martedì 29 novembre 2016

LE CARTE SBAGLIATE

Il sette di cuori

Il re di picche

Il tre di bastoni

Un disegno imbrobabile

Un cavallo svogliato

In assenza di altro giocai la mia carta




Avevo un pensiero e solo quello in mano, un pensiero mio era quello che restava. Giocavamo da molto, il fumo invadeva la stanza e sbiadiva i colori. Il grigiore unificava il tavolo lercio. Giocai la mia mano, sollecitato da destra, poi da sinistra. Giocai impaurito, poggiai con cautela per non infastidire il signore sulla carta di sotto, ma il pensiero mi tornò in mano. Ancora un invito. Ripresi il pensiero, lo fissai e lo scagliai con forza, convinto di averlo ben impresso al centro dell’attenzione, ma come un boomerang il pensiero mi tornò in mano. Una voce si alzò spazientita. Imbarazzato e colla fronte corrucciata presi deciso il pensiero mio e lo sbattei con forza sulla cima di carte usurate,e lì rimase. Alzai lo sguardo nella nebbia per cercare qualcuno, ma ognuno si guardava bene dal mostrare gli occhi sotto i copricapi sgualciti. Abbassai allora lo sguardo sul tavolo e non trovai più la mia carta; era scomparsa, resasi invisibile sulla pila delle altre. Il gioco continuò. La mia carta si era persa nel fumo di sigaretta e alcool, unificata col tavolo lercio di giocatori perduti.

domenica 27 novembre 2016

DAREDEVIL, SALVINI E LA PISTOLA DI BUONANNO

Mesi fa si è fatto un gran parlare della legittima difesa, della possibilità di scaricare un intero caricatore nella schiena di un presunto rapinatore per poi essere completamente assolti. Il dibattito di un momento, che aveva risvegliato l’opinione pubblica in difesa dei soliti pensionati, dei soliti braccati da Equitalia, dei soliti ultimi incappati nella medesima situazione tipo. Una serie di sfortunati eventi aveva aperto le porte ad un confronto tra diverse fazioni: chi voleva una revisione della legislazione in merito, chi cercava di avere una visione più ampia degli eventi e chi invece aveva approfittato ancora della situazione per carezzare con sguardo avido, bramante di potere, la pancia ignara dell’elettorato più reazionario, quello che non è né di destra né di sinistra, ma genuinamente fascista nell’animo.


Noi di InsideMAD siamo sempre sul Pezzo, sulla cresta dell’onda, come avrete intuito, ma talvolta ci prendiamo dei tempi per riflettere e per cercare di capire le cause e gli effetti collegati ad una complessa situazione e riuscire ad avere un’opinione quantomeno coerente, quantomeno non determinata in toto dalla somma del momento e di ruggini ammuffite nel profondo. Quegli scheletri che ci abitano e aspettano le piccole porte della realtà per mostrare i denti digrignati alla luce della luna. Ma facciamo un passo indietro: Daredevil, seconda stagione.
Personalmente ho apprezzato maggiormente la prima stagione di Daredevil, serie Netflix che ha ristabilito la giusta posizione per i supereroi sul piccolo schermo, per una coerenza narrativa maggiore, per la tangibilità della minaccia corrente e per lo sviluppo controllato e incentrato soprattutto sulla vita da avvocato cieco di Matt Murdock. Ma anche la seconda, pur vivendo di alti e bassi, raggiunge dei picchi notevoli, che presi singolarmente magari potrebbero apparire finanche più intensi rispetto alle sequenze più cariche di pathos della prima stagione. Uno di questi picchi è indubbiamente il duello verbale (e a tratti fisico) tra Daredevil e The Punisher sui tetti in buio e mattoni rossi di Hell’s Kitchen. I due personaggi, contrapposti seppur schierati sostanzialmente dalla medesima parte, si scontrano sul valore della giustizia e sul rapporto che essa instaura con la vita privata del cittadino; come si coniuga la legge scritta rispetto alla realtà che da essa dipende negli effetti. Ci troviamo di fronte a due paradigmi differenti alla base, che propongo due concezioni diverse di giustizia inevitabilmente condizionate dagli sviluppi personali dei due vigilanti della notte. Daredevil, alias Matt Murdock, si rifiuta, nei suoi agguati notturni, di colpire per uccidere, perché ritiene ancora sacro il valore della giustizia come elemento super partes riconosciuto da una comunità che si rifà ad uno stemma,una bandiera un segno comune. Questa scelta di vita lo porta a collaborare con le autorità e a legare indissolubilmente il suo lavoro notturno con quello diurno di avvocato presso la Nelson and Murdock. Dall’altra parte invece, The Punisher, all’anagrafe Frank Castle, segnato profondamente dall’esperienza personale tra la Guerra del Golfo e la morte violenta dei familiari, sceglie di farsi giustizia da sé, seminando il terrore per le strade di New York alla ricerca dei mandanti del massacro che ha coinvolto la moglie e il piccolo figlio. La sua terribile ira sanguinolenta non sarà placata finché la causa del suo inferno in vita non avrà un volto e un nome.
Ci si para dinanzi uno scontro gerarchico tra due modelli societari: uno, quello dell’eroe, pone in cima la legge e da essa fa derivare il comportamento dei cittadini, anche quando questi scelgono di vestire i panni dei vigilantes, l’altro invece, quello dell’antieroe, inverte l’ordine appena descritto ponendo il singolo uomo al di sopra della convenzione comune perché l’unico in grado di esercitare realmente una forma consona di giustizia, quanto più vicina a quella divina.

