domenica 29 maggio 2016

UNA GIORNATA AL MI AMI FESTIVAL

Momento spiegone per gli sprovveduti: il MI AMI Festival è un festival di musica indipendente italiana che si svolge ogni anno all’idroscalo di Milano, nel circolo Magnolia. L’evento si compone di due/tre serate e coinvolge migliaia di giovani post fricchettoni italici che si accalcano sotto i palchi dalle prime calde ore pomeridiane o si accampano con gli zainetti sotto gli alberi del parco. Un po’ primo maggio, ma un po’ meglio.
Quest’anno, vista la mia posizione di rilievo ottenuta grazie all’enorme fama derivata dal blog, mi sono sentito in dovere di prendere parte all’evento all’insegna del motto del momento: “Lo faccio per voi”. In realtà mi sono appassionato alla scena indie romana negli ultimi tempi e, vista la line up di venerdì, mancare sarebbe stato un colpo all’anima, e un colpo al cerchio, ed un colpo all’anima, all’anima. Ho comprato il mio bel biglietto economico su Bigliettuno (per non fare prodotto piazzamento), ho riempito il mio nuovo zainetto hipsterissimo, un paio di chiamate, quelle giuste, e mi sono recato nella spagnola Milano, che il giorno dopo avrebbe ospitato la finale di Champions. Se però non sei di Milano e hai una macchina che consideri ancora nuova - e rossa, e fiammante - e non puoi lasciarla nel parcheggio incustodito della stazione, essere in città per le 16 vuol dire svegliarsi alle 6:50 per farsi accompagnare da qualche anima pia, o sveglia almeno.


Raggiungo gli amici di Poliradio (che saluto - ciao, amici di Poliradio) e andiamo a prendere la navetta, che è piena, quindi optiamo per il 90 in accoppiata con 73. Ricordate bene questi numeri, che io non li ricorderò al momento oppurtuno. Arrivati al Magnolia mi fermano quelli della Rizla per chiedermi se fumo. Gli dico di no. Uno della radio fuma e gli regalano le cartine. Dopo trenta metri mi fermano altri ragazzi della Rizla per chiedermi se fumo. Gli dico di no. Quello della radio fuma e gli regalano una maglietta. Dovrei cominciare a fumare.
Prima tappa Rizla stage, dove la musica è già cominciata da quasi un’ora. Ci sediamo su un telone sul prato e sento l’odore della libertà. Spazi aperti, idroscali, poca gente che fa il tifo. Magari fosse così l’intero evento, ma il peggio deve ancora venire. Ci spostiamo poi verso il palco principale in attesa che si cominci a fare su serio. Prima dei coinvolgenti Novamerica, poi Motta, che entra sul palco mezzo sudato, svogliato, con la sigaretta in bocca che butta a terra pochi secondi prima di cominciare a cantare. Non gli si darebbero due lire, e invece comincia a saltare, a girare per il palco, a coinvolgere e a cantare così bene che a confronto l’album sembra registrato in Piazza San Giovanni, con i fonici che accendono i pirulini di Piazza San Giovanni. Entusiasmante e totale, quello che si definirebbe un animale da palcoscenico. Aizza la folla, fa cantare e riempie gli spazi lasciati vuoti da un pubblico che avrà trovato traffico per la strada. Ora si fa dura per chi arriva dopo. Intanto mi accorgo della presenza degli Street Clerks dietro di me, così.
Finito il live di Motta andiamo a fare un giro, passiamo tra i banchetti (indie anche loro) che riempiono la zona di congiunzione tra i vari palchi, doppi palchi e contropalchetti. Vendono album indipendenti, magliette, collane, camice molto larghe e con trame molto di sinistra, cinture, copricapi. Insomma puoi rifarti completamente il guardaroba per assomigliare ai tuoi idoli indipendenti, ma indipendenti da chi? E mentre cerco di capire l’utilità delle cose che mi circondano, vedo gli OSC2X che vendono magliette, così.


Torniamo poi al palco principale per ascoltare Cosmo; sembra che la zona stia cominciando a riempirsi, ma troviamo posto sul pezzo di plastica che copre i cavi (non riesco a trovargli un nome migliore), per cui siamo i più alti del festival. Scusate, sono i più alti del festival, io ora sono nella media. Cosmo sale sul palco, non dice niente, canta, ma non mi dice niente. Però in compenso ci passa a fianco Matteo dei ThePills, così. Lo fermiamo, lo salutiamo e ci facciamo i selfie di rito.
Io e un ragazzo che chiameremo Marsha, per preservalo dalle storie che verranno poi, stanchi di Cosmo, cambiamo palco per andare a sentire la buffonata di Tommaso “Thegiornalisti” Paradiso che performa Bollicine di Vasco. Sale sul palco, si siede alla pianola e comincia Promiscuità. La folla si esalta. Canta tre parole, si ferma e torna dietro le quinte. Era un soundcheck. Rientra dopo poco e comincia a cantare Bollicine, e Vasco non ci piace, ma cantiamo a squarciagola. Poi ringrazia il pubblico per sostenerlo in questa buffonata e noi ridiamo. Canta altre tre canzoni di Vasco, tra cui “Voglio una vita spericolata”, che gridiamo al cielo, e poi apre un dibattito col pubblico, che vuole insistentemente i brani dei Thegiornalisti. Accontentato, ma dopo appena una strada e le stelle io e Marsha dobbiamo spostarci, cominciano I Cani sul palco principale.


Da qui non mi assumo più alcuna responsabilità. Arrivati vicini al palco, Marsha si allontana per prender una birra. “Lì c’è il bassista. Ok, so dove siamo. Torno subito”; l’ho rivisto un’ora e mezza dopo. Intanto I Cani: Niccolò entra in scena, sbaglia le parole della prima strofa di “Questo nostro grande amore”, i fonici si perdono ogni tanto, ma è solo il principio di escalation di una performance fantastica. Canta tutto, adatta le canzoni al contesto e intanto noi saltiamo e ci colpiamo con violente gomitate sulle gengive. Intanto infatti la platea si era rimpinguata per quello che doveva essere, ed è stato, l’artista principale della serata. Ogni salto di un tipo corpulento equivale ad una caduta collettiva qualche metro dopo. E dopo ore uscimmo a riveder le stelle, ma queste sono solo Velleità e momenti di così alto coinvolgimento non sempre si vivono.
Ragiono d’anticipo e lascio Contessa prima che possa dire Finirà per prendere dei posti discreti per Calcutta sul Rizla stage, ma non avevo considerato Marsha. Cominciamo una serie di chiamate reciproche senza risposta per problemi di linea. Riusciamo a sentirci solo dopo venti minuti, ma siamo ancora in tempo per Calcutta. Gli mando un messaggio che riporto in toto: “Sono sulla panchina dietro Elvis che sposa la gente. Vieni qui please”. Perché dovete sapere che all’ingresso ci si poteva sposare con chiunque, e ad officiare la cerimonia c’era un simpatico sosia di Elvis che diceva qualcosa tipo:

“Nella buona e nella cattiva sorte;
Finche morte non ci separi;
Quando vinceremo i soldi della lotteria;
E quando i soldi della lotteria saranno finiti;
Per il potere conferitomi dalla città di Las Vegas, Nevada
Io vi dichiaro moglie e moglie”

Riesco quindi a ricongiungermi a Marsha, che però, dopo avermi perso, ha deciso di cambiare palco e di andare a sentire i Gazebo Penguins. Nella confusione ha perso però le chiavi di casa, che sono state trovate dai Gazebo e sono state lasciate al loro stand. Ci mettiamo quindi alla disperata ricerca del loro stand, ma giriamo e rigiriamo invano. Intanto il Rizla stage si sta riempiendo. Alla fine troviamo un banchetto di legno con due album sopra.
“Ciao, ho perso le chiavi e i Gazebo hanno detto che le hanno portate qui”
“Si, le avevano portate qui, ma un ragazzo è venuto a reclamarle”
“Noooo, erano le mie chiavi, avevano un portachiavi rosso”
“Eh si”
“Nooooo, erano le mie chiavi, avevano anche un portachiavi a forma di granchio”
“No, ma il portachiavi rosso era dei transformers?”
“No. E allora non solo le mie chiavi”
Morale della favola: le chiavi le abbiamo perse, lo stand dei Gazebo lo abbiamo trovato, ma le chiavi non le abbiamo recuperate. In compenso però siamo arrivati da Carcù che il Frosinone ormai era in serie B. E ci siamo adattati in un posticino di sbieco, a cantare tra la gente barcollante e anche un po’ stonata, anche più di me, che non sono Freddy Mercury.


