Appena uscito dalla sala mi sono sforzato di trovare
qualcosa di intelligente da dire, ma non ce l’ho fatta, e la nuova versione
live action de “Il Libro della Giungla” è finita rapidamente nel dimenticatoio.
Non ero riuscito a collocare nel mio immaginario il messaggio del film, l’avevo
colto solo nella sua apparenza legata alla maestosa facciata di una CGI in
grande spolvero, e mi ero rassegnato ad accogliere l’idea di una bella
pellicola MA indirizzata un pubblico infantile. Strutturata quindi in modo da risultare
fruibile da chiunque, quasi allo stesso livello interpretativo e per questo
poco stimolante, soprattutto per un ventenne che cerca di spiegare perché sotto
l’ala dell’idrovolante di Marco Pagot di “Porco Rosso” ci sia un tricolore (vi
prego, fermatemi!). Credevo non facesse per me, e invece mi sbagliavo. C’ho
riflettuto ultimamente, ho riguardato il cartone animato originale del 1967 e
ho maturato una concezione differente dell’opera di Jon Favreau. Non ho cambiato però opinione sulla facciata, che
considero ancora semplice, immediata, leggera e libera. Il messaggio di fondo,
che non avevo notato in prima battuta, si nasconde invece bene sotto le
immagini mozzafiato, ed emerge sono in presenza di un’empatia profonda con la
situazione di apolide spirituale del piccolo Mowgli. Non ci troviamo di fronte
alla solita e riciclata lezione di vita sull’essere se stessi o sul trovare un posto nel mondo - in ogni caso non quello dell’amato Volo - ma,
concentrandoci in particolar modo sul confronto tra il Mowgli del film appena
uscito e quello della prima opera disneyana, possiamo completamente sovvertire
quest’ultima interpretazione.
Il nuovo protagonista non ricerca nel mondo il contesto a
lui più affine per poter esprimere le proprie doti e poter finalmente diventare
quello che è sempre stato, cerca invece di crearsi un contesto di realtà e
situazioni in cui poter continuare ad essere se stesso senza dover rinunciare
ad una parte del suo carattere scisso per sopravvivere. Egli si trova diviso
tra un’esteriorità umana e un’interiorità animalesca legata alla legge della
giungla e alla famiglia di lupi che l’ha cresciuto e accudito. La società della
giungla non gli permette di esprimersi per quello che sente di essere e al
contempo il villaggio degli uomini appare come una realtà troppo distante dalla
filosofia libera che scorre ormai nelle sue vene. Mowgli è la metafora di
coloro che scappano per trovare loro stessi quando non si riconoscono neanche
in una pozzanghera; coloro che si sentono asfissiati dalle mura della loro
natalità e contemporaneamente perderebbero loro stessi se decidessero di fare
quel grande passo. Mowgli è coloro che non combaciano mai con la situazione che
li circonda, che mostrano sempre uno scarto di personalità, che sono fuori
posto e che non riescono ad esprimersi per quello che sentono di poter dare in
libertà. Una sorta di esilio interiore che porta le persone a combaciare
forzatamente con il mondo per riuscire a rientrare in un sistema di produttività
che in realtà non gli appartiene. Realtà comune che spinge ad andare avanti per
inerzia e addolora ogni volta che gli angoli vengono smussati per sottostare agli
standard del modello che dovremmo essere, quella persona che non esiste, a cui dovremmo assomigliare e mai saremo appieno. Mowgli è chiamato a mutilarsi l’anima per
restare nella giungla o a perdere se stesso per stare con i suoi simili, e la
sua reazione a questo bivio è il vero messaggio fondante e costruttivo dell’opera.
La terza via della giungla è la svolta per l’evoluzione oppressiva del
personaggio.
La chiave di lettura del significato del film appena
uscito sta nel confronto tra il finale di quest’ultimo e di quello del film del
1967: se nel caso del cartone animato Mowgli usciva per certi versi cambiato
nel profondo e maturato dell’esperienza del viaggio al punto da abbracciare la
civiltà degli umani, nel film di Favreau il protagonista rifiuta ogni sorta di
forzatura e, passando per pericolose peripezie, riesce ad affermare la sua
natura al di sopra della natura stessa. Riesce infine ad imporsi sulla società
animale facendo valere le sue doti derivate dalla sua specificità. È questa l'alternativa che cambia le carte in tavola rispetto ad un messaggio infantile: la
capacità di imporre il proprio spazio di necessità in una dimensione mezzana,
in una propria collocazione specifica e inimitabile. L’unicità di Mowgli, che
poi gli vale il raggiungimento dello stato personale agognato fin dal primo
inseguimento con Baghera all’inizio della pellicola, sta proprio nell’alchimia
personale con cui combina il suo dualismo interiore per ergersi al di sopra
delle divisioni sociale, al di sopra degli schemi prefissati e degli
stereotipi, al di sopra di ciò che gli animali si aspettano dalla sua
posizione. Egli va oltre la modernità e la chiusura di un mondo che colloca
inevitabilmente ognuno in un contesto di utilità produttiva e ciò mette
inizialmente in crisi la società della giungla, ma alla lunga, la tenacia, la
volontà di imporre la propria voce perennemente inadatta valgono al piccolo
Mowgli la libertà della diversità. Perché lui non è mai stato un uomo del
villaggio, né un lupo a quattro zampe, ma è e sarà sempre Mowgli della Giungla.
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