Giustizia è anche avere le mani legate

Con le dovute proporzioni, senza vigilanti, palazzi insanguinati e avvocati ciechi che combattono orde di ninja, credo possa reggere un paragone tra lo scontro ideologico proposto nella serie tv e il dibattito diffusosi in Italia pochi mesi fa, e mai realmente sedatosi, in attesa di altra legna per alimentare il fuoco dello slogan politico. Abbiamo visto uomini di legge indignarsi davanti alle telecamere perché agli uomini fosse riconosciuta la possibilità di oltrepassare quel limite della giustizia penale in casi particolari, perché fosse invertito l’ordine del reale, per finire in un immaginario in cui la legge non è assoluta, ma muta nel rapporto con l’individuo di situazione in situazione. Abbiamo visto orde di cittadini, non più accomunati dalla bandiera della legalità, ma neanche da quella dell’anarchia, accogliere a braccia aperte queste proposte superficiali perché il momento non ci offriva nient’altro che la rabbia di morti ingiuste.

Non voglio in nessun modo giustificare un individuo che, magari armato, si introduce a casa di altri con l’intento di sottrarre beni materiali che magari hanno avuto bisogno di giornate di fatica e sudore per essere acquistati, anzi. Non voglio neanche colpevolizzare coloro che, in presenza di una presenza estranea in casa loro, hanno ceduto alla paura del momento e hanno fatto fuoco ferendo, uccidendo un altro essere umano. Esiste però una precisa legislazione e, che voi possiate considerarla giusta o sbagliata, modificabile o migliorabile, essa deve sempre essere al di sopra della situazione corrente, per permettere l’uguaglianza, la giustizia e il rispetto di ogni parte coinvolta, anche quando sembra che la ragione sia sbilanciata in maniera assoluta. Perché questa è la società che abbiamo e questo il modello scelto. E se non ci piace, la via è un’altra, quella dell’uomo con la pistola in TV che propone ai suoi concittadini di armarsi per poter essere un giorno in grado di vestirsi di divinità e giustizia per scacciare l’invasore. La vecchia favola, polvere e mandirani del defunto West.

venerdì 18 novembre 2016

X FACTOR, CRANIO RANDAGIO E I DAIANA LOU

Ricapitoliamo: la puntata di ieri di X Factor si è aperta con un omaggio sincero a Cranio Randagio, rapper ventiduenne scomparso pochi giorni che aveva tentato la fortuna alle scorse audizioni del programma, arrivando fino agli Home Visit. La serata era divisa in tre manche dalle quali sarebbero stati estratti i tre cantanti meno votati, di cui solo uno sarebbe rimasto in gara. Doppia eliminazione, se non fosse stato per i Daiana Lou, duo della categoria del novello Soler, i quali hanno deciso, pochi secondi prima del verdetto finale, di abbandonare lo show adducendo a mio parere due motivazioni distinte, una personale e una legata alla costruzione del programma: sarebbero infatti stati eccessivamente caricati di aspettative al punto da smarrire loro stessi nel corso delle ultime settimane e non avrebbero apprezzato l’introduzione del commiato al defunto Cranio nel contesto commerciale di XF. Se sulla prima motivazione non possiamo esprimerci, la seconda ha acceso gli animi degli spettatori e dei giudici, specialmente in seguito agli imbarazzanti momenti morti che hanno seguito l’annuncio del ritiro. In pochissime ore se ne sono dette tante, forse troppe, senza aver probabilmente colto il nocciolo della questione.


