In questi anni abbiamo perso interesse per l’attivismo
diretto e la tecnologia ci ha resi sedentari a discapito di una voce popolare
che si affievolisce. Il cinema è sempre stato specchio della realtà, con alcune
eccezioni: nei primi anni settanta, in Italia abbandonavamo la commedia
nostrana, ormai vuota, per ridere con gli spaghetti western e riflettere con i
film più impegnati, politicamente attivi sotto una veste educata ed elegante.
Pellicole storiche come “Indagine su un Cittadini al di Sopra di Ogni Sospetto”,
“Amici Miei” e le opere di Pasolini. Anche le produzioni straniere non erano da
meno, forti della possibilità di spaziare in diversi generi per tradizione e
questioni finanziarie. Anche l’America capitalistica riusciva a proporre un
dibattito politico sostenuto da capolavori della cinematografia, ormai pezzi di
storia.
Ma i tempi corrono e le società mutano costantemente
verso un equilibrio instabile, ma accettabile per la maggioranza della
popolazione. Ci siamo così ritrovati a credere di poter separare la vita dal
continuo e acceso fuoco dell’impegno politico. Abbiamo pensato di costruire uno
strato superficiale fatto di superficialità che ci allontanasse dalla
preoccupazione del futuro condensata nella mancanza di certezze, che emerge dalla
funzione dialettica di un confronto acceso in cui non pare esistere una risposta
univoca. E questo scudo di cartone è diventato il nostro modo di vivere il
mondo, allontanando le questioni cocenti e limitando il raggio d’azione delle
nostre possibilità di pensiero. Preferendo la bassezza vicina alla magnificenza
lontana dalle nostre menti. In questo frangente, anche il cinema, specchio del
reale, ha risentito pesantemente della nostra chiusura, abbandonando lentamente
l’impegno politico e sociale per una funzione di puro intrattenimento che non
richiede particolari sforzi allo spettatore. Esistono però delle eccezioni,
esistono sempre delle menti che scelgono di andare controcorrente e di
infrangere il fiume di incoscienza in cui navighiamo senza meta né consapevolezza.
“Circle” è un esempio delle eccezioni che dimostrano la vita cerebrale del
genere umano sotto tonnellate di pubblicità, disinformazione disinteressata e
ignoranza ostentata.
La struttura è molto semplice: cinquanta persone si
risvegliano in una stanza circolare e ad ognuna di loro è assegnato un posto in
piedi che non possono lasciare per nessun motivo, pena la morte immediata. Ogni
due minuti un timer comincia a scandire il tempo che passa in maniera sempre
più frenetica, per poi uccidere uno dei cinquanta con una scarica elettrica.
Poco dopo l’inizio del massacro, i malcapitati individui si rendono conto di
poter controllare le uccisioni attraverso un sistema di votazione anonima. Da quel
momento in poi si apre il dibattito più acceso riguardante il ruolo degli persone intrappolate, la loro collocazione e l’utilità che essi possono avere al di fuori
della stanza circolare. Il cerchio ha la capacità di far emergere la realtà
bruta e violenta sopita sotto le maschere che l’uomo giornalmente indossa. Un volto
animalesco fondato sull’istinto di sopravvivenza.
All’interno della stanza della morte spiccano personalità
di ogni razza, ceto sociale e religione, quasi a voler confermare la presunta
natura sperimentale dello straordinario evento. La multiculturalità che oggi
fiancheggiamo con orgoglio o denigriamo con lo sdegno che si confà alla
situazione corrente, potrebbe mettere alle strette i malcapitati, presi nella necessità di trovare
alleati nella composizione dei cinquanta per cercare di arrivare vivi alla fine
o per far valere la propria umana posizione. L’avvicinarsi della morte ridà
alle personalità presenti nella stanza circolare un’aura politica, intesa nel
senso più lato del termine di rapporto tra individuo all’interno di un gruppo,
una società, una comunità prossima al collasso. Emergono così limiti, paure e
maschere ormai incastrate a vita sui volti dei più finti. Attraverso questa struttura relativamente semplice, “Circle” rimette in gioco la necessità di dare voce alle dinamiche relazionali presenti
nella nostra società, al di là degli slogan di partito e delle avventure che
vogliono lo spettatore esule sull’isola della noncuranza. Perché la natura
propria del dibattito è la curiosa capacità di autoalimentarsi all’infinito,
mostrando problematicità sempre nuove, ma sempre ricorrenti, nella storia dell’uomo.
Perché, se non abbiamo imparato dal Secolo Breve, c’è ancora bisogno di
parlarne e di tenere viva la voglia di un futuro migliore, la speranza di una
società rinnovata.
Chi sopravvivrà al cerchio? Il padre di famiglia, la
coppia misteriosa, il politico del sud o la bambina? Chi merita di vivere
quando ne deve rimanere solo uno? Cosa sareste disposti a fare pur di rivedere
la luce del Sole?
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