Calcutta riunisce i popoli e commuove, dal vivo anche più che su Radio Bruno alle 23:15. E ci divertiamo a guardare il cielo, che tanto il palco comunque non lo vediamo.

Finito quest’artista Mainstream torniamo al palco principale, ma ormai il più è fatto. Ad una certa ora ci riavviamo verso l’autobus. Prendiamo il 73 e poi… e poi… no, solo il 73. Arriviamo a San Babila, capolinea. La metro chiusa, ce la facciamo a piedi, alle tre di notte. Ma Milano è viva, non un ospedale, e incontriamo anche gente che si conosce. Ma siamo comunque felici, perché abbiamo fatto quello che c’era da fare: abbiamo saltato, cantato, ci siamo emozionati e, anche se non ci siamo sposati e di Calcutta ho visto solo il cappellino da disagiato, va bene così. È andata bene così.

Ma il festival dura due giorni. Clicca QUI per il racconto della seconda giornata.

giovedì 26 maggio 2016

DOV’È MARIO? - COMMENTO EPISODIO 1

Questo minuto blog è opinione, attualità, filosofia spicciola, occasionalmente cultura. La scorsa primavera-estate è stata contraddistinta da una serie di commenti alle serie TV sinceramente molto apprezzati. Numeri interessanti, per quanto modesti. Qualcosa di concluso, qualcosa di inconcludente e qualche picco tra Wayward Pines, True Detective e, il vero marchio di fabbrica di InsideMAD in versione seriale, The Knick. Poi stop, più nulla. Era quindi il caso di riprendere con le buone vecchie abitudini, ma da dove (ri)cominciare? Game of Thrones? Troppo lunga e inflazionata. Serie Netflix? Interessanti, ma con la pecca di non essere diluite nel tempo. E poi ci si distrae e risbuca il carissimo Guzzanti.



Quando la vecchia satira nostrana incontra le finanze di Murdock. La prima caratteristica che salta all’occhio è la cura con cui è stata realizzata, confezionata e distribuita questa miniserie di quattro puntate. Quando si tratta di qualità, Sky difficilmente delude le aspettative, e forse a volte non è tanto questione di idee, ma di realizzazione e spazio necessario a rendere possibile progetti ambiziosi. Corrado Guzzanti, one-man show degli anni che furono, torna in televisione con una serie fresca, ma non troppo, con quel gusto un po' era berlusconiana che fa sempre da contorno. Mario Bambea è uno stimato filosofo e intellettuale italiano che, in seguito ad un accidentale incidente stradale, si trova costretto in una situazione di sdoppiamento della personalità: di giorno si rilassa nelle sue scritture impegnate e di notte spopola nei locali malfamati della Roma peggiore come comico di bassa lega. Eppure il successo di pubblico non tarda ad arrivare.
A differenza delle precedenti collaborazioni tra Sky e Guzzanti, in cui ci si trovava spesso dinanzi ad un collage di sketch comici legati da una sottile linea rossa narrativa, nel caso di “Dov’è Mario?” la trama non è stata lasciata al caso, e, come dice la stessa descrizione del programma, l’intento dei creatori è stato quello di dare vita ad un thriller-giallo comico, ad una sorta di storia portata avanti dalla vis comica del satiro romano.
I primi minuti introduttivi della serie sembrano preparare il terreno per il resto dello spettacolo. Ci imbattiamo così inaspettatamente in camei e citazioni al reale mondo intellettuale italiano che fanno sorridere e creano un perfetto scivolamento dello spettatore all’interno della finzione. Ma le risate, quelle vere, quelle che ci si aspetta sempre da un qualunque programma di Guzzanti, arrivano solamente con la comparsa dei primi sintomi di questa schizofrenia particolare. I riferimenti si sprecano; personalmente, la doppia personalità del protagonista mi ha portato alla mente da una parte il terrificante - capitemi, ero bimbo - Stevenson, e dall’altra il recentissimo Maccio, con il suo Italiano Medio. Lo schema di fondo e lo stesso: racchiudere due stereotipi ben definiti nello stesso sornione personaggio per colpire tutti in poche, semplici mosse. Guzzanti però, a mio parere, risulta più diretto, più delineato, più sicuro, più vero, rispetto all’abbozzata e confusionaria opera di Padre Maronno.


Si parlava delle risate, ma quanto si ride? Molto, anche quando non si dovrebbe, probabilmente. Dal momento in cui Mario si “sdoppia” comincia un susseguirsi di situazioni esilaranti, ma al contempo intelligenti, interessanti e mai banali. Poche scurrilità, le giuste misure per rientrare nella cornice adatta. Guzzanti prende in giro tutti, colpisce nel segno, si diverte e fa divertire. Una scena emblematica della comicità e della capacità artistica del comico è indubbiamente quella nella radio dell’amico di vecchia data. Mario, ristabilitosi parzialmente dal trauma, viene invitato in una trasmissione radiofonica tenuta da pochi intellettuali per pochissimi intellettualissimi. In un sol colpo Guzzanti riesce a mescolare nel calderone del divertimento satirico i finti intellettuali, i sempliciotti che tentano di sembrare intellettuali, il sistema radiofonico, la nuova cultura giovane e… i grillini e i loro complotti. Così, d’emblèe.

Alla fine della puntata resta poco, o forse molto, dipende dai punti di vista. Resta una trama interessante ma probabilmente per certi versi inespressa, ma resta anche la straordinaria dote dell’autore di far ridere puntando il dito senza mostrare la mano. La conferma di una potenzialità immensa, che in un altro continente sarebbe stata osannata, e invece qui viene spesso relegata ad un ruolo secondario. Quella di Guzzanti sembra a prima vista una goliardata divertita, ma ad un occhio attento si rivela invece essere una grande dimostrazione di satira teatrale riarrangiata per il piccolo schermo. Mario è tutti e nessuno, un po’ come Pirandello, prende di mira la nostra società, l’ipocrisia, usi e costumi di una civiltà che deve sfogare l’arretratezza dietro una facciata standardizzata, e lo fa la notte, tra un medicinale per il meteorismo e gli insulti razziali. Non si risparmia nessuno, senza peli sulla lingua e senza paura di calpestare i piedi a qualcuno. Un po’ vecchia scuola, come qualche anno fa. Non ci troviamo di fronte ad un capolavoro, né ad una serie TV d’antologia, ma il divertimento è assicurato e questa rassegna delle peggiori categorie dell’Italia moderna potrebbe riservarci qualche sorpresa nelle prossime settimane.

Ma Saverio Raimondo? Me lo ricordavo più bravino come stand up comedian.

mercoledì 25 maggio 2016

MY BABY BLUE

Ci sono serie che guardi, che si lasciano guardare. Ci sono serie da ora di pranzo, quelle leggere, da guardare con la coda dell’occhio. Serie divertenti, da guardare e riguardare senza mai pretendere troppo. Serie avvincenti, che intrattengono, ma lasciano poco e si fanno dimenticare in fretta. E poi ci sono le Serie, quelle con la esse maiuscola, quelle che lasciano un segno, quelle che si associano automaticamente ad un periodo della tua vita, quelle che diventano parte di te prima che tu ti accorga quanto male abbia fatto perdere quel protagonista o quella relazione meravigliosa. Serie che diventano vita. A quest’ultima, limitata e personale categoria appartiene Breaking Bad, discesa negli inferi più oscuri dell’animo umano.