La critica può essere più profonda, e passa dall’idea del talent, dalla nostra concezione di celebrità e dalla sottile differenza tra ciò che è giusto e ciò che è accettato. Dove XF mostra il fianco di una costruzione artistica ineccepibile è nei daily, ossia l’appuntamento quotidiano in cui ci vengono mostrate le (dis)avventure dei giovani aspiranti artisti e al contempo ci viene proposta una loro immagine, quella che i produttori e i responsabili del programma vogliono che venga associata ad ogni singolo concorrente. Ed è da questa che si sviluppa poi l’empatia naturale che proviamo per i ragazzi e che ci spinge a votare con il tasto verde del telecomando. Un’empatia naturale che quindi naturale non è. Tutto ciò per promuovere a livello commerciale un programma che si pone due scopi primari: guadagnare dallo show e favorire la nascita di nuove proposte della musica pop; obiettivo, questo secondo, che a sua volta nasconde uno scopo commerciale a favore delle Sony, che detiene i diritti dei concorrenti. Possiamo quindi riassumere che l’intero sistema XF sia una macchina costruita per produrre denaro e che i concorrenti potrebbero trovarsi nelle condizioni favorevoli di emergere attraverso lo show, ma nella maggior parte dei casi rimangono schiacciati dall’ingranaggio della macchina che diventano loro stessi. Contribuiscono, con la svendita della loro immagine e con la fatica di un’aspettativa popolare crescente, ad arricchire le tasche delle stesse persone, guadagnando talvolta un briciolo di visibilità.


In questo sistema, come in generale nel nostro moderno e capitalistico impianto televisivo, tutto è concesso, dalle urla alle risse, dall’esaltazione di storie familiari che fanno audience alla censura nei confronti di Danilo D’Ambrosio, dalle celebrazioni della morte di un  ragazzo ventiduenne al product placement delle Fonzies. Tutto è giusto ciò che porta guadagno, ciò che rimane in linea con la logica dello spettacolo. I Daiana Lou hanno denunciato anche questo, la mercificazione dell’uomo al commercio. La stessa mercificazione che, abbracciando lo show in Toto, ha inglobato nella vendita di prodotti commerciali anche un’iniziativa che voleva essere sincera e trasparente. Il duo di Berlinesi si è posto di traverso rispetto al fiume di denaro che ieri scorreva frusciante e il sistema gli si è rivoltato contro, accusandolo di non saper stare al gioco, di non avere chiare le regole che la competizione comporta, di non avere rispetto per Cranio Randagio - citato, a detta dei detrattori, come giustificazione poco convincente - e per tutti coloro che contribuiscono alla produzione di XF dietro le quinte. Fedez li ha criticati, dimostrando di essere la parte più lubrificata di questa macchina, Agnelli ha provato a giustificare la loro scelta, Soler è rimasto spiazzato, Arisa ha gioito per la sopravvivenza di Loomy, suo adepto. Nessuno si è messo in discussione di fronte ad un’accusa che, pur essendo poco strutturata nella forma, prendeva di mira tutti, giudici compresi, spettatori compresi.
Che ci siano delle regole per stare al gioco della televisione è chiaro, che si debba scendere a patti con questo sistema è ovvio, che questo sistema abbia in sé la verità è alquanto discutibile. Non è un caso che la critica più profonda rivolta a XF sia arrivata da una coppia di ragazzi che finora avevano vissuto nell’accesa Berlino, cantando per strada, senza regole e senza sovrastrutture. È comprensibile come l’animo libero di due persone che hanno scelto di non stare alle norme del consumismo della nostra società malata sia poi emerso alla lunga in un processo asfissiante. Si potrebbe obiettare che due individui così al di là delle convenzioni avrebbero dovuto pronosticare questo percorso forzato, ma tentare e sbagliare fa parte della vita; la perseveranza della sistematicità è ben più condannabile. E se il sistema corrente non fosse l’unica via per l’espressione artistica? E se su quel palco ieri sera due ragazzi avessero avuto ragione e il resto dell’arena torto? Se ciò che è socialmente tacitamente accettato perché all’interno dell’ottica corrente sia profondamente sbagliato?
Ma il complesso è più grande, si sostiene da sé con i numeri e con il contributo di ciò che ruota attorno, come l’articolo di Domenico Naso del Fatto Quotidiano, che definisce la scelta dei Daiana Lou una “Mossa fin troppo ‘Paracula’”, mancando il bersaglio di qualche miglio. Oppure il commento di Michele Monina, sempre dal Fatto.
E pensare che la serata si era aperta con un bel pezzo e con un gran testo che prendeva di mira proprio quel sistema in cui chi è in grado si cedere può vendersi, chi invece non cede è messo da parte, come ha fatto Fedez con i Daiana Lou, come Cranio Randagio.



