrebbe e il risultato è una matassa confusa che avrebbe richiesto almeno un’altra mezz’ora per essere sbrogliata. Altra appunto da fare è quello relativo al vecchio Eli Wallach, protagonista di una storia che da sola avrebbe potuto sorreggere una sceneggiatura intera molto più accattivante e coinvolgente di quella de “L’Amore Non Va in Vacanza”, ma tant’è. VOTO: 6


FILM: Il Nome del Figlio (2014)

E qui la gente ci casca. “Il Nome del Figlio”, come molti pensano erroneamente, non è un remake del film francese “Cena tra Amici”, ma una trasposizione nostrana dell’omonima pièce teatrale. Chi di voi si stupirebbe della sensazione di Deja Vù che lascia la visione di un “Natale in Casa Cupiello” realizzato da una compagnia amatoriale? Detto ciò, il film nostrano è stata senza dubbio una delle sorprese più interessanti di questi ultimi mesi. Una commistione di dialoghi tesi e propriamente teatrali, ottime prove di recitazione e quel pizzico di nostalgia che non guasta mai. Archibugi riesce inoltre ad inserire una componente storiografica molto velata ed un’altra politica accesa ben più spiccata e riconoscibile. Peccato per qualche scena ambientata nel passato leggermente sottotono rispetto alle sequenze realizzate nella casa di Lo Cascio e della Golino, forse perché non riprese direttamente dall’opera teatrale. E quindi quale sarà il nome del figlio, perché tutto questo scalpore e cosa si nasconde dietro le ombre del passato dei protagonisti? A voi le risposte. Intanto io riguardo e mi perdo in questa meravigliosa sequenza sulle note di quel ragazzino di Bologna che profetizzava le vite in Piazza Grande: Telefonami travent’anni. VOTO: 8

venerdì 22 gennaio 2016

FIVE BY FIVE #8

L’aspetto peggiore della fine di qualcosa, di una storia, di una vita, è la consapevolezza che non si saprà mai cosa sarebbe potuto accadere dopo. Questa è stata la prima cosa che ho pensato lo scorso 11 Gennaio quando ho appreso la notizia della morte di Bowie. Per quanto mi riguarda la musica ha sempre avuto il gusto della scoperta e del nuovo e perdere un’artista come Bowie equivale a cancellare per sempre un intero arcipelago – se non un continente – dalle mappe sonore di questo e di altri mondi. Non mi dilungherò oltre su questo perché è già stato scritto e detto tanto da gente più capace di me e lascio la parola alla musica che è più capace di tutti noi. Buon ascolto!



Five Minutes –Her
Bella scoperta di inizio anno, gli Her sono un duo, sono francesi e hanno appena debuttato con l’EP Tape #1. Non sono particolarmente originali nello stile ma conoscono i loro ingredienti migliori e li usano al meglio.  Una bella manciata di The xx, un pizzico di Future Islands, qualche schiocco di dita qua e là, una produzione più che discreta ad amalgamare il tutto. Al di là dell’aspetto prettamente sonoro, peraltro molto godibile, Tape #1 e in realtà gli stessi Her sono interessanti in quanto rappresentano un omaggio al genere femminile; non un album femminista – non lo è e a mio parere non vuole esserlo – piuttosto una vera e propria celebrazione, una dimostrazione di rispetto religioso, quasi morboso.



U-235 – Mogwai

Ok, ok, non c’è dubbio che gli alfieri del post-rock scozzese siano ormai lontani dai fasti di inizio millennio (o forse è il post-rock stesso ad aver concluso da tempo la sua corsa?), ma a me i Mogwai continuano a piacere. Rave Tapes era pieno di buoni spunti e mostrava un’evoluzione interessante del genere, quindi non ho potuto che apprezzare l’annuncio del loro nuovo album, Atomic – in realtà rielaborazione della colonna sonora di un documentario sull’era atomica – e il loro nuovo singolo U-235, pezzo decisamente elettronico e decisamente suggestivo.



Welcome to New York – Father JohnMisty/Ryan Adams/Taylor Swift/Lou Reed(?)
Joshua Tillman è un genio, e ora vi spiego anche perchè: vi ricordate 1989 di Taylor Swift? Bene, vi ricorderete allora del cover album di Ryan Adams, con esattamente le stesse canzoni nello stesso ordine ma “rifatte”. Ecco, il nostro buon Tillman – meglio noto come Father John Misty – ha fatto una cover della cover del singolo Welcome to New York della Swift. Nello stile dei Velvet Underground. Un genio, come dicevo.
Tutto ciò risale ad ottobre, ovvero quando la canzone di cui parlo è stata pubblicata. Ve ne parlo solo adesso perché poche ore dopo la pubblicazione la canzone è sparita dal profilo SoundCloud di Tillman e non avrebbe avuto senso parlarvi di una canzone “fantasma”. Il motivo per cui è sparita? Glielo ha chiesto Lou Reed al culmine di un delirante sogno (che trovate descritto qui). Qualche giorno fa però – sorpresa, sorpresa –  la canzone è ricomparsa, quindi eccola qui, tutta per voi. Fate in fretta, prima che se ne accorga Lou.




