giovedì 23 aprile 2015

NBT: ARCADE FIRE

Buon pomeriggio gente! Superato il lungo momento di completo e assoluto panico derivato dalla notizia di essere stato prescelto per avere l’onore di scrivere su questo blog, ho deciso di buttarmimici… buttarmicici… di accettare la sfida. Cominciamo.


Conoscete gli Arcade Fire? No? Male! Continuate a leggere. Si? Bravi! Continuate a leggere.
È difficile definire uno stile musicale per una band eclettica come questa. Le sonorità variano da un album all’altro, ogni volta sintetizzando “vecchi” suoni e nuove influenze. Ciò che li caratterizza e li rende davvero unici è il loro suono. Sette (o più) musicisti polistrumentisti che creano una moltitudine di sfumature sonore spesso così diverse ma amalgamate insieme così bene tra loro che risulta difficile per chi ascolta scindere le varie componenti. È come ascoltare un unico flusso sonoro proveniente da un qualche magico strumento. Forse sto esagerando, o forse no. Quando la musica riesce a catturarti, a “muoverti dentro”, credo che chiunque l’abbia composta possa ritenersi soddisfatto. È qualcosa di metafisico, in un certo senso,  che va al di là della bravura tecnica che pure non manca all’eptetto(?) canadese.
Ora però bando a tutta questa filosofia, prendete un bel respiro profondo e tuffiamoci in questo “Ocean of Noise”.


Funeral. Due parole: uno dei migliori album d’esordio di sempre. Sono 8 parole, dite? Be’ fa lo stesso. Dopo i buonissimi risultati di critica dell’Ep eponimo, Win, Will e tutta la compagnia debuttano con un vero e proprio album. Se non avete mai ascoltato gli Arcade Fire (sciagura a voi!), questo è il punto di partenza perfetto. Funeral sintetizza alla perfezione tutto ciò che è il loro suono: barocco ma allo stesso tempo leggero e piacevolissimo all’ascolto. Ci sono tracce energiche (“Wake Up”, “Neighborhood #3”, “Rebellion (lies)”),  veri e propri muri sonori che investono e trascinano fino alla fine con quell’entusiasmo che pochi sanno dare alla propria musica; altre (“Haiti”) in cui si fa sentire la grande influenza della musica caraibica (Régine Chassagne, violinista, voce, ecc.ecc. della band nonché moglie di Win, è nata ad Haiti) e che riescono dolcemente a portare la mente in quei luoghi. Il tutto amalgamato alla perfezione.
Giusto per essere chiari, gli Arcade Fire sono stati “sponsorizzati” sia da David Bowie che da Chris Martin (che si contendono la bella scoperta), sono prodotti dalla Merge Records (la stessa dei Neutral Milk Hotel e degli Spoon) e Funeral compare praticamente in tutte le classifiche dei migliori album del decennio 2000/2010. Nella top 10. Insomma, ragazzi, sono da ascoltare. Punto.


Dopo ben tre anni (che diventeranno una pausa “canonica” tra i vari lavori) la band si riunisce in una chiesetta in Canada riarrangiata a studio di registrazione, e qualche mese dopo viene alla luce il loro secondo album: Neon Bible. È  un album che spiazza specialmente al primo ascolto, sia musicalmente che tematicamente, molto diverso dal precedente e proprio per questo forse più interessante e affascinante. Spiazza perché è sostanzialmente un album americano e, aggiungo, un album americano di una band canadese. La musica è fortemente influenzata dalla cultura stelle e strisce e dai suoi cantautori, uno su tutti Bruce Springsteen (ascoltate “(Antichrist Television Blues)” e ditemi se non starebbe benissimo in un album del Boss), e lo sono, in modo diverso, i testi. L’idea tematica di fondo è l’analogia tra l’Oceano e la Televisione, entrambi “enti” impossibili da controllare che risucchiano in maniera più o meno figurata l’individuo. Ciò che rende l’album a mio parere indimenticabile è però la poesia di alcune delle canzoni, e non parlo solo delle liriche, ma di tutto l’insieme. “My Body Is a Cage” e, soprattutto, “Ocean  of noise” più di tutte rappresentano quello che lo stesso Win Butler ha definito “il rumore di una notte nell’oceano”.


Bisogna però aspettare il 2011 per vedere riconosciuto il loro talento. La Recording Accademy ha un istante di lucidità e The Suburbs, terzo lavoro in studio dei canadesi, vince il Grammy come album dell’anno. Non gridate troppo presto al miracolo però. The Suburbs, pubblicato nel 2010 (ricordate i 3 anni?) è infatti il più accessibile tra tutti i lavori in studio della band. Le influenze esotiche sono minori, gli strumenti utilizzati più tradizionali, gli arrangiamenti meno sperimentali, in linea con lo spirito dell’album: un ritorno ideale all’infanzia e quindi alle origini (Win e Will sono cresciuti in periferia). Il risultato è in ogni caso ottimo: quasi un’ora di musica che fila piacevolmente tra pezzi più tranquilli (“Wasted Hours”, “Modern Man”) e pezzi più veloci (“Ready to Start”) o addirittura frenetici (“Month of May”). Poi ci sono veri e propri capolavori, due su tutti “City With no Children” e “We Used to Wait”.


Reflektor. L’ultima fatica dell’eptetto (lo so, lo so, non esiste questa parola ma mi piace troppo) è probabilmente il loro lavoro più inusuale. Frutto di un ritiro in un castello in Jamaica, è zeppo di influenze a prima vista inconciliabili tra loro. Da una parte, ancora una volta, la musica caraibica, in particolare haitiana, e a voler essere proprio pignoli la cosiddetta “Rara music” (musica popolare haitiana, suonata con trombe, campane e altri oggetti metallici), dall’altra la musica elettronica/new wave. Ciò che ne risulta, neanche a dirlo, è un altro stupendo album da tutti i punti di vista. La musica riporta ai primi anni ’80 (New Order, B-52) con quel tocco di esotico che rende tutto più intrigante, mentre le temtiche e i testi sono più cupi: amore e morte, esemplificati dal mito di Orfeo e Euridice, in qualche modo protagonisti del doppio album. Un insieme di componenti opposte che si completano nell’ennesimo bellissimo lavoro.

Che posso dire, il miglior gruppo del nuovo millennio? Be’ ditemelo voi.


Davide Quercia

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