Ho tolto i sassi dalle scarpe
e levigato i calli
da roma nord fino alle Ande
diventando grande
Ho fatto passi in queste lande
degni dei giganti
per ritrovarmi in ogni caso
a casa fra le carte
E cantami il tuo nuovo pezzo
mi diceva mamma
mentre singhiozzava nella stanza
mi chiedeva di portarle il testo
che non mi capiva poverina
aveva testa altrove
affitto e la benzina
Io che mi detesto perché ho perso anche le tracce di me stesso
faccio tracce su me stesso non vedendo mai una lira
ci litigavo ma è normale
lei mi vuole ai talent
dice che il talento vale doppio quando è in copertina
Non ci arriva che mi dovrei ricoprire di mantelli come Harry fino a scomparire
qua la fama è fieno nel fienile
e se il fattore arriva infilza col forcone fotte tutte le tue aspettative
è facile perire

Io volerò, io volerò via 
come un gabbiano pure se il petrolio mi pesa sul dorso smorzando la scia
io volerò via, io volerò via
perché nel cielo c'è molto di più
che in questa terra sbranata da gru
che in questo oceano sempre meno blu
Dammi un motivo per restare
per mollare l'ancora
qui dove tutto è un detestare
ciò che l'altro fa
Ci hanno oppressi per testare
quanto è forte l'anima
per quanto a pezzi possa amare
un giorno spirerà
cammino fra le spighe come Russel
slacciando le corazze perché non mi serviranno, casa mia è sicura
ma quanto può far male dopo anni di battaglie ritornare a casa
e ritrovare gli affetti in cenere scura?
eh? eh? ma quanto cazzo è dura?
In questa stanza sono tutti
il nuovo Ed Sheeran
la bella voce, la chitarra, la faccia pulita
io che stavo ribaltato fino al giorno prima
triturato sopra un marciapiede a rifiutar la vita
Guarda mamma sono in tv come molti divi
fra chi sta senza obbiettivi tranne il flash di un obbiettivo
ma tra 'sti morti vivi c'ho trovato qualche amico
adesso suona insieme a me
accompagnato da buon vino
E ho fatto buon viso a cattivo gioco
riso del maremoto che mi limitava l'aria
ma intanto fra 50 mila
sto tra i primi 24
ma non sarà certo X Factor
a dirmi quanto valgo
La gente si dimentica
si scorda in un secondo
anche soltanto che tu possa stare al mondo
ma come disse un sommo dall'alto del suo intelletto
non puoi fermare il vento
solo fargli perder tempo

Io volerò, io volerò via
come un gabbiano pure se il petrolio mi pesa sul dorso smorzando la scia
io volerò via, io volerò via
perché nel cielo c'è molto di più
che in questa terra sbranata da gru
che in questo oceano sempre meno blu
Dammi un motivo per regnare
mica una corona
voglio spiccate tra la gente
dirgli che funziona
quando dai tutto per qualcosa
fino alla psicosi
prima o poi si esulta,
te lo giuro si
ci spero ancora
dai spalancami le porte
parlo con te il vero sovrano
di sta roba, quello che ascolta e diffonde
io ho qualcosa di importante
da dovervi raccontare
nessun non ce la farai
vale quanto un non mollare

lunedì 14 novembre 2016

FIVE BY FIVE #18

Niente introduzione oggi per questa nostra rubrica. Trump è presidente degli Stati Uniti, il mondo sta per giungere alla sua tragica conclusione e non c’è tempo per leggere: ascoltate.



Mancano poche settimane alla fine del 2016, ancora meno alla fatidica domanda “tu che fai a Capodanno?” ma, vuoi per i 20 gradi di settimana scorsa, vuoi per l’inspiegabile assenza di premature decorazioni natalizie, tutto ciò non è troppo evidente.
Spesso però non si vede bene che con le orecchie e basta dare una rapida o(re)cchiata ai singoli usciti ultimamente per sentire i passettini di rincorsa del nuovo anno. E infatti On Hold è il titolo del nuovo, appena pubblicato, singolo del trio inglese The xx, fermo ormai da quattro anni, che tornerà il 13 di gennaio con un nuovo lavoro in studio: I See You. Come promesso sembra ricalcare le orme elettroniche di Jamie xx e del suo ultimo album da solista. 



Chi non ama l’R&B bianco un po’ new wave e velatamente erotico degli xx ma preferisce cose più grezze, dovrà aspettare solo un paio di settimane in più. I Cloud Nothing sono tra le realtà “punk” più interessanti di questi anni: rumorosi ma tutto sommato eufonici, indie ma anche un po’ pop. Un miscuglio di contraddizioni da cui sono però nati lavori notevolissimi come l’ultimo Here And Nowhere Else di due anni fa e si spera anche il prossimo Life Without Sound di cui Modern Act è il primo, accattivante singolo.