Ma di cosa parla davvero Breaking Bad? Qual è il fulcro attorno al quale si struttura l’intera serie? Potremmo stare qui ore a parlare dei personaggi secondari, dell’evoluzione di Jesse, sempre in bilico tra dipendenza e depressa inerzia, della trama gangster, di Hank e della sua indagine, ma il vero perno è sempre stato Walt, fin dal primo episodio. Breaking Bad, un concetto che in italiano risulta complesso da tradurre, ma potremmo provare con “abbandonare la retta via”, oppure, come accennato in precedenza, “scendere negli inferi”. Allora, restituendo importanza alla prima scelta significativa per un prodotto artistico, ovvero il titolo, il cuore di Breaking Bad si rivela essere il processo di mutamento, o maturazione, del protagonista che lo porta da una situazione di ordinario ed infelice anonimato ad essere uno dei signori della droga del New Mexico. Lo stesso caro, vecchio Karim, che aveva dedicato tempo fa un intero video a Breaking Bad, si era focalizzato sul cambiamento graduale, costante ed impressionante di Walter White nel corso delle cinque stagioni, una cambiamento che suscita delle riflessioni tuttora irrisolte relative alla reale attitudine dello spirito dello spietato Heisenberg. Ci troviamo di fronte ad una maturazione, ad una presa di coscienza di uno stato delle cose, ad un mutamento temporaneo del suo essere dovuto alla malattia o ad una finzione magistralmente orchestrata dall’inizio alla fine? Cosa si nasconde dietro lo sguardo corrucciato dello sciagurato prima, e freddo calcolatore poi, WW? Riuscire ad escludere completamente tutte le ipotesi per lasciarne una solamente appare una soluzione improbabile, ma potremmo cominciare a ragionare sull’evoluzione di Heisenberg partendo proprio dal discusso finale.



Ovviamente, parlando di una serie conclusasi qualche anno fa, non mi limiterò negli SPOILER da questo momento in avanti. Il finale FeLiNa, che ha diviso la critica nella sua maestosa pochezza e semplicità, mostra un altro Walt, un uomo che non avevamo ancora visto nel corso delle precedenti puntate, un uomo che sembra stanco e sconfitto, lontano dal padre di famiglia e diverso dal malvivente col cappello dei faosi schizzi. Il Walt finale sembra aver finalmente trovato una sua dimensione, la quale ammette sì una volontaria complicità nelle attività losche perpetrate nel periodo precedente, ma ancora non si dà pace per la morte di Hank, per il collasso della sua famiglia, elemento fondamentale a cui Walt non ha mai voluto rinunciare, nonostante la sua posizione glielo avrebbe consentito ampiamente in più occasioni. L’ultimo Walt non appare come un’evoluzione finale del mostro che era diventato, e neanche il ritorno all’uomo onesto e timoroso della prima stagione, ma sembra essere piuttosto il frutto di una sintesi di autocoscienza, l’unione equilibrata di più anime che avevano abitato quel corpo in precedenza, sempre sovrastandosi periodicamente.



La scena cruciale è quella della morte di Walt, realizzata in maniera ineccepibile, mostrando uno specchio della sua stessa anima nel riflesso di un macchinario per produrre blue meth, uno di quei macchinari che lui e Jesse avevano ottenuto solo abbandonando il camper per assumere una posizione relativamente importante nello scacchiere di Gus Fring. Quei macchinari attraverso cui era passata la fortuna e la sciagura dei protagonisti, invischiati in qualcosa di più grande, chiamati ad essere la parte peggiore di loro per sopravvivere in un sottomondo disumano. La scena in cui Walt si specchia nella sua creatura mostra un uomo definitivo, consapevole della propria parte oscura e consapevole della resistenza della sua umanità. Accettazione e riconoscimento di sé nello specchio che la vita gli pone davanti negli ultimi attimi della sua complessa esperienza. L’ultimo Walt sembra essere insieme il frustrato professore di chimica e lo stratega della malavita, il padre amorevole che tiene in mano la figlia appena nata e il mandante del’assassinio di Fring, il malato di cancro oppresso dalla vita e il criminale che ha lasciato morire la ragazza di Jesse per i suoi comodi. Tutto questo in una sola sbiadita figura riflessa. Walt capisce infine di non essere stato oggetto di una trasformazione passiva, ma di essere maturato, di aver mostrato quel lato oscuro che aveva e che nascondeva da sempre nella repressione che ognuno di noi attua su se stesso. La maturazione è apparsa mutamento solo in assenza di consapevolezza della cosa. Maturare è accumulare, costruire sopra, non insabbiare e rinnegare il passato.


L’ultimo Walter White, padrone della criminalità e creatore della metanfetamina blu, è soltanto un uomo che ha messo in gioco la sua realtà e il suo essere per diventare la parte di sé che già era e sentiva nelle viscere. Baby Blue è l’emblema della sua maturazione, ma anche un richiamo alle sue radici, all’amata famiglia e all’uomo perbene, frustrato e sconfitto che non ha mai davvero smesso di essere.

sabato 21 maggio 2016

QUAL È DAVVERO LA PAZZA GIOIA?

Sinceramente non ero poi così propenso ad andare a vederlo, questo film. Avevo avvertito qualcosa di retorico e di superficiale dal trailer e ciò mi aveva portato a pensare di evitarlo, perlomeno al cinema. Invece ogni giorno che passa mi rendo conto di capirci sempre meno di cinema, e stavo rischiando di perdere uno dei migliori film della stagione cinematografica italiana. Per fortuna sono capitato in sala questa settimana.
Ciò che appare immediata è la volontà di Virzì di raccontare una storia partendo dalla superficie complessa ma comprensibile, per poi gradualmente penetrare con la macchina da presa nell’inconscio turbato di due donne particolari e mostrare in realtà i meccanismi che stanno alla base della costruzione giustificata fino a quel momento solo con le parole mancate, le parole vuote. Il film di Virzì sorvola sulle pelli diverse delle protagoniste, evitando ogni forma di giudizio, evitando di assolutizzare la legge della società, ma al contempo non dando piena ragione all’azione delle due. Ciò che alla fine emerge è comunque nulla rispetto alla mole di significato sopita, che non riesce a passare attraverso il linguaggio, ma si ferma appena prima, giusto al momento di formare un groppo in gola ostruente che accomuna Valeria Bruni Tedeschi, Micaela Ramazzotti e lo spettatore.


Il duo di protagoniste è padrone indiscusso della scena. Se si volesse analizzare il film solo attraverso le immagini mostrate, il vero fulcro dell’opera sarebbe l’evoluzione del rapporto tra le due, ricoverate in un centro di salute mentale. Le donne infatti, dopo un primo momento di rigetto, derivato probabilmente dalla diversa condizione in cui vigevano nel periodo precedente alla casa di cura, stringono un rapporto sincero e schietto che passa dalla loro rocambolesca fuga per la Toscana alla ricerca della pazza gioia. Ma cos’è questa pazza gioia, che dà anche il titolo alla pellicola stessa? La pazza gioia di Virzì è quella di superare gli impedimenti occorsi con il tempo e di tornare a provare emozioni che l’offuscamento mentale impedisce di poter percepire come in precedenza. Perché la chiusura in una struttura adatta alla malattia mentale diventa chiusura interiore agli altri, alla vita e al futuro. La chiusura e la rinuncia silenziosa al futuro sono la fine della propria esistenza in favore di una lenta e costante morte interiore. La pazza gioia è la riscoperta di un mondo che ruota, di un albero che cresce, del sole che continua a sorgere ogni giorno e che, senza chiusura mentale, potrebbe rischiarare anche le zone più malinconiche di un’anima che non riesce più a costruire. La piccola, insignificante pazza gioia delle protagoniste è un soffio di vita che riaccende la speranza e ridà loro infine la forza di tornare a lottare per qualcosa. Rappresenta quindi una sorta di ritorno al ciclo della vita, nelle sue difficoltà e nelle sue piccole soddisfazioni, che rimette le protagoniste in relazione con l’umanità del prossimo. Perché nulla può l’uomo in assenza di umanità.