Come Down –Anderson .Paak


Mi sono avvicinato seriamente al mondo Rap/Hip-hop solo in tempi recenti, spinto da Il Rap spiegato ai bianchi di D.F. Wallace (minimum fax, ) – che consiglio vivamente – e devo ammettere che pian piano sta iniziando ad affascinarmi come ambiente. Alcune cose mi sfuggono ancora, ad esempio non mi è ancora del tutto chiaro cosa renda To Pimp a Butterfly di Kendrik Lamar un album tanto eccezionale da essere considerato un capolavoro da quasi chiunque (io nella mia ignoranza mi fido e continuo ad ascoltarmelo). Non mi è sfuggito però – e ne vado abbastanza fiero – come Anderson .Paak nel suo ultimo album Malibu peschi a piene mani dall’opera di Lamar e il risultato è sicuramente degno di nota.



Tardis Cymbals –Cavern of Anti-matter
I Cavern of Anti-matter sono la band di Tim Gane (Stereolab) insieme ad altri musicisti berlinesi. La loro elettronica è, senza grandi sorprese, influenzata dal krautrock, quello dei Neu! in particolare. Il loro LP (ma si dice ancora LP?) di debutto si chiama Void Beats/Invocation Trex e vede la partecipazione di Bradford Cox dei Deerhunter. Già queste dovrebbero bastare come ragioni per tenere d’occhio questa band dal nome – e dalla musica – così evocativo, ma se proprio non siete convinti ascoltate il singolo Tardis Cymbals e convincetevi.
    

Marsha Bronson

giovedì 14 gennaio 2016

NBT: IRRATIONAL MAN

I film di Woody Allen sono speciali, questo lo sanno tutti. Nella sua lunghissima carriera il maestro newyorkese ha diretto più di 50 film, alcuni di questi sono entrati nella storia del cinema altri invece sono meno memorabili ma tutti hanno una vitalità e un’intensità uniche, uno stile speciale ed inconfondibile che li rende eccezionali. Guardare un film di Woody Allen è sempre un piacere, sono film distensivi e confortanti. Quando li guardo acquisto la serenità  di un monaco orientale: sono veramente un portento per risollevare lo spirito.
A Natale è uscito il suo ultimo film “Irrational Man” ed è proprio di questo film che vorrei parlarvi oggi.



“Irrational Man” è la storia di un professore di filosofia alcolizzato e nichilista (Joaquin Phoenix) che si trasferisce in una cittadina del New England per insegnare nell’università locale. Tenendo fede alla sua fama di donnaiolo, Phoenix inizia subito una relazione con una delle professoresse della città. La relazione però, a causa dei problemi di depressione di lui, non procede affatto  bene. Frattanto anche una delle studentesse del corso di filosofia (Emma Stone) s’invaghisce dell’affascinate nuovo insegnante ed inizia a passare del tempo  con lui. Phoenix, conteso tra le due donne, sembra essere indifferente verso entrambe: ciò che cerca veramente è uno stimolo per continuare a vivere. Non dico altro perché non voglio rivelare troppo a chi non ha ancora avuto modo di vedere il film. Purtroppo però devo ammettere che la sceneggiatura non mi ha convinto appieno: la struttura del film non è ben rifinita e si ha la sensazione che nella seconda metà il film perda la sua coerenza. I dialoghi invece come sempre sono frizzanti e ritmati anche se forse mancano di quella verve che caratterizza il migliore Allen.



Per i ruoli dei protagonisti sono stati scelti due nomi importanti: Emma Stone (alla sua seconda collaborazione con il regista dopo “Magic in the Moonlight”) e Joaquin Phoenix che nella parte dello sbandato si trova perfettamente a suo agio (basti pensare a film come “I’m still here”, “Vizio di forma” o “The Master”). I due sono talentuosi  e riescono a dare spessore ai loro personaggi, il problema è che questi personaggi a mio parere non sono stati scritti molto bene. Spesso i due protagonisti si comportano in maniera poco verosimile o prendono delle decisioni difficilmente condivisibili, i personaggi secondari dal canto loro non hanno molto spazio dato che la storia ruota attorno ai due protagonisti.