In questi giorni si parla tanto di Trump e della catastrofe imminente che si abbatterà sugli States, ma c’è chi è messo peggio, fidatevi. In Iran, ad esempio. Lì se suoni techno ti sparano, ad esempio. Quindi se sei un giovane aspirante dj nell’antica terra di Persia e la neomelodicaautoctona non ti garba troppo, hai poche possibilità:
- la rischi suonando clandestinamente e magari ci fai anche un documentario;
- immagini solamente la tua musica senza suonarla, come hanno fatto John Cage o Yoko Ono (o almeno così dicono loro);
- ti trasferisci.
Il nostro Kasra V ha scelto – saggiamente, forse – per la terza e ora abita a Londra, da cui pubblica di tanto in tanto pezzi pazzeschi come questo.



Sono stato ad un live dei Sigur Ròs la scorsa estate e in mezzo ad una marea di gente in piedi, immobile, con gli occhi lucidi fissi sul palco ho pensato che il post-rock non è morto, è solo poco socievole. E con un po’ di attenzione si riesce ancora a pescare qualcosa di buono. Dico pescare perché Honey, l’album di debutto dei Peals nella sua edizione limitata va letteralmente pescato da un barattolo di miele. Dal singolo Become Younger però, sembra proprio che un ascolto integrale le vale delle dita appiccicose.




No non avete letto male, si chiamano proprio A Tribe Called Red e non hanno nulla a che fare con il celebre trio hip-hop quasi omonimo (che intanto annuncia il ritorno). Innanzitutto non sono americani ma canadesi e nemmeno fanno hip-hop anche se, quando ci provano, dimostrano di esserne capacissimi. R.E.D. ha la straordinaria capacità di essere un brano a suo modo sofisticato, con campionamenti raffinati ma allo stesso tempo conserva quell’arroganza – gli americani dicono “attitude” che fa tutto un altro effetto – tipica della cultura musicale a cui fa riferimento.

sabato 12 novembre 2016

TRUMP E LA VITTORIA DEI TROPPO FURBI

Abbiamo vissuto di peggio, non c’è bisogno che io elenchi eventi di portata maggiore. Ma l’elezione di Trump alla Casa Bianca ha fatto molto rumore, e ancora i cocci della democrazia intelligente sono sparsi sul viale che camminiamo tutti assieme. Se questa è la democrazia l’avevamo sovrastimata, ingigantita per qualche tempo, ma è sempre stata questa.


Sono sinceramente lontano da Trump. Ogni volta che indica il Sole ci vedo la luna. Mi rispecchio nella sua nemesi, quella che abbiamo perso con la fine delle ideologie. Ciò che mi colpisce nel profondo, mi disgusta e mi porta ad una considerazione della quale facciamo parte anche noi Europei è legato alla vittoria di un modello popolare sulle idee che avevamo quando costruivamo il mondo che abitiamo oggi. Portiamo avanti da sempre una regola. Esiste un metro per misurare i passi, uno per valutare le reazioni, uno ancora per comprendere le intenzioni. Abbiamo applicato una norma a ciò che ci circonda perché tutti abbiano un approccio simile alla situazione e su di esso si possa costruire un dialogo collettivo. Da sempre seguiamo una regola scritta o legge, nata dal lavoro degli stessi sottoposti alla punizione prevista dalla carta. Non arriva dall’esterno, siamo noi ad aver generato i limiti umani ai quali crediamo, ma non possiamo fare a meno di questa struttura sociale che ci guida nel mondo. Siamo condizionati nell’inconscio da ciò che sappiamo essere male e ciò che invece dovremmo perseguire come bene, nostro e di chi ci circonda. Eppure viviamo di strappi alla regola: abbiamo un bisogno tangibile di infrangere le norme che ci costringono per poterci esprimere, altrimenti ci sentiamo oppressi. Operiamo questa necessità in due modi: sbandierando ai quattro venti le nostre malefatte, quando non sentiamo plausibile la sanzione, oppure agendo nell’ombra, ma un’ombra però visibile a chi vogliamo che noti la nostra infrazione. Il superamento del limite alla giuda appartiene al primo caso. L’automobile è un ottimo esempio di mezzo d’infrazione perché possiede le caratteristiche strutturali per rendere la soglia dell’illegalità facilmente raggiungibile e quasi desiderabile. Talvolta ci fingiamo di fretta proprio per poter superare di qualche inezia il limite che un cartello ci impone, e questa pratica è così socialmente accettata che ragioniamo in massa escludendo colui che scioccamente ancora segue le indicazioni del regolamento, quasi che la norma fosse invece il contrario. Ma continuiamo a temere gli autovelox e i posti di blocco, perché in fondo sentiamo ancora di essere costretti dalla normativa che tanto amiamo infrangere.
L’evasione fiscale invece appartiene al secondo caso, ossia a quelle delle azioni illegali che vengono compiute nell’ombra della fama negativa. Eludere la tassazione è meno socialmente accettato, ma, in questi ultimi tempi, ha generato una reazione contraddittoria nella società, quasi a voler glorificare i paladini dell’illegalità per la loro capacità spiccatamente sovversiva. In ogni caso, sia nel primo che nel secondo, abbiamo associato a questi individui una specifica categoria sociale, quella dei “furbetti”. Sono furbetti quelli che superano i limiti e rallentano prima dell’autovelox, quelli che evadono le tasse nonostante il loro reddito superi di gran lunga la media nazionale, quelli che saltano le file con un escamotage imbarazzante, quelli che viaggiano sulla corsia d’emergenza, quelli che arrivano ad occupare determinate posizioni in un’azienda grazie alla loro compravendita di favori. Tutti eventi con un diverso grado di tolleranza in società, ma che si trascinano dietro una scia d’ammirazione popolare. Ciò che però abbiamo sempre preteso è il rispetto di queste norme da parte delle figure di potere, da parte di coloro che nella nostra mente potrebbero avere la legge dalla parte del manico, essendo loro stessi la legge. Pretendevamo in passato che i politici fossero l’esempio della trasparenza, poi abbiamo smesso di farlo, concedendo loro altre occasioni, abbassando le richieste e di conseguenza anche il valore dell’istituzione politica. Il cittadino non cambia quando entra a far parte del sistema politico, ma si genera un’aura che lo circonda. È il potere, che dà, ma richiede un impegno ed una dedizione sovraumani. Quest’aura sta svanendo.