Questa potrebbe essere solo una lettura della superficie emersa dell’iceberg, ma, come detto, è il non detto a rappresentare il vero interrogativo, il buio che intriga lo spettatore e conferisce quella patina di mistero che si dissolve solo alla fine dell’opera. Ciò che naturalmente sfugge alla macchina da presa del livornese Virzì - e che sfuggirebbe anche al miglior Lynch - è la nube violacea che si addensa e offusca la vista della fragile Micaela Ramazzotti. Un peso gravoso che non riesce a mantenere celate anche le notevoli conseguenze che comporta. Il problema di fondo è che l’essere umano non può mai davvero comprendere a fondo il funzionamento della mente di un altro suo simile, trovandosi così a dover fronteggiare un mostro sconosciuto e inconoscibile, come la malattia mentale. E talvolta ci si trova nelle circostanze di non riuscire a trovare la giusta via per la guarigione dell’altro, e ogni forma di aiuto di trasforma invece in un’ulteriore schiaffo alla dignità e conseguentemente alla vitalità del soggetto. Comprendere appieno queste situazioni appare impresa ardua, anche per lo stesso regista, che lascia qualcosa di intentato, che sembra limitarsi in alcune circostanze per lasciare spazio alla sospensione dell’analisi e per ritagliare artigianalmente un piccolo spazio in cui l’ambiguità garantisce il beneficio del dubbio di qualcosa di migliore che non passa mai.
La verità è che la posizione dello stesso Virzì si nasconde proprio dietro queste sospensioni cinematografiche, che si traducono in sospensioni del giudizio. Ciò che emerge è la necessità di fare un passo indietro rispetto ad una realtà che, pur rientrando parzialmente nell’immaginario collettivo, non riesce ad essere compresa appieno. Il regista invita alla comprensione di un mondo sommerso che non vediamo e spesso percepiamo attraverso filtri di luci al neon a incandescenza che colorano e cancellano le difficoltà altrui per lasciare posto al nostro violento e quasi mai richiesto giudizio.

Nel finale, due scene si accavallano e si ripetono a distanza di anni. Chi dice che quella donna non sarebbe risalita da sola dall’acqua? Chi dice che, se reintegrata, il suo finale non sarebbe stato l’amore immenso? Chi dice che il giudizio pubblico possa giovare a qualcuno? Un passo indietro, senza cadere nella pietà, ma perpetrando il rispetto e la comprensione sincera di un mondo che esiste, ma non si vede. Sofferenza che si nasconde sotto la coltre violenta del nostro essere uomini.

domenica 15 maggio 2016

MOWGLI DELLA GIUNGLA

Appena uscito dalla sala mi sono sforzato di trovare qualcosa di intelligente da dire, ma non ce l’ho fatta, e la nuova versione live action de “Il Libro della Giungla” è finita rapidamente nel dimenticatoio. Non ero riuscito a collocare nel mio immaginario il messaggio del film, l’avevo colto solo nella sua apparenza legata alla maestosa facciata di una CGI in grande spolvero, e mi ero rassegnato ad accogliere l’idea di una bella pellicola MA indirizzata un pubblico infantile. Strutturata quindi in modo da risultare fruibile da chiunque, quasi allo stesso livello interpretativo e per questo poco stimolante, soprattutto per un ventenne che cerca di spiegare perché sotto l’ala dell’idrovolante di Marco Pagot di “Porco Rosso” ci sia un tricolore (vi prego, fermatemi!). Credevo non facesse per me, e invece mi sbagliavo. C’ho riflettuto ultimamente, ho riguardato il cartone animato originale del 1967 e ho maturato una concezione differente dell’opera di Jon Favreau. Non ho cambiato però opinione sulla facciata, che considero ancora semplice, immediata, leggera e libera. Il messaggio di fondo, che non avevo notato in prima battuta, si nasconde invece bene sotto le immagini mozzafiato, ed emerge sono in presenza di un’empatia profonda con la situazione di apolide spirituale del piccolo Mowgli. Non ci troviamo di fronte alla solita e riciclata lezione di vita sull’essere se stessi o sul trovare un posto nel mondo - in ogni caso non quello dell’amato Volo - ma, concentrandoci in particolar modo sul confronto tra il Mowgli del film appena uscito e quello della prima opera disneyana, possiamo completamente sovvertire quest’ultima interpretazione.


Il nuovo protagonista non ricerca nel mondo il contesto a lui più affine per poter esprimere le proprie doti e poter finalmente diventare quello che è sempre stato, cerca invece di crearsi un contesto di realtà e situazioni in cui poter continuare ad essere se stesso senza dover rinunciare ad una parte del suo carattere scisso per sopravvivere. Egli si trova diviso tra un’esteriorità umana e un’interiorità animalesca legata alla legge della giungla e alla famiglia di lupi che l’ha cresciuto e accudito. La società della giungla non gli permette di esprimersi per quello che sente di essere e al contempo il villaggio degli uomini appare come una realtà troppo distante dalla filosofia libera che scorre ormai nelle sue vene. Mowgli è la metafora di coloro che scappano per trovare loro stessi quando non si riconoscono neanche in una pozzanghera; coloro che si sentono asfissiati dalle mura della loro natalità e contemporaneamente perderebbero loro stessi se decidessero di fare quel grande passo. Mowgli è coloro che non combaciano mai con la situazione che li circonda, che mostrano sempre uno scarto di personalità, che sono fuori posto e che non riescono ad esprimersi per quello che sentono di poter dare in libertà. Una sorta di esilio interiore che porta le persone a combaciare forzatamente con il mondo per riuscire a rientrare in un sistema di produttività che in realtà non gli appartiene. Realtà comune che spinge ad andare avanti per inerzia e addolora ogni volta che gli angoli vengono smussati per sottostare agli standard del modello che dovremmo essere, quella persona che non esiste, a cui dovremmo assomigliare e mai saremo appieno. Mowgli è chiamato a mutilarsi l’anima per restare nella giungla o a perdere se stesso per stare con i suoi simili, e la sua reazione a questo bivio è il vero messaggio fondante e costruttivo dell’opera. La terza via della giungla è la svolta per l’evoluzione oppressiva del personaggio.


La chiave di lettura del significato del film appena uscito sta nel confronto tra il finale di quest’ultimo e di quello del film del 1967: se nel caso del cartone animato Mowgli usciva per certi versi cambiato nel profondo e maturato dell’esperienza del viaggio al punto da abbracciare la civiltà degli umani, nel film di Favreau il protagonista rifiuta ogni sorta di forzatura e, passando per pericolose peripezie, riesce ad affermare la sua natura al di sopra della natura stessa. Riesce infine ad imporsi sulla società animale facendo valere le sue doti derivate dalla sua specificità. È questa l'alternativa che cambia le carte in tavola rispetto ad un messaggio infantile: la capacità di imporre il proprio spazio di necessità in una dimensione mezzana, in una propria collocazione specifica e inimitabile. L’unicità di Mowgli, che poi gli vale il raggiungimento dello stato personale agognato fin dal primo inseguimento con Baghera all’inizio della pellicola, sta proprio nell’alchimia personale con cui combina il suo dualismo interiore per ergersi al di sopra delle divisioni sociale, al di sopra degli schemi prefissati e degli stereotipi, al di sopra di ciò che gli animali si aspettano dalla sua posizione. Egli va oltre la modernità e la chiusura di un mondo che colloca inevitabilmente ognuno in un contesto di utilità produttiva e ciò mette inizialmente in crisi la società della giungla, ma alla lunga, la tenacia, la volontà di imporre la propria voce perennemente inadatta valgono al piccolo Mowgli la libertà della diversità. Perché lui non è mai stato un uomo del villaggio, né un lupo a quattro zampe, ma è e sarà sempre Mowgli della Giungla

