Siamo abituati al sovrannaturale, allo slasher, al
teen-slasher, al gore, al fantathriller, alla fantascienza. Siamo abituati a
combinazioni multiformi di questi generi. Siamo abituati a catalogare ogni
evento che ci accade, ogni momento, ogni film che vediamo; eppure non riusciamo
a collocare questa pellicola senza perderci una parte della sua anima. Perché “Don’t
Breathe” - arrivato a noi come “Man in the Dark” - riesce, nella sua semplicità,
a innovare e dare freschezza ad un filone di thriller claustrofobici di cui
avevamo perso notizia.
La trama è molto semplice nella struttura: un gruppo
composto da una ragazza e due ragazzi adocchia il colpo della vita nella figura
di un reduce dalla guerra in Iraq che vive solo, in un quartiere isolato e
custodisce in casa un’ingente somma di denaro consegnatagli come risarcimento
per aver perso la vista in Medio Oriente. Rubare dei soldi ad un anziano cieco e
solo sembrerebbe più facile di rubare le caramelle ad un bambino. Ma non
bisogna assolutamente sottovalutare le risorse di un ex militare. Espressa in
questi termini la trama potrebbe sembrare spoglia, ma andare più a fondo nella
spiegazione delle dinamiche che poi si formeranno nell’abitazione potrebbe
rovinarvi un prodotto diverso, tutto da scoprire.
Sostanzialmente il film si svolge in un solo luogo,
ovvero la casa del rapinato, ma nonostante questo il regista, il giovane Fede
Alvarez, riesce a ricostruire e a caratterizzare in maniera assai diversificata
diversi ambienti e situazioni al punto da allargare gli spazi e ampliare le
possibilità del film. Ogni scena è infatti intrisa di un gusto particolare che
cerca di sperimentare nel genere, magari andando a citare alcune opere che
hanno segnato il cinema horror negli ultimi anni (riferimento a Cujo su tutti).
Attraverso questa profondità innovativa, raggiunta soprattutto attraverso le
capacità tecniche, Alvarez riesce a dare un volume ad una storia di per sé piatta
e poco significativa.
A fare da padroni però sono il ritmo, incalzante e
sostenuto, e la messa in scena, funzionale all’oggetto o la stanza che i
protagonisti dovranno raggiungere. Il ritmo in particolare prende lo spettatore
dal primo attimo, fin da quando le sequenze iniziali di presentazione dei
personaggi non fanno presagire grandi scossoni all’orizzonte. Da quel momento
in poi “Don’t Breathe” è un’escalation di pathos ed emozioni forti che
coinvolgono lo spettatore e lo immergono appieno nell’opera. Lo fanno sentire
nella casa dell’anziano reduce di guerra, lo costringono a trattenere il
respiro. Nell’articolo ho voluto deliberatamente usare il titolo originale perché,
a dispetto della locandina raffigurante la protagonista femminile, credo
fermamente che l’imperativo “Don’t Breathe” sia rivolto allo spettatore e all’effetto
che il regista aveva intenzione di provocare in sala. A mio parere questo
obiettivo è stato pienamente raggiunto in un’opera sì puramente d’intrattenimento,
ma che fa della qualità visiva e costruttiva lo strumento attraverso cui creare
il legame con lo spettatore. Non ci troviamo di fronte ad una pellicola banale
e scontata, ma tutto è in bilico, tutto è determinato dal particolare.
È lo stesso impareggiabile ritmo a fungere anche da copertura
per gli errori di sceneggiatura, le forzature e i buchi di trama che il film
presenta. Spesso infatti vi ritroverete a vivere pienamente una determinata scena
e la costruzione logica dell’insieme rappresentato passerà in secondo piano. Soltanto
in un seondo momento potrete ricostruire l’accaduto concentrandovi sugli
errori, purtroppo talvolta grossolani, che stanno alla base dei difetti
principali di quest’opera imperfetta. E lo farete solo in un secondo momento perché
il ritmo, le atmosfere, le interpretazioni e l’ambientazione del film vi hanno
portato ad immergervi completamente nella storia, e, quando ci si ritrova in
una questione di vita o di morte, non sempre si ha il tempo di valutare
eventuali errori di sceneggiatura.
Un film che difficilmente otterrà l’attenzione che
merita, ma che dovrà ottenere la vostra attenzione, soprattutto se siete in
cerca di qualcosa che vi avvolga e vi coinvolga, nella paura di essere
scoperti. Chi ha spento la luce?
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