Durante la campagna elettorale americana ha fatto molto discutere un’inchiesta economica legata alla figura di Trump secondo la quale l’imprenditore statunitense non avrebbe (legalmente) pagato le tasse per diciotto anni, sottraendo allo stato una cifra vicina ai 900 milioni di dollari. Trump ha ammesso questo basso escamotage e ciò non ha fatto altro che fortificare la sua posizione sociale, sopraelevandolo a rappresentate dei furbetti americani. È riuscito a mescolare le due categorie di cui sopra, sbandierando pubblicamente un comportamento negativo, al limite della legalità e decisamente contro produttivo rispetto alle sue proposte economiche. Ha trasformato definitivamente l’infrazione oscura in meritocratica infrazione pubblica. La reazione della popolazione americana a questo comportamento ha dimostrato definitivamente la direzione della società verso un rifiuto delle norme civili in un periodo di forte regressione sociale e culturale. La vittoria di Trump segna definitivamente il trionfo dei furbetti dall’asso nella manica, di coloro che non si preoccupano di sporcarsi le mani per perseguire un bene, che quasi sempre è un bene personale. La politica non ha più bisogno della legalità, di un linguaggio diverso, di una postura ordinata. Abbiamo perso tutti.

mercoledì 9 novembre 2016

LA FINE DEI COLDPLAY

"Bones sinking like stones
All that we've fought for
Homes, places we've grown
All of us are done for

We live in a beautiful world
Yeah we do
Yeah we do
We live in a beautiful world”

Si apriva con questa sottile, bipolare “Don’t Panic” il primo album dei Coldplay. Era il 2000 e Parachutes portava alla ribalta quattro ragazzi inglesi dalla faccia pulita. Pulita come la pulizia che contraddistingueva ogni brano, dalla già citata apertura a “Shiver”, dai successi planetari “Yellow” e “Trouble” alla dolce “We Never Change”. Il primo album non era spinto e sostenuto solamente dall’effetto novità, come spesso accade, ma aveva in sé un’anima, una vita propria. Un complesso di situazioni di vita che Chris Martin e compagni avevano infuso nelle parole e nelle note di ogni brano. Questa essenza impressa nelle parti luminose e oscure del leggero mappamondo richiedeva all’ascoltatore di mettere in gioco delle emozioni personali per mescolarle autonomamente con quello che già c’era e ricavarne un’esperienza unica. Perché è questo ciò che distingue la musica fruibile nella distrazione mattutina da quella a cui affidare i propri giorni più bui e le giornate indimenticabili, che nella vita sono appena quattro o cinque, il resto fa volume.