venerdì 13 maggio 2016

DAREDEVIL E LA DIMENSIONE DEL SUPEREROE

Una settimana fa sono andato al cinema per vedere Captain America: Civil War. Ma questo lo sapete già se avete letto l’articolo di qualche giorno fa in cui cerco di far emergere i problemi del film. Se non l’avete ancora letto, leggetelo qui. Poi però tornate a leggere questo, che è altrettanto importante. Ero al cinema dunque, e pensavo: “Sì, carino è carino, però manca qualcosa”. Effettivamente ho realizzato che, nonostante gli enormi budget, nonostante una programmazione superlativa (quasi quasi da far invidia alla DC - eh Zack?!), alla Marvel cinematografica sembra mancare ancora qualcosa per poter raggiungere la controparte cartacea, e questa eterna tensione al mondo nerd da cui tutto ha avuto inizio potrebbe non giovare alla lunga ai prodotti per il cinema. Questo il mio pensiero durante la visione del film. Poi c’ho ripensato: la Marvel del MCU non punta affatto a ricongiungersi con la Marvel dei fumetti, anzi, ci tiene a far valere il distacco che le sta valendo una schiera di nuovissimi fan con evidenti problemi ad approcciarsi ad una lettura complicata formata da immagini e baloons (immagini grandi, specifichiamolo). I fan del MCU non sono gli stessi dei fumetti, o almeno non solo, ed anche i più insospettabili, dopo lo scetticismo iniziale, si sono avvicinati a questa miniera d’oro. Ciò è stato reso possibile da un nuovo format più semplice, diretto, abbozzato e purtroppo povero di sviluppo a lungo termine. Un modello di cinema che piò funzionare se le aspettative sono basse sotto molti aspetti e se ci si accontenta di entusiasmanti combattimenti ripetuti e prevedibili. E ai fan più puri della Marvel non è rimasto altro che un cattivo fantoccio all’inizio del film o una scena post-credits per gioire e far valere le proprie conoscenze pregresse. Conoscenze che - ricordiamolo - nel migliore dei casi sono costate stipendi, vita sociale, diverse diottrie e qualche volta un rene. Perché le variant cover possono costare assai.


Se quindi la Marvel ha evidentemente scelto di costruire un castello cinematografico stile Disney, prendendo in prestito le basi del mondo fumettistico, che fine ha fatto il mondo cartaceo di Jack Kirby e Stan Lee, di John Romita jr e Mark Millar, di George Perez e John Byrne? Che fine ha fatto lo sviluppo ponderato dei personaggi? Che fine ha fatto quella dimensione umana che emergeva dalle storie coinvolgenti degli anni che furono? La risposta è una solamente: Daredevil.
Daredevil è una serie originale Netflix visibile legalmente (you are a pirate!) solo sulla piattaforma americana. Essa narra delle avventure del Diavolo di Hell’s Kichen, dalla sua formazione al suo apprendistato da vigilante, per poi focalizzarsi, nel corso della seconda stagione, sul vero e proprio operato da supereroe. Ciò che stupisce di Daredevil, volendo forzatamente sorvolare sulla qualità tecnica eccelsa, sulle interpretazioni perfette e sull’ambientazione migliore di sempre in una serie action, è la gestione dei tempi, che a tratti ricorda il miglior Breaking Bad. Nella serie Netflix nulla è forzato e ad ogni personaggio viene dedicato il giusto spazio per lasciare allo spettatore la possibilità di collocarlo correttamente nella ragnatela della narrazione. In questo modo lo sviluppo del protagonista Matt Murdock, della celebre Nelson e Murdock, avviene in maniera graduale, ponderata e finalmente credibile. Un modello distante anni luce dalle raffazzonate trasposizioni sul grande schermo di Thor e Hulk, dall’imbarazzante ruolo dello Shield e dagli ultimi supereroi comporsi come funghi (leggi Pantera Nera). Una gestione delle alternanze tra vita diurna e vita notturna del protagonista così intelligente da rispondere immediatamente alle necessità dello spettatore: entrambe le linee narrative intrecciate mantengono il loro altissimo livello d’interesse e la scena si sposta nello spazio e nel tempo proprio quando la situazione sembra vertere verso la saturazione di informazioni interessanti. Gli sceneggiatori e il regista hanno dimostrato la rara capacità di lasciare briciole di suspance, di non detto in ogni scena, e ciò crea un circolo di dipendenza che alleggerisce incredibilmente ogni episodio, della durata imponente di quasi un’ora.


Tornando ai personaggi, ognuno di loro ottiene uno spazio sufficiente a maturare una caratterizzazione tridimensionale, superiore perfino a quella dei protagonisti dei film del MCU. Ma la più grande innovazione sotto questo punto di vista credo sia la sovrapposizione di storie, strumento impensabile in ambito cinematografico, se non in rarissimi casi (Loki e il bastone maledetto). Le serie Netflix incentrate sui supereroi possono infatti vantare un intreccio ben più complesso che si compone di protagonisti, antagonisti, ambiguità, colpi di scena, ritorni e, come detto, sovrapposizioni. Ci troviamo così ad ammirare in visibilio l’incontro tra Wilson Fisk, villain un po’ umano un po’ palla di lardo della prima stagione, e The Punisher. In questo modo la storyline smette di essere una linea, e comincia ad assumere maggiormente i connotati di una macchia di sangue rosso diavolo che si espande lentamente a partire da una sola ed insignificante goccia, a partire dalla scena in cui il piccolo Matthew perde la vista in seguito ad un incidente.
Questo nuovo modello di televisione ricalca palesemente la struttura propria dei fumetti, che in ogni arco narrativo sviluppano differenti tematiche e situazioni mantenendo pressoché intatti i personaggi principali e l’ambientazione. Quindi, dov’è finita l’anima dei fumetti, che fino a poco tempo fa ricordavo associata unicamente alle serie animate di Spiderman e di Batman? Nelle serie TV moderne. La televisione è la nuova casa dei supereroi cartacei, che tornano in tutto il loro splendore e lasciano intendere quella meraviglia che un tempo teneva incollati gli occhi dei vecchi nerd alle pagine e forse oggi appassionerà un pubblico differente. Un pubblico stanco delle esplosioni e delle battutine infantili del cinema figlio di Die Hard e Bad Boys.

E poi su Daredevil ci sarebbe ancora molto da dire. Potremmo parlare di Stick, di Elektra, di Foggie Nelson e di Karen Page, del confronto sulla giustizia, di Kingpin, dei collegamenti con le altre serie Marvel e della futura riunione. Potrei parlare per ore del Punitore, ma questo era un articolo incentrato sulle scelte di casa Marvel, e quindi finisce qui. Tempo per speculare su Daredevil ci sarà, in attesa della terza stagione o di The Defenders, chi vivrà vedrà. Qualcosa come “Perché la prima stagione di Daredevil surclassa di gran lunga la seconda” può andare? Magari con un titolo più corto e accattivante, magari.

mercoledì 11 maggio 2016

ORWELL CHE NON PASSA MAI

I morti si dimenticano in fretta.
Si corre via dai funerali a fare altro, le cose dei vivi: un ciclo che si chiude e un sacco di brave persone che non ci sono più. Poi alcuni diventano santi, altri diventano artisti, creativi, altri scrivono libri o fanno film. Da morti si fanno molte più cose.
Politico, imprenditore, guru e fondatore del Movimento 5 stelle (2009) insieme a Beppe Grillo: questo è diventato Gianroberto Casaleggio (morto il 12 aprile di quest'anno) su Wikipedia, la nostra cara enciclopedia libera online.
Tanto rispetto per un grande pensatore, che accanto a Grillo mi faceva quasi tenerezza nei momenti in cui veniva tirato sul palco a dire due parole a fatica con quella voce che non gli avrebbe mai permesso di essere un grande oratore. “Non sono capace di gridare” si è sentito quasi in dovere di dire una volta, mentre la gente nella piazza riposava le orecchie da Grillo.


Detto questo, che non vuole essere un discorso di nessun orientamento politico, e che non vuole nemmeno chiarire le idee sul ruolo che poteva avere Casaleggio nel movimento (alcuni parlano di un dittatore che pianificava tutto celandosi nell'ombra, di un burattinaio, di un ideologo taciturno…), vorrei porre l'attenzione più che altro sulla sua ideologia. Si, perché se i morti si dimenticano in fretta le idee restano nel vento, che ci insegna tutti i giorni come si fa la rivoluzione.
Casaleggio vedeva, se vogliamo, oltre il Movimento. Aveva sogni riguardanti un futuro del pianeta, e riguardanti il web, democratico, libero e indipendente.
Nel suo libro “Veni Vidi Web”, pubblicato il 25 novembre 2015, spiega parte del mondo utopico:

energie pulite,
niente inquinamento,
niente multinazionali,
niente cacciatori e animali maltrattati,
niente malattie e quindi meno farmaci e meno ospedali,
niente edifici e infrastrutture inutili,
niente possedimenti di più di cinque milioni di euro a persona (compresi mobili e immobili),
niente leaders,
niente debiti,
niente speculazione,
niente solitudine e abbandono,
niente armi,
niente corruzione,
niente segreti,
niente lavori pesanti perché svolti da robot,
tutti gli stati all'ONU e tutti con gli stessi poteri,
votazioni online ogni cinque anni,
ecososteniblità,
governo di persone pescate a sorte che lavorano per il solo bene del paese,
famiglie felici,
consumo alimentare a chilometro zero, 
macchina della giustizia funzionante, e molto altro.