Sì insomma non si può certo dire che questo film sia esente da difetti ma nonostante tutto devo ammettere che non mi è dispiaciuto. “Irrational Man” è un film piacevole e divertente, capace di rasserenare lo spettatore. La scanzonata soundtrack jazz scandisce il ritmo delle vicende con brio ed il fittizio Braylin College offre al film un setting affascinate e suggestivo. Lo stile classico del maestro pur non raggiungendo nuove vette  è comunque ben presente anche nel suo ultimo film. Una storia poco ispirata e qualche imperfezione di troppo ci impediscono di annoverare questo film tra i migliori del regista ma se volete semplicemente passare una serata piacevole “Irrational Man” è la scelta giusta.

Antonio Margheriti

martedì 12 gennaio 2016

DOVE MUOIONO I SOGNI

È facile pensare che tutto il mondo sia uguale, generalizzare e rendere tutto comprensibili agli occhi della nostra inesperta e limitata anima, ma non è così, o almeno, così facendo si rischia di non comprendere realtà molto lontane dalla nostra, sia geograficamente che culturalmente. Dal punto di vista dei diritti ad esempio noi Italici possiamo ritenerci fortunati (e anche per questo bisognerebbe onorare ogni anno con lo giusto spirito il 25 Aprile, anziché dibattere ancora su fascismo e antifascismo) rispetto ad altre popolazioni più oppresse, socialmente arretrate e purtroppo abbandonate a loro stesse, al loro assente presente e futuro.


I diritti sono molti. Esiste il diritto di crescere, quello di avere un impiego fisso, quello di esprimere la propria opinione liberamente, quello di difendersi dalle accuse altrui in un tribunale che faccia valere le stesse leggi per tutti, ma soprattutto esiste il diritto di sognare. Un uomo può venire privato di tutto, ma non del diritto a sognare. Senza tale diritto chiunque muore dentro, non ha futuro. Esiste un posto nel mondo dove muoiono i sogni e gli uomini sono costretti a vagare come involucri vuoti “tirando avanti lontano dai guai in attesa del giorno in cui morirai”. Questo luogo è Ciudad Juarez, o semplicemente Juarez, città messicana assai popolosa situata al confine con gli Stati Uniti, nonché culla degli eventi narrati in Viva La Vida (titolo oltremodo abusato, ma pur sempre accattivante e, in questo caso specifico, decisamente azzeccato). La graphic novel in questione, scritta e disegnata dai vignettisti francesi Baudoin e Troubs, narra di un viaggio fatto dai due autori nel Messico del Nord alla scoperta di un mondo sconosciuto e incomprensibile per uomini del vecchio continente. I due, nel loro viaggio, arrivano anche a visitare la suddetta Juarez, città riconosciuta come la più violenta al mondo nel triennio dal 2008 al 2011 e che tuttora stanzia stabilmente tra le prime cinque. L’opera si presenta esattamente come un reportage giornalistico che scava, con poca retorica, nella vita magra e arida degli ultimi tra gli ultimi, di quelli che rischiano la vita ogni giorno per un tocco di pane, di quelli che hanno perso i loro cari e ora sono soli in mezzo a sanguinolente e spietate lotte di cartello. I due autori hanno impostato il loro viaggio sullo scambio alla pari tra un sogno e un disegno: ogni persona che incontrano può raccontare loro un sogno celato per ricevere in cambio un ritratto. La potenza della china (town) che non cesserà mai. In questo modo i due fumettisti sono riusciti a portare a casa varie testimonianze che commuovono e restituiscono un’immagine cruda della vita nella città messicana. Alcuni sognano la fine delle guerre tra clan, altri di rivedere i loro cari scomparsi, altri ancora di sopravvivere ancora un giorno sperando che domani sia migliore di ieri, anche se non è mai così. Emerge anche il controverso rapporto che gli abitanti di CD Juarez hanno con la loro città d’origine: alcuni vorrebbero abbandonarla senza pensarci due volte ma sono bloccati dalle scarse finanze e dalle responsabilità che hanno assunto nel tempo con la città stessa, altri non lascerebbero mai quell’inferno, ma darebbero la vita senza pensarci di volte affinché la situazione cambi finalmente in meglio.


Come lascia intendere la copertina poi, molto spazio nella graphic novel è dedicato al mondo femminile. Sfruttamento, abusi, stupri, violenze, ingiustizie. Il Medioevo era più civile, aperto e rispettoso nei confronti del gentil sesso. Fortunatamente comunque l’opera si conclude con un meraviglioso inno alla vita: nonostante tutte le difficoltà e nonostante la coltre oscurante che annebbia il futuro di una popolazione, tutte le persone intervistate anelano disperatamente alla vita, ad una vita ricca di sogni e soddisfazioni, ad una vita libera.

Tutto ciò per chi? Chi ci guadagna alle spalle delle persone che muoiono in un lago di sangue in mezzo ad una via malfamata? Da Juarez si può vedere il confine, la frontiera con gli Stati Uniti, simbolo di libertà e giustizia fin dai tempi delle tredici colonie, e proprio il governo a stelle e strisce ha interesse perché le faide e i soprusi continuino in Messico, oltre ovviamente ai cartelli che continuano la loro opera di arricchimento a spese di molti. Pochi a spese di molti. È giusto tutto ciò? È giusto che un bambino nato a Juarez e un bambino nato negli States, ossia a poche miglia di distanza, abbiano diritti così diversi? È giusto che il mondo sia così diverso nell’umanità e così uguale nell’odio razziale? Quando un neonato viene alla luce dovrebbe godere di molti diritti, ma soprattutto di quello di sognare e di poter essere chiunque nella vita; la libertà non va negata, va concessa, estesa. L’uomo nasce libero e fino alla fine deve essere libero di sognare. L’uomo sogna di volare.

venerdì 8 gennaio 2016

FIVE BY FIVE #7 - ALBUM 2016

Il 2015 è finito, non ci sono dubbi su questo, ed è quindi giunto il momento dei bilanci e delle aspettative. Come è stato questo 2015 nella musica? A me è parso un anno con alcuni buoni nuovi spunti dagli artisti giovani e alcune aspettative disattese da quelli meno giovani. 
Per spiegare il mio punto di vista o se preferite d'udito, ho scelto due album che ben (e)semplificano lanno appena trascorso: una mezza delusione e una mezza sorpesa. 
Il primo album è Carrie & Lowell di Sufjan Stevens, veterano del panorama indie (qualunque cosa voglia dire; come è solito dire un mio amico: “quando non sai cosè, allora è indie”). Il suddetto lavoro è un ritorno piuttosto palese allo stile di Seven Swans, uscito più di dieci anni fa. Stevens è sempre stato un cantautore eclettico e questalbum, questo ritorno su sentieri già battuti, sinceramente mi ha un po deluso. Non è stata l'unica delusione del 2015 né la peggiore (coff coff Coldplay), ma sintetizza l'andazzo che hanno preso alcuni musicisti in questi dodici mesi (Carrie & Lowell rimane comunque un ottimo album di per sé, quindi ascoltatelo eh.). 
Mentre i più attempati si abbandonavano alla nostalgia, le matricole non se ne sono state con le mani in mano. La mezza sorpresa di cui parlavo è arrivata da una ragazza al suo secondo lavoro in studio: sto parlando di Grimes che con il suo Art Angels, acclamato da più parti come uno dei migliori album dellanno, ha dato nuova linfa vitale a un genere che ultimamente tendeva noiosamente verso la ripetizione. Il motivo di tanto successo è da ricercare nei suoni totalmente nuovi ed originali, anche se non sempre perfetti, di cui Art Angels è stracolmo, uniti alla struttura classica e riconoscibile del pop. 
E mo? Dopo un anno come questo, cosa aspettarsi dal 2016? Tante, tantissime belle cose. Eccone alcuni.


LCD Soundsystem
È  ufficiale: gli LCD Soundsystem sono tornati. Vi avevo già parlato del mio amore sconfinato verso questa band; se considerate poi che ho cominciato ad ascoltarli praticamente subito dopo il loro scioglimento nel 2010, allora potete immaginare la mia reazione nellascoltare una loro nuova canzone, il giorno di Natale, per giunta. Da lì le voci si sono susseguite fino alla conferma tanto attesa: headliner al Coachella, nuovo album e nuovo tour. Felice 2016.


Radiohead
È stato un Natale a dir poco ricco per gli appassionati di muisca, non cè che dire. Insieme agli LCD è tornato un altro gruppo a cui piace farsi aspettare: il nuovo album dei Radiohead, il nono, non ha ancora un titolo né tantomeno una data duscita, ma dovrebbe essere praticamente pronto. Intanto Thom Yorke e compagni hanno rilasciato Spectre, scartata dalla colonna sonora dellomonimo film di 007. Le atmosfere somigliano a quelle di Amnesiac ma francamente dubito che il nuovo lavoro avrà lo stesso stile. In ogni caso lhype sale e con esso le aspettative verso una band che fino ad ora non ha mai sbagliato un colpo.


Animal Collective 
Al contrario dei gruppi finora citati, non solo la decima fatica discografica degli Animal Collective ha un nome e una data di pubblicazione, rispettivamente Painting With e 18 Febbraio, ma è stato già ascoltato in anteprima. I fortunati (e attenti) viaggiatori che erano allaeroporto di Baltimora verso il finire dello scorso Novembre lo hanno infatti ascoltato interamente attraverso gli altoparlanti dellaeroporto. La leggenda narra che i poveri viaggiatori, già confusi per il solo fatto di essere a Baltimora, vaghino ancora per il terminal in preda a trip allucinogeni. 
Io e suppongo anche voi dovremo accontentarci del singolo Floridada, che è ben strano ma non è la cosa più strana che il Panda, il Geologo, il Diacono e Avey Tare (questo non lo so tradurre) abbiano fatto. Siate pronti, Febbraio è vicino.


David Bowie
Uno degli album più attesi dellanno è in realtà già uscito mentre state leggendo. ★ (Blackstar) è il ventiseiesimo (!) album di inediti per il buon vecchio David. Non credo ci siano da fare presentazioni, come ho detto altre volte, Bowie è uno dei pochi artisti che ha ancora qualcosa di nuovo da dire dopo tanti anni di carriera e lo sa dire molto bene.


Arcade Fire
Questa è più una speranza che unattesa. Gli Arcade Fire pubblicano un album ogni tre anni allincirca, secondo uno schema ben preciso: esce lalbum, segue un anno di tour, uno di pausa e si torna in studio di registrazione. Reflektor è uscito nel 2013 quindi dovremmo esserci. In realtà i vari membri della band sono stati piuttosto occupati di recente, ma alcune date di concerti fissate per il 2017 fanno presagire buone nuove. Intanto riascoltiamoceli, che male non fa.

Questi sono alcuni degli album probabilmente più attesi per il 2016, ma ce ne sono molti altri, alcuni ormai certi, altri spesso senza nome o singoli, altri ancora solo ipotizzati. In attesa delle presidenziali del 2020 Kanye West dovrebbe pubblicare Swish (la prima volta ho scritto Shish, confesso), mentre sono attualmente in studio Vampire Weekend, M83 e anche Damon Albarn è riuscito a trovare spazio tra i suoi millemila progetti per tornare con i Gorillaz. Poi ancora Savages, Wild Nothing, James Blake, Bon Iver, PJ Harvey, The Last Shadow Puppets, Nine Inch Nails e tanti, tanti altri. Ma ne parleremo pian piano, il 2016 è appena iniziato dopotutto.  

Marsha Bronson

martedì 5 gennaio 2016

FLOP 10 FILM VISTI NEL 2015 - SECONDA PARTE



5° POSIZIONE: Un Matrimonio da Favola (2014)
Ripensandoci a posteriori, sono un sadico masochista che gode nel dolore. Non c’è altra spiegazione al fatto che io critichi, ma continui al contempo a ridare una speranza di mediocrità triste che contrasti il pessimismo aprioristico.
Stavolta Carletto Vanzina ci porta in Svizzera, precisamente a Zurigo, per raccontarci una storia tutta nuova, interessante, divertente e coinvolgente: quello che tradisce la moglie con quella ma poi lo scopre ma anche la moglie lo tradiva con l’altro che aveva conosciuto il primo ad inizio film che è sposato con una che è innamorata di uno che in realtà è gay che finge di stare con una che… senza punteggiatura, perché questo film non ha una punteggiatura. Non ha regia, non ha fotografia né recitazione. Non ha stile. Manca completamente del linguaggio cinematografico. Solito problema, solita mediocrità.



4° POSIZIONE: The Last Exorcism (2013)
“Uno dei peggiori horror di sempre. Per trentamila lire il mio falegname lo faceva meglio. All’inizio sembra che il film ruoti attorno ad una coppia che gioca a nascondino in casa e le scene più spaventose risultano quindi essere quelle in cui i due coniugi si incontrano. Fantastico e tristissimo allo stesso tempo. Poi la situazione cambia quando viene trovata una donna (che vuole sembrarci un’adolescente nei comportamenti e nel portamento, ma si vede lontano un miglio che quaranta primavere le ha viste molto bene) che in passato ha partecipato a orge sataniche e in qualche modo è legata al demonio, ma sinceramente, dopo solo una settimana, non ricordo neanche più in che modo. Da qui in poi comincia davvero il film, con la protagonista che oscilla tra innocenza e peccato, castità e contatti col diavolo tentatore.
Film realizzato con pochi spiccioli e soprattutto senza idee. Una tragedia la visione di questo film e davvero mai uno spavento. Ogni tanto ci si dimentica di guardare un horror. Ah sì, poi finisce che diventa Carrie, così, senza spiegazioni, così.”
Rileggendo la recensione mi è tornata in mente qualche sequenza sporadica, ma nulla più. sinceramente non ricordavo di aver visto questo film prima di andare a frugare negli archivi delle RdS. Eppure sono passati pochi mesi, mi stupisco di me stesso. Eppure credevo di avere una discreta memoria. Arrivati a questo punto le possibilità rimaste sono due: o il mio cervello tendenzialmente privo di gravi problemi comincia a tirarmi brutti scherzi, o questo film è talmente brutto da aver innescato un  processo di cancellazione in me. Forse la prima, ma i piedi del podio della FLOP non glieli toglie nessuno.



3° POSIZIONE: Tutto Molto Bello (2014)
Tra il primo e il secondo lungometraggio del conduttore di Colorado sceglier non saprei. Forse questo “Tutto Molto Bello” riesce a non essere fastidioso come il precedente per la scrittura più oculata e per certi versi umana dei protagonisti, specialmente dello stesso “““regista”””. Il problema, come al solito, è la comicità: un film comico che non fa ridere. Situazioni surreali, battute sporche, personaggi disgustosi al limite della decenza umana, Ruffini vestito da Beep Beep. I più fastidiosi però sono in assoluto Scintilla  (mai una risata, solo lacrime) e Angelo Pintus, scadente anche e soprattutto a livello di recitazione. Sembra tutto sbagliato. I tempi, la musicalità delle parole, la regia, la scelta degli attori, Pupo. Ma che ci fa Pupo in questo film? Pupo che oltretutto viene presentato intento a giocare a poker e, visti i suoi trascorsi, ironizzare su una piaga sociale che cresce rapidamente di pari passo con la disoccupazione e che è riconosciuta da anni come vera e propria patologia psichiatrica, beh diciamo che non fa ridere così tanto.
La comicità è un’arte nobile che in parte si possiede una maniera che potremmo dire innata e in parte si acquisisce con lo studio, la preparazione e la vita. il continuo confronto con la quotidianità, con gli altri è alla base della genesi della comicità. Immagino che un individuo, cresciuto per anni in una stanza buia lontana dal mondo, difficilmente possa trovare spunti interessanti per generare ilarità. Ruffini è un po’ un bambino cresciuto per troppo tempo nella sua bolla in cui pensava di essere padrone della risata altrui. E in questo tempo si è anche convinto di saper dirigere.
Ruffini, fai altro. Please. #tuttomoltobrutto



2° POSIZIONE: Amici Come Noi (2014)
Il peggio del peggio. Un oggetto misterioso che fatico a definire film in quanto mera e vuota accozzaglia di Zalone, Ficarra e Picone, Cinepanettone e volgarità gratuite. Un grande e denso di nulla agglomerato di ciò che abbiamo visto finora in queste due FLOP insomma.
A chi è rivolto realmente questo film? Un livello di comicità infimo lo allontana dal pubblico maturo, qualche scena equivoca e qualche battuta volgare invece lo allontanano dalle famiglie. Non riesce a trovare quindi un target adatto. Gli stessi scrittori non sono stati in grado di focalizzarsi su uno spettatore tipo; scelta sbagliata e banale che spesso viene adottata dalle produzioni più infime. Un film per nessuno.
Nonostante mi sia sforzato abbastanza, non ho ancora capito in cosa sarebbe dovuto consistere lo scherzo di Amedeo a Pio; bah, misteri. Una forzatura alla base di una trama che un bambino di dieci anni avrebbe scritto sicuramente meglio. Molte scene non servono e non c’entrano, allungano e irritano. Non una risata. Davvero il “cinema” che NON ci piace. La decadenza continua.



FILM: Torno a Vivere da Solo (2008)
C’ho riflettuto a lungo. Ero tentato di inserire Pio e Amedeo al primo posto (forti anche delle musiche dei Modà dalla loro), ma poi l’odio profondo che provo per questo abominio ha prevalso. Jerry Calà vince, non senza qualche fatica del caso, la mia personalissima FLOP 10 dei filmacci visti nell’anno appena trascorso. Ma soffermiamoci a ragionare per un attimo su questo esempio di anticinema.
Ci prova e ci riprova in tutti modi, ma Jerry Calà non riesce mai a far ridere. Ogni componente che dovrebbe contribuire a realizzare un film all’altezza scade nel trash e nell’incompetenza di una produzione ridicola. Regia imbarazzate, fotografia morta e riesumata dagli anni ’70, colonna sonora molto fastidiosa nella ricerca di atmosfere Radical Chic e poi la recitazione. Un insulto al cinema chiamala recitazione. Qualità generale di bassissima lega che dimostra come Calà abbia realizzato il film solo grazie alle sue finanze e a qualche favore pregresso. Produzione inesistente alla base del progetto.
Ciò che più infastidisce, a parte la comicità a metà tra Colorado (Ruffini) e cinepanettoni (Vanzina), è il tatto con cui vengono trattati temi interessanti quali crisi di mezz’età, separazione, emancipazione femminile, omosessualità, sfruttamento della prostituzione, sofferenza dei figli, incomunicabilità tra genitori e progenie. Ridere di tutto ciò potrebbe essere costruttivo ed intelligente, ma c’è modo e modo di addentrarsi in una determinata realtà e raccontare un problema col sorriso. Ci vuole acume, ci vogliono idee e ci vuole la preparazione necessaria per poter mettere in atto tali idee in una cornice consona. Molte commedie di successo riescono a sfiorare con un guanto d’eleganza problemi ben più profondi. Questo stilema superficiale, banale, scadente e pretenzioso poteva funzionare quarant’anni fa, non oggi e spero non funzionerà mai più. Questo un esempio della comicità cercata e ricercata.
A mai più Jerry.


