Ci sono serie che guardi, che si lasciano guardare. Ci
sono serie da ora di pranzo, quelle leggere, da guardare con la coda
dell’occhio. Serie divertenti, da guardare e riguardare senza mai pretendere
troppo. Serie avvincenti, che intrattengono, ma lasciano poco e si fanno
dimenticare in fretta. E poi ci sono le Serie, quelle con la esse maiuscola,
quelle che lasciano un segno, quelle che si associano automaticamente ad un
periodo della tua vita, quelle che diventano parte di te prima che tu ti
accorga quanto male abbia fatto perdere quel protagonista o quella relazione
meravigliosa. Serie che diventano vita. A quest’ultima, limitata e personale
categoria appartiene Breaking Bad, discesa negli inferi più oscuri dell’animo
umano.
Ma di cosa parla davvero Breaking Bad? Qual è il fulcro
attorno al quale si struttura l’intera serie? Potremmo stare qui ore a parlare
dei personaggi secondari, dell’evoluzione di Jesse, sempre in bilico tra
dipendenza e depressa inerzia, della trama gangster, di Hank e della sua
indagine, ma il vero perno è sempre stato Walt, fin dal primo episodio.
Breaking Bad, un concetto che in italiano risulta complesso da tradurre, ma
potremmo provare con “abbandonare la retta via”, oppure, come accennato in
precedenza, “scendere negli inferi”. Allora, restituendo importanza alla prima
scelta significativa per un prodotto artistico, ovvero il titolo, il cuore di
Breaking Bad si rivela essere il processo di mutamento, o maturazione, del
protagonista che lo porta da una situazione di ordinario ed infelice anonimato
ad essere uno dei signori della droga del New Mexico. Lo stesso caro, vecchio
Karim, che aveva dedicato tempo fa un intero video a Breaking Bad, si era
focalizzato sul cambiamento graduale, costante ed impressionante di Walter
White nel corso delle cinque stagioni, una cambiamento che suscita delle
riflessioni tuttora irrisolte relative alla reale attitudine dello spirito
dello spietato Heisenberg. Ci troviamo di fronte ad una maturazione, ad una
presa di coscienza di uno stato delle cose, ad un mutamento temporaneo del suo
essere dovuto alla malattia o ad una finzione magistralmente orchestrata
dall’inizio alla fine? Cosa si nasconde dietro lo sguardo corrucciato dello
sciagurato prima, e freddo calcolatore poi, WW? Riuscire ad escludere
completamente tutte le ipotesi per lasciarne una solamente appare una soluzione
improbabile, ma potremmo cominciare a ragionare sull’evoluzione di Heisenberg
partendo proprio dal discusso finale.
Ovviamente, parlando di una serie conclusasi qualche anno
fa, non mi limiterò negli SPOILER da questo momento in avanti. Il finale
FeLiNa, che ha diviso la critica nella sua maestosa pochezza e semplicità,
mostra un altro Walt, un uomo che non avevamo ancora visto nel corso delle
precedenti puntate, un uomo che sembra