Sembra "L'Isola che non c'è" di Bennato o il Paese dei Balocchi di qualsiasi comunista ambientalista del nostro tempo. Comincia però ad inquietare quando si vedono scritte cose del tipo: “Chi è sorpreso con un fucile da caccia è lasciato nudo nei boschi e braccato da personale specializzato con pallettoni di sale grezzo dall’alba al tramonto” ; 
“In Italia le statue di Garibaldi sono sostituite da statue di Gandhi” (perché?);
“Chi è sorpreso a inquinare è condannato alla raccolta differenziata a vita nel proprio comune” ; 
“Chi si sottrae (alle regole) è rieducato alla comprensione della vita in appositi centri yoga” ; 
“La parola leader è diventata un insulto”;
“Sono istituiti i ministeri della Pace, della Vita e della Giovinezza”; 
“Ogni anno si tiene la Giornata della Solidarietà, considerata la massima espressione dello Stato” ;
“Il cittadino deve dedicare dalla maggiore età di 16 anni, due ore al giorno alla comunità “;
“Lobby e società segrete sono proibite per legge e i loro membri considerati rei di alto tradimento contro lo Stato”;
“ L’esperanto è obbligatorio come seconda lingua” (l'esperanto è una lingua pianficata a fine '800 per essere usata a livello mondiale). 
Ci sarebbero molti altri esempi ma mi fermo qui. Se non vi inquieta abbastanza o non vi ricorda ancora lontanamente Orwell provate a guardare questi video pubblicati dalla Casaleggio e Associati su Youtube nel 2007 e 2008:



Casaleggio li aveva definiti “un gioco” ma io lo trovo un gioco inquietante, al pari di “1984” di  George Orwell (1903-1950), che viene chiamato romanzo distopico. Forse ci ricorda molto il mondo utopico di Casaleggio “La fattoria degli animali” dello stesso autore, allegoria della rivoluzione comunista in Russia che sfocia alla fine in un totalitarismo della stessa portata dei totalitarismi di destra che ben conosciamo, pur avendo alla base il sacrosanto principio di uguaglianza tra tutti gli uomini.
Ovviamente non voglio certo che a questo punto voi vi immaginiate un Casaleggio Grande Fratello, perché davvero non è il caso; la mia intenzione è piuttosto quella di far comprendere quanto sia facile, anche nei sogni politici più innocenti, trovare elementi che neghino la vera libertà dell'individuo e che possano quindi ribaltare l'utopia.
Quello di Casaleggio è un mondo meraviglioso, ma preferisco immaginarlo e basta per ora.

Sara

domenica 8 maggio 2016

CIVIL WAR E I 5 BUCHI DI TRAMA

Qualche tempo fa decisi di scrivere un articolo contro Batman contro Superman perché indignato per l’orribile spettacolo offerto da Zack Snyder, il belloccio, il pezzo di ghiaccio e le mamme dei supereroi. Ci misi però troppo tempo a riordinare le idee e mi ritrovai di fronte ad un web che aveva già detto tutto quello che avrei voluto scrivere io, aveva già criticato le stesse falle, aveva già denunziato alla polizia del cinema le scempiaggini del modesto autore di Sucker Punch. Decisi quindi di lasciare a metà la scrittura di un articolo che poco avrebbe aggiunto al dibattito, perché le parole dette sono parole vuote. Ma ecco che accorrono gli Avengers in mio aiuto, con un film che s’è lasciato guardare, ma per il quale non ho gridato al miracolo (fortunatamente ho l’abbonamento al cinema e mi dispiaccio meno di non vedere dei veri e propri capolavori, ma questa non centra il punto della questione).  Il punto è che, per mia fortuna, credo di aver maturato una differente opinione del film rispetto al grande pubblico che in questi giorni sta letteralmente osannando l’opera ultima del MCU. A mente fresca, credo che ad aver abbassato la mia personale valutazione sul film siano state alcune incongruenze, che potremmo chiamare buchi di trama o semplicemente forzature, fate voi. Per spiegare nel dettaglio i cinque punti che credo possano rappresentare delle incongruenze, è necessario che io faccia SPOILER conclamati della pellicola; se quindi non siete ancora andati a vederla, vi consiglio di desistere a proseguire la lettura. Se invece siete dei sadici finti nerd potreste anche continuare. A vostro rischio e pericolo.


La dichiarazione d'Adempienza
Dopo gli eventi di Lagos, l’ONU decide di mettere sotto contratto gli Avengers e in generale tutti i supereroi. Cap, intenzionato a non firmare l’accordo, viene informato del fatto che, una volta ratificati i patti, il suo operato verrà considerato fuorilegge e per questo punito. La ratifica ufficiale avviene a Vienna, ma, appena la riunione ha inizio, Zemo fa scoppiare una serie di ordigni che portano inevitabilmente l’incontro a concludersi anzitempo. Da qui in poi ogni azione di Captain America e della sua fazione di marrani verrà considerata contro le normative in vigore e per questo punibile con la detenzione. Questa è sostanzialmente la definitiva spaccatura tra i due reggimenti supereroistici, che non trovano più un punto d’incontro e vengono separati dalla legislazione mondiale. Se però la riunione dell’ONU organizzata per ratificare gli accordi è stata interrotta dall’attacco terroristico, come è possibile che le azioni di Cap vengano etichettate come fuorilegge appena due secondi dopo lo scoppio della bomba? Quando è entrata in vigore una legge che nessuno ha avuto il tempo di discutere e fa entrare in vigore? Teoricamente, tra gli Avengers, tutto sarebbe dovuto continuare come prima, con un partito unico libero e indipendente dalle istituzione. Ma la guerra civile di ragni e formiche giganti non avrebbe avuto senso con un fronte unito contro il solitario Zemo. Peccato per la morte della logica.



Pantera Nera Neo Spaziale
E con “Pantera nera neo spaziale” intendo l’introduzione quasi randomica di alcuni elementi fondamentali per la reale battaglia tra le due fazioni. Ma analizziamo nello specifico il caso del supereroe africano: quando il re nigeriano rimane vittima dell’attentano alla riunione dell’ONU, ci viene presentato questo giovincello aitante dallo sguardo determinato. Che uno può pensare: “Guarda che sguardo agguerrito che c’hanno ‘sti diplomatici/politici nigeriani! Ma che fermezza d’animo per essere un semplice funzionario statale”. E invece si tratta di Pantera Nera, silenzioso e muscoloso supereroe dei poveri che corre veloce come un superuomo, salta i palazzi senza farsi neanche un graffio e graffia i nemici con unghie retrattili di adamantio. Da dove viene? Come ha ottenuto i suoi poteri? Perché in un universo così globalizzato e aperto alla comparsa di nuove figure eroiche aspetta solo 13 film per fare la sua comparsa? E soprattutto, visti i suoi enormi poteri e il suo attaccamento per il duo popolo, perché non è intervenuto in prima persona nell’operazione che all’inizio del film ha dato il pretesto per l’intero film? Ah già, perché altrimenti non ci sarebbe stato alcun film. E la sua base sembra quella dei Power Rangers Wild Forces. L’ho detto.