domenica 3 gennaio 2016

FLOP 10 FILM VISTI NEL 2015 - PRIMA PARTE

E dopo la soddisfacente TOP (che potete trovare qui), ci troviamo purtroppo a parlare dei peggiori visti e recensiti nell'anno solare appena trascorso. A voi ciò che non avrei mai voluto vedere!


10° POSIZIONE: Un Fantastico Via Vai (2013)
"I Laureati" del 1995 è secondo me uno dei migliori film di Pieraccioni e in generale un prodotto carino che con il tempo ha acquisito degli aspetti cult i quali lo rendono ancora oggi godibile. “Un Fantastico Via Vai” era stato annunciato dallo stesso regista toscano come un’evoluzione del sopracitato “I Laureati”; una rivisitazione in chiave più matura, una storia simile vista dagli occhi di un Leonardo ormai adulto e sistemato. Qualcuno potrebbe erroneamente pensare che sia stata questa componente generatrice di aspettative a rendere indegno tale prodotto ai miei occhi. Mesi dopo invece, provando ad analizzare nuovamente la pellicola ho avuto soltanto la conferma del livello infimo della produzione: realizzata con poche idee, poco gusto e molti stereotipi. Lungometraggio a tratti anche fastidioso per il solo fatto di pretendere che qualcuno (come feci io mesi or sono) vada al cinema a rimetterci monete per vedere Pieraccioni fare la solita camminata caracollante.
Il film prova solamente in due scene autocitazionistiche ad avvicinarsi al prodotto a cui dice di ispirarsi, per il resto è una serie infinita di luoghi comuni sul mondo universitario, battute povere di contenuti e ormai trite e ritrite per chi segue il toscanaccio dagli esordi; regia banale e personaggi odiosi. Il buonismo e le finte riflessioni filosofiche del protagonista sono alla base della comicità del film. Un prodotto scadente, una promessa di continuità non mantenuta. Evitabile.


9° POSIZIONE: Andiamo a Quel Paese (2014)
Devo essere sincero: nonostante come comici non mi facciano impazzire, mi ero divertito a guardare “Il 7 e l’8”, loro primo film, e avevo trovato intelligente il modo in cui veniva trattato il tema mafioso ne “La Matassa”. Il terzo invece mi aveva abbastanza deluso, nonostante (anche in questo caso) fossi finito inspiegabilmente a vederlo al cinema. Ma qui Ficarra e Picone sono davvero scaduti nel banale nel tentativo di rigirare la crisi economica attuale cercando di farne motivo di riso. Ficarra perde il lavoro e decide di tornare nel paese d’origine della moglie per vivere con la pensione di una zia. Capendo di poter applicare questo stratagemma anche con altri anziani pensionati, crea una sorto di ospizio nel palazzo in cui vive. Questa la prima parte del film, un po’ prevedibile e un po’ lenta. Ma il peggio arriva dopo. Gli anziani muoiono a causa del cioccolato e rimane solo la prima zia da cui era partito il “sistemone”; a questo punto quindi Ficarra impone a Picone (trantacinquenne nella finzione, quarantacinquenne nella realtà) di sposare la suddetta zia (settantenne). Da qui in poi disavventure mai comiche al limite del grottesco, recitazione scadente, messaggi assai superficiali e negativi e noia infinita. Il loro peggior lavoro che mostra il peggio nella scena finale del matrimonio con la platea-pubblico che ripete ciò che dicono i protagonisti. Comicità da recita scolastica di natale, di quelle che Matteo vorrebbe tanto valorizzare per sostenere “le nostra tradizioni”, ma che obiettivamente rasentano l’imbarazzo generale. Come per le recite, film solo per i parenti del duo.


8° POSIZIONE: La Ragazza Del Mio Migliore Amico (2008)
Commedia americana che vorrebbe ricalcare i successi di altri modelli più famosi, ma allo stesso tempo, sfruttando anche la presenza nel cast del Jim di American Pie, aggiungere una componente demenziale e spinta, legata prevalentemente al sesso, che mirerebbe ad accalappiare un pubblico basso e per lo più giovanile alla ricerca di risate facilissime. Il risultato è un miscuglio grumoso di già visto e di volgarità gratuite. La fotografia e il sonoro dimostrano il discreto budget della produzione, ma questo da solo non basta a fare un buon film, mai. Alec Baldwin cerca poi di risollevare la pellicola attraverso un’interpretazione volutamente sopra le righe, ma non riesce nel suo intento e anzi affonda ancor di più il prodotto.
Questo filmetto da quattro (ma forse di più) soldi, però riesce a strapparmi una considerazione, anziché una risata: ci lamentiamo costantemente del livello infimo che la storica commedia italiana ha raggiunto in questi ultimi anni, soprattutto confrontando la nostra situazione con quella dei paesi concorrenti, specialmente guardando agli Stati Uniti come riferimento alto. Diciamo che “La Ragazza del mio Migliore Amico” conferma soltanto che la crisi del cinema va intesa in senso più generale, e che la commedia classica degli equivoci, per poter riuscire al giorno d’oggi, ha bisogno di un’intuizione alla base che la ponga al di sopra del marasma generale. Questo film non ha intuizioni, né gusto. A mai più


7° POSIZIONE: Un Natale Stupefacente (2014)
Essendo anche nel periodo più adatto a questo filone di film, mi sembra il caso di soffermarci a riflettere in maniera più approfondita riguardo il fenomeno morente e resuscitante dei cinepanettoni. Ogni anno questa tipologia di film tende sempre a guadagnare meno, ma le case produttrici non esitano un attimo a finanziare questi progetti che da qui a qualche anno potremmo definire suicidi. Chissà perché. Intanto dobbiamo sorbirci ogni anno un nuovo strazio firmato Vanzina o Parenti. Stavolta è il turno di “Un Natale Stupefacente”, film visto solo ed unicamente per la presenza di Lillo e Greg, comici molto british (almeno fino a qualche tempo fa) che io apprezzo molto fin dagli esordi di “Latte e i suoi Derivati”. Ho sperato in qualcosa di diverso anche spinto dall’episodio passabile che i due avevano interpretato l’anno precedente in “Colpi di Fulmine). Cambiando regista però, il risultato non cambia, e ciò che ne viene fuori, manco a dirlo, è il solito film di Natale che parte leggermente meglio degli altri, ma finisce comunque con incesti, finzioni e gente che sta con gente ma ama gente e inganna altra gente per stare con la gente che ama davvero. Solito prodotto indecente e insulso sia nel concept primario che nello sviluppo e nella realizzazione. Baracca generale assai ingombrante in cui neanche i due comici romani riescono ad esprimere la loro verve nonsense e rimangono incastrati in una scrittura banale che vorrebbe essere per tutta la famiglia, sì, ma per una famiglia di decerebrati. Ovviamente bocciato. Irritanti e superficiali le figure dei due assistenti sociali prima pro famiglia tradizionali e poi improvvisamente gay, che poi uno di loro è il Libanese di “Romanzo Criminale - La Serie”. Che brutta fine.


6° POSIZIONE: Comportamenti Molto Cattivi (2014)
L’incipit parrebbe abbastanza semplice e intuitivo: un ragazzo si innamora di Selena Gomez (non proprio la prima che capita insomma) e farà di tutto per conquistarla; e, spoiler degli spoiler, alla fine la conquista anche. Il problema sta nel mezzo: madri apparentemente morte, relazioni con le mamme dei migliori amici, la mafia lituana e qualche grammo di meth (non blu) che non guasta mai. Un film che mai mi sarei sognato di guardare, ma, convinto dai primi minuti della pellicola in cui un apparentemente simpatico giovinotto rompe gli schemi e parla alla telecamera di come la sua vita sia andata allo strafascio, ho commesso l’errore di farlo. E che errore! Un’accozzaglia indefinita di teen movie, volgarità, gangster movie, non-sense e battute davvero tristi. Ciò che emerge maggiormente da questo film, scritto evidentemente da un gruppo di ragazzini condizionati da violenti moti ormonali, è il trash che pervade ogni scena, ogni evento che accade, ogni inquadratura. Tutto è ridicolo e lo sviluppo porta anche quelle poche briciole di originalità iniziali a sbattere contro un muro di putridume che fatico a definire cinema. Sconsigliato.