I primi Coldplay erano questo, tra armonia e poesia, alla ricerca di un rapporto diretto con l’ascoltatore, allontanandosi dal commercio basso di emozioni tutte uguali. I testi di Parachutes riuscivano a tradurre in musica l’interiorità dello stesso Martin, un’interiorità segnata da esperienze complesse e contraddittorie. Parachutes era un flusso di vita e sofferenza, un toccante inno alla meraviglia della vita passando tra i rovi in cui il tempo ci incastra. Viviamo in un mondo meraviglioso, nonostante le brutture, nonostante le difficoltà, la devastazione delle guerre, le morti innocenti, la perdita di senso che viviamo. Nonostante tutto.
Se tutti questi meriti possono essere attribuiti a Parachutes, lo stesso non può essere fatto per i lavori successivi, o meglio, con il passare del tempo i Coldplay si sono gradualmente allontanati sempre più dal modello vissuto attraverso il primo album per voltarsi alla produzione di massa. “A Rush full of Blood” riusciva a migliorarsi dal punto di vista musicale, ma non a toccare le stesse corde sensibili del primo. “X & Y” invece sembrava riprendere appieno lo stile delle origini, seppur mancando alcuni colpi. La vera svolta di è avuta con “Viva la Vida”, che cercava di spaziare maggiormente dal punto di vista musicale con l’introduzione di nuove sonorità ed una costruzione del brano rivista, ma abbandonava definitivamente il rapporto diretto con lo spettatore. Nonostante la decisa svolta verso l’anonimato emozionale, i Coldplay riuscirono, a mio parere, a produrre in questo periodo una perla all’altezza dei primi fasti: “Death and allo of his Friends”. Una ballata carica di coraggio, vita e amore per il mondo che sfocia in un travolgente grido finale:

“I don’t want to battle from beginnig to end
I don’t want a cycle of recycled revenge
I don’t want to follow death and allo f his friends”

Poesia che, con un semplice pronome personifica e allarga il mostro della morte a tutto ciò che va contro il genere umano e la sua natura iniziatica. Cedere alla banalità della ragionata morte artistica è esso stesso un amico della morte. Processo che si concretizzò definitivamente con “Mylo Xyloto”, album oggettivamente impersonale, condito da parole non indimenticabili e da un duetto con Rihanna (“Princess of China”) che risulta così lontano dalle sussurrate, impacciate e imbarazzate origini da sembrare addirittura irriconoscibile per gli amanti dell’intimismo di Martin.


Con "Ghost Stories", almeno a mio parere, la band è riuscita a ritrovare una via d’espressione originale e unica virando verso sonorità elettroniche (“Midnight”) e personalizzando l’opera sulla figura del cantante. Alla base di questo ulteriore cambio di rotta infatti la ricerca di Martin di un canale di sfogo di alcuni sentimenti maturati dopo la rottura con Gwyneth Paltrow. Un artista che apre le proprie vene per portarci nel suo cuore calpestato e stritolato.
Arriviamo così all’ultimo “A Head Full of Dreams”, scempio ormai noto a tutti. Un prodotto che dietro i beat accattivanti e i rumori fastidiosi nasconde il nulla. Nessuna storia, nessun dialogo sopito da risvegliare e amare, nessuna passione per l’eterna frizione umana tra gioia e dolore, solo la superficiale voglia di agitare le folle al ritmo di sonorità ripetute tutte uguali. Il passo esatto nel precipizio attorno al quale il gruppo camminava pericolosamente da anni. È in questa flessione ideale che i Coldplay hanno fallito, nell’aver mancato di ripetersi nella comunicazione sincera di emozioni personali. Potremmo dedurre che questa sia la fine dei Coldplay, soprattutto alla luce delle dichiarazioni che spalancavano la porta all’ultima fatica. Ma, se c’è una cosa che ho imparato da questi ragazzi che ho amato alla follia, è proprio il messaggio del brano che porterò sempre con me. “Everything’s not Lost”. Nulla è perduto, quando non vedete un futuro, quando attorno a voi non trovate altro che densa oscurità, quando la notte sfiorate solo il muro freddo nel silenzio. Nulla è perduto, ma nulla dura per sempre, e forse anche i Coldplay hanno fatto il loro corso glorioso. Questo non cancella un passato meraviglioso e indimenticabile, una storia d’amore per la vita che abbiamo vissuto anche noi e alla quale ci siamo appassionati. Non cancella una parte delle nostre vite, perché ciò che i Coldplay sono stati non andrà mai perduto. Everything’s not Lost.

venerdì 4 novembre 2016

FINALE

Siamo giunti finalmente alla fine di questa storia. Abbiamo incontrato alcune persone, qualche personalità e molti personaggi.  Facciamo così: avete presente quei film in cui alla fine una voce narrante tira le fila del discorso e racconta ciò che è venuto dopo? Le mie lettere la parola, le immagini la vostra fantasia.