La Cieca Visione
Visione era stato sostanzialmente la chiave della sconfitta di Ultron nel precedente film corale del MCU; in questa pellicola invece si veste bene, cucina il papriken (o una cosa simile) e se ne sta tranquillo a casa mentre fuori scoppia il finimondo. La sua assenza nella prima missione in Nigeria è probabilmente la causa della disfatta parziale del gruppetto di giovani teppisti. Anche il suo ruolo nello scontro aperto tra il #teamcap e il #teamstark sembra essere marginale e anzi riesce solo a paralizzare per sempre il povero Warmachine, al quale non gliene va bene manco mezza, manco per sbaglio (è dura essere il sosia nero di Iron Man). Questa sua inutilità ci viene giustificata attraverso una scena in cui Visione cerca di spiegare che la gemma della mente (di cui ancora non conosce l’entità) spesso predne il sopravvento e per questo sarebbe titubante a scatenare la sua potenza distruttiva. Ma non aveva gli stessi timori anche nel secondo capitolo degli Avengers, quando ha disintegrato un esercito di cloni di Ultron con la forza del pensiero? Se avesse davvero usato il potere della gemma in tutte le sue potenzialità, non ci sarebbe stato alcuno scontro in zona aeroportuale. Fine del film.



Spiderman v Spiderman
Per analizzare questo punto dobbiamo fare un passo indietro e cercare di comprendere le ragioni dello scontro cartaceo più che di quello cinematografico. Nel fumetto Iron Man si pone a capo della fazione che sostiene il riconoscimento dei supereroi dinanzi ad una commissione mondiale. Ciò prevede l’eliminazione del vincolo della maschera e quindi l’unione dell’uomo al supereroe. Nel film, Peter Parker ci viene presentato come un giovane adolescente la cui unica preoccupazione è non far sapere a zia May delle sue tendenze aracnidi. Nonostante ciò, però, egli “““sceglie””” di schierarsi dalla parte del filantropo miliardario. In questo modo, cercando un parallelo tra film e fumetto, Spiderman starebbe lottando contro coloro che rivendicano il diritto di nascondere la propria identità dietro una maschera, ossia contro sé stesso. Spiderman contro Spiderman, e Civil War fu. Che poi come si chiamava la mamma di Spiderman? Qualcuno ha detto Martha?


 Il Video Incriminato
Il filo conduttore delle azioni del presunto cattivo, il sempreperfettonellaparte Daniel Bruehl, è la ricerca di informazioni utili a provare l’artefice della morte dei genitori di Tony Stark, ossia Bucky (che sembra anche un po’ un nome da cane). Tralasciando il fatto che lui conosca a priori la verità e che la sua preoccupazione siano soltanto le prove, quando l’azione si sposta nuovamente a Sokovia, ai nostri riuniti protagonisti viene mostrato un video dell’esecuzione dei coniugi Stark che incastra il povero e ipnotizzato Soldato d’inverno. Come ha fatto Zemo ad ottenere tale filmato? Perché mai ci sarebbe dovuta essere una telecamera di sorveglianza su un lampione sperduto della periferia di New York? Presumendo che il video sia stato trovato da Zemo nel covo dell’Hydra in cui si svolgono le ultime sequenze d’azione, per quale motivo l’Hydra stesso ha conservato la prova di un assassinio brutale e diplomaticamente significativo dopo esserne entrato in possesso? Anche in questo caso il film avrebbe preso una piega diversa se gli eventi avessero seguito una logica reale e ci saremmo trovati di fronte ad un dialogo del genere:

Zemo: “Ah, Avengers! Ciò che ho scoperto riguardo la morte dei genitori di Iron Man potrebbe definitivamente rompere la vostra alleanza”
Iron Man: “E cosa hai scoperto?”
Z: “Ad ucciderli fu [suspance] il Soldato d’Inverno”
 Dan Dan Daaaan
Bucky: “No”
Z: “Si, ma…”
I: “Ma che prove hai?”
Z: “Nessuna”
I: “Ah, ok”
FINE


E con ciò capite bene quanto mi trovi in disaccordo con le recensioni entusiaste dell’ultima ora. Con quelli che è bello perché si picchiano. Stiamo parlando di un film carino, godibile e a tratti divertente (ma non eccessivamente), ma manca a mio parere sempre quel salto di qualità che porti la Marvel ad un livello di consapevolezza dei propri mezzi superiore. Civil War fa la sua parte, ma a me piaceva la trilogia di Nolan.

venerdì 6 maggio 2016

FIVE BY FIVE #15

Vi ricordate i Viet Cong? No, non quei Viet Cong, quegli altri. Quelli con le chitarre al posto dei Kalashnikov. Ebbene, non esistono più o meglio, non esistono più in quella veste. Come forse vi dissi tempo addietro avevano deciso di cambiare nome dopo essersi visti negare alcuni show negli U.S.A. a causa del loro nome che, cito, “offende la comunità vietnamita”. Dalla scorsa settimana i Viet Cong sono quindi i Preoccupations che, senza tante cerimonie, suona proprio da schifo come nome per una band. In un altro momento una storia del genere sarebbe andata ad aggiungersi a quell’elenco di stranezze, contraddizioni e assurdità degli altri popoli, quelle che si snocciolano nelle conversazioni per strappare un sorriso, ma in queste settimane, forse, quel sorriso è velato da una certa inquietudine, almeno per quanto mi riguarda. Donald Trump potrebbe diventare il prossimo presidente degli Stati Uniti d’America e Trump ce la mette tutta per rappresentare quella parte di ognuno di noi che gode nell’odiare, mentre i Viet Cong devono cambiare nome per suonare nei locali.
Tutto d’un tratto Preoccupations non suona poi così male.



In questi giorni sono in vena di elettronica sperimentale e le nuove uscite sembrano assecondarmi. Andy Stott è un produttore di Manchester e ha pubblicato una manciata di perle negli ultimi dieci anni, su per giù. Io l’ho scoperto relativamente tardi, nel 2014 con Faith in Strangers, e dopo un certo numero di ascolti fisiologici per riuscire a metabolizzare il suo sound, ho iniziato a seguirlo con attenzione. Too Many Voices è il suo quinto album, come ho detto non è facile, soprattutto al primo ascolto, ma la traccia che gli dà il titolo è tra le mie canzoni preferite di questa prima parte di 2016. 



Conoscete ormai la smodata passione che provo nei confronti della band di Oxford, ma non so se riuscite ad immaginare quanto fossi in trepidante attesa nelle ultime settimane: prima l’annuncio dell’uscita del nuovo album a Giugno, poi tutti quegli indizi e messaggi criptici sui social fino alla scomparsa letterale del loro sito internet, era chiaro che fosse questione di pochi giorni se non ore e così è stato. È finalmente arrivato il primo singolo estratto dal nuovo album, ancora senza titolo. Sarà l’entusiasmo, ma Burn The Witch è diversa da tutto ciò che hanno fatto Thom e compagni fino ad ora e al contempo contiene un po’ di ogni loro album della loro così eterogenea discografia. Insomma, inconfondibilmente Radiohead.



Ho ascoltato Ultimate Care II, nuovo album del duo canadese Matmos, due volte. La prima non ricordo sinceramente perché l’ho fatto, non conoscevo loro e non avevo letto nulla su questo nuovo lavoro. Sarà stato il destino, forse? O la copertina strana e incomprensibile? Sta di fatto che l’ho ascoltato e mi è anche piaciuto, tanto che sono andato a cercarmi qualche informazione in più su questo talentuoso duo. La seconda volta è stato quando  ho scoperto che tutto, ma proprio tutto l’album è stato prodotto con i suoni provenienti da una...guardatevi il video.



Ognuno di noi ha un lato oscuro. Io per esempio ho una inaspettata (per chi mi sta intorno) attrazione verso il black metal. Avete presente quelle canzoni lunghe e cattive dove la gente urla? Ecco. I Cobalt sono tra quella gente e Slow Forever è pieno di quelle canzoni. Non parliamo di un capolavoro, ma se siete amanti del genere gli oltre sei minuti di Cold Braker, con la sua intro cupa e angosciosa vi piaceranno di certo.



Per finire, un gruppo novo novo. Gli Agar Agar sono francesi ma cantano inglese, sono in due e suonano un bel synth pop pieno di atmosfera. Il singolo Prittiest Virgin è uscito lo scorso 22 Aprile e sembra molto interessante, peccato che dovremo aspettare fino a Settembre prossimo per ascoltare il loro debutto discografico. Quindi annotateveli che poi ve li scordate altrimenti, mi raccomando.


Marsha Bronson

mercoledì 4 maggio 2016

UN PORCO ROSSO E ANTIFASCISTA

Il primo film spiccatamente politico diretto dal maestro Miyazaki. Il contesto storico in cui si stagliano i meravigliosi duelli aerei di “Porco Rosso” è quanto mai tangibile e tridimensionale. Non si tratta della natura steampunk di Laputa, né dell’interland nipponico di Totoro, ma di un vero e proprio affresco, definito attraverso minuziose pennellate, della situazione italiana nel periodo intercorso tra i due conflitti. Per la prima volta Miyazaki contestualizza le avventure dei suoi magici protagonisti in un panorama ben delineato che ravviva l’intento pratico dell’opera e conferisce una validità maggiore ai messaggi lanciati dall’autore attraverso le sue usuali metafore.
Prima di passare all’interrogazione sul personaggio principale della pellicola, è bene chiarire i connotati dell’antifascismo di matrice Ghibli. Il totalitarismo, nella versione di "Porco Rosso", ha oppresso la società, ha minato la creatività e spazzato via ogni forma di libertà. Quelli che prima erano gli amici di scorribande di Marco ora si fanno chiamare camerati e vestono tutti alla stessa maniera. Un ordine che asfissia il pensiero. La popolazione è affamata ed è costretta a mostrarsi sorniona al regime nelle feste del partito, ad essere entusiasta per un passo indietro nell’evoluzione sociale dell’uomo. In tutto questo si insinua l’anarchico disordine di un maiale dall’idrovolante rosso che sembra invece non voler cedere ad abbassare lo sguardo, ma continua a guardare il cielo che lo ospita e perpetra la sua giustizia, che un tempo era la nostra giustizia. La giustizia di uomini liberi che lasciano spazio di libertà.
Si viene così a creare una profonda dialettica tra ordine e disordine, nella quale entrambe le parti sembrano avere interessanti argomenti di conversazione. Ma il confronto regge rimanendo in una cattiva interpretazione della figura del rosso: comprendendo al meglio le ragioni di Marco è possibile evincere la superiorità del modello libertario e antifascista, che ingloba in sé in realtà anche quei pochi punti a favore del regime. La chiave di tutta la faccenda è l’ala dell’idrovolante di Marco, la quale presenta dei tricolori evidenti; dettagli mantenuti anche dopo il restauro del mezzo. Il disordine del protagonista non è forse tanto esterno, quanto interno. Egli crede ancora nei valori che lo hanno portato a volare nel cielo dell’Adriatico, crede nella patria, nel suo passato e nel suo futuro, ma crede anche nella libertà e nell’armonia della diversità di pensiero della democrazia. L’antifascismo non è sinonimo di antipatriottismo. “Piuttosto che diventare un fascista, meglio essere un maiale”.


Chiarita la critica di Miyazaki al fascismo, e conseguentemente ad ogni forma di totalitarismo, concentriamoci ora sulla figura centrale del film, quel maiale antropomorfo di nome Marco Pagot. Durante la Prima Guerra Mondiale, egli è stato trasformato in un maiale in seguito ad un episodio che ci viene svelato solo in un secondo momento. La scelta dell’animale è interessante poiché esso rappresenta una condensazione delle peggiori attitudini umane in diverse culture orientali e perciò potrebbe indicare una sorta di punizione celeste per i peccati che il sopravvalutato protagonista ha commesso nella sua esperienza di guerra. Dalla spiegazione della sua trasformazione possiamo poi comprendere il destino che lo attende e il percorso che la Natura vuole che lui intraprenda: a differenza dell’uomo, il maiale non ha nel proprio sangue il vento del cielo, non si libra in aria su coloratissimi idrovolanti, ma è costretto a terra, a guardare in basso. Allo stesso modo, dopo aver scrutato dentro sé il cimitero celeste degli idrovolanti in una scena poetica e toccante, Marco viene trasformato e finisce nuovamente a contatto con il mare, con il mondo terrestre. Questa sua condizione si pone come l’inizio di un processo di espiazione della colpa di aver abbandonato i suoi commilitoni al loro destino, nonostante lo stretto legame di amicizia che lo legava a loro. Questo percorso si gioca su due livelli, tra mare e cielo. Marco riprende a volare, ma il volo non è più lo stesso di prima, non esiste più la stessa leggerezza, ma sussiste una pesantezza di colpa che lo trascina sempre al livello del mare e che gli impedisce di scorgere nuovamente quello che sarebbe dovuto essere il suo posto, sopra le nuvole, nel candore della quiete celeste. Il protagonista, dal canto suo, sembra essersi rassegnato a questo purgatorio irreversibile che lo opprime e gli presenta il conto ad ogni specchio. L’unica salvezza possibile è il contatto con un’innocenza che trasferisca in lui un briciolo di speranza nel futuro di un essere abbandonato dalla grazia naturale e stimato per quello che non è. Quest’innocenza si presenta sotto forma della giovane e sognatrice Fio, diciassettenne ingegnere aeronautico, che riuscirà a scaldare il cuore di Marco e a mostrargli il suo vero valore, oltre l’aspetto e oltre il passato, con uno sguardo al futuro.


Differentemente dai lavori presentati finora, in “Porco Rosso” Miyazaki sembra avere un atteggiamento differente rispetto alla guerra, la quale diventa parte integrante dell’agire dei protagonisti, solitamente contrassegnati da un fervido sentimento antimilitarista. In qualche modo, questa scelta rappresenta una svolta nella poetica dell’autore, che però non snatura il messaggio di fondo che i suoi personaggi cercano di trasmettere. Più volte infatti viene ripetuto che “Il maiale non uccide”, come l’uomo pipistrello, e proprio questa scelta morale di Marco gli costa la possibilità di trionfare nel duello aereo finale contro l’Americano di Hollywood. Lo stesso protagonista afferma che: “Non siamo mica in guerra qui”. La guerra è infatti lontana dall’attività pacifica dei cacciatori di taglie e la violenza dell’uso delle armi pare essere solo un movimento arcuato nella poetica danza degli idrovolanti nel cielo azzurro dell’Adriatico. Una piccola deviazione che non stona con il panorama immenso e con le intenzioni solidali del protagonista. Il pericolo si fa in realtà tangibile solo nelle circostanze in cui si presentano gli uomini del regime per reprimere l’anarchico rosso e la sua giovane aiutante, e ciò la dice lunga sull’uso che le varie fazioni fanno della violenza e quali conseguenze essa comporti.



Accanto alla figura di Marco Pagot, risalta il personaggio di Fio, che non diventa fondamentale solo per la trama, in chiave finale, ma continua la tradizione di Miyazaki relativa alle figure femminili, prosegue idealmente l’emancipazione lasciata in sospesa sul finale di “Kiki, Consegne a Domicilio”. La piccola streghetta aveva riacquistato i poteri in seguito alla presa di coscienza del suo posto nel mondo e delle sue capacità, ma il completamento di questo percorso di maturazione era rimasto implicito, nelle intenzioni. Fio invece, forte anche della sua età rispetto alla piccola Kiki, si staglia fin da subito come una donna in formazione, convinta dei propri mezzi e intenzionata maggiormente a modificare l’ambiente in cui opera piuttosto che se stessa. Questa sua consapevolezza sarà la chiave di volta della trasformazione finale del maiale.
Al termine di quest’epopea aerea, fatta di risate e stupori, amori e momenti toccanti, lo sciagurato pilota rosso sembra aver finalmente trovato la libertà di andare oltre le proprie responsabilità passate e di ricongiungersi con i suoi compagni di volo nel leggiadro fiume degli idrovolanti. È però attraverso le ultime parole della giovane Fio che lo spettatore può cercare di interpretare il messaggio finale dell’autore. Dopo la scomparsa del protagonista, Fio e Gina stringono una profonda amicizia che sopravvive ai conflitti e ai soprusi della seconda guerra mondiale. La vera amicizia, la cura disinteressata per qualcuno è l’unica dimensione umana in grado di andare oltre la vita e la morte, di sopravvivere le vite degli individui stessi che l'alimentano e di ricongiungere anime perse nell’oblio. Lo stesso sentimento d’affetto che ha permesso a Marco Pagot di tornare a formare la mitologica squadra di idrovolanti, dopo aver visto scomparire i suoi amici inermi un piano sopra il cielo. L’amor che move il Sole e le altre stelle.