Marco ha lasciato l’università per cercare lavoro, ma questo si era nascosto bene. Non l’ha trovato ed è tornato a studiare.

Luca continua a tornare tardi la notte. La madre lo rimprovera, il padre non si vede. Ormai il ragazzo è diventato un essere mitologico: metà uomo e metà buio.

Marika ama ancora Luca, ma sempre di nascosto. Ha detto che un giorno gli parlerà, forse non si vedranno più. Orari diversi.



Giulia si è trasferita nella vecchia casa della nonna. L’ha riarredata all’Ikea e ora ci vive con due gatti e un pesciolino rosso. Adesso la boccia è più grande. Ogni tanto guarda la carta da parati alle pareti, una carta un po’ chic, ma le ricorda la saggia donna che si dondolava in soggiorno, e questo la fa sorridere, anche quando sente il peggio.

Matteo non parla più a Marco da quel giorno dai toni accesi, ma spera che le cose possano sistemarsi. Intanto continua a studiare, a scrivere canzoni per il gruppo di Laura, a credere che il mondo potrebbe essere migliore. Intanto fa la raccolta differenziata.

Greta e Tommaso si sono lasciati dopo poco tempo. Quello che era un amore travolgente si è consumato in meno di un’estate. Ma forse è meglio così, lui votava a destra, lei aveva il poster di Togliatti in camera.

Laura sapeva della partenza di Riccardo. Ha cercato in tutti i modi di trattenerlo, di fargli cambiare idea, di convincerlo che la libertà è anche qui, ma il vento soffiava verso est. Ora ha tappezzato la città di volantini alla ricerca di un bassista.

Monica ed Enrico si sono sposati, contro tutti e tutti. Una cerimonia sobria, tranne forse che per la cover riarrangiata da Laura di One dei Metallica dopo l’eucarestia. Oggi dovrebbero tornare dalla luna di miele. Spero che il loro fuoco arda per sempre.

Jacopo fotografa ancora quella ragazza con i capelli rossi che abita di fronte. La ammira quando si scioglie i lunghi capelli e li pettina leggera. Un po’ arte, un po’ poesia. Un po’ passibile di denuncia.

Giacomo ci ha lasciati, alla fine non ha vinto, ma non ha neanche perso. Chi può rimproverarti dopo una prestazione del genere? Dopo una vita del genere?

Anna ha in grembo un frutto e uno lo mangia. La chiamano fame da gravidanza, altri “Comincio da lunedì”. Pochi giorni fa ha trovato il coraggio di dirlo ai genitori mentre passeggiava per le colorate vie del centro, ma nessuno ancora conosce l’identità del padre. Qualcuno giura sia Luca, Luca giura sia la Forza. Quando la passione prende il sopravvento.

Francesca è fissa. Ha un lavoro fisso, anche se modesto, un posto fisso al cinema ogni settimana, il CD degli Of Monster and Man fisso in macchina. Quello che le manca è solo un po’ d’amore. Fisso.

Ettore ha lasciato il locale che aveva preso con Giulia, forse non era il suo sogno. Ha riallacciato i rapporti con Matteo dopo tanto tempo, ora vorrebbe tornare a scrivere a quattro mani come facevano un tempo, che sia questo il suo sogno?

Margherita, la ragazza con i capelli rossi della finestra sul cortile di Jacopo, sogna e continua a sognare. Un giorno si sveglierà, senza molti fronzoli sparsi per il mondo, ma avrà sognato bene.

Qualche sera fa si sono ritrovati da Giulia. C'erano tutti o quasi. Mancavano gli sposini, Marco (per evitare di incontrare Matteo) e ovviamente Riccardo.

Riccardo ha lasciato tutto ed è partito all’avventura, senza neanche salutare. Tommaso e Giulia sono andati a casa sua e hanno trovato un biglietto attaccato alla porta “Vado, forse torno”. Forse tornerà, forse no. Forse rimarrà per sempre perso in questo intreccio di sguardi che chiamiamo vita. Questo luogo in cui restare per sentire ancora il sangue correre e trepidare. Quel percorso che ha condiviso con gli altri personaggi di questa storia e oggi sta condividendo su qualcun altro. Sempre sotto lo stesso cielo.
Ma la storia non finisce qui. Lo spirito che ha animato loro continuerà a fluire di racconto in racconto, di pioggia in pioggia, e ciò renderà immortali tutti noi che ogni giorno balliamo insieme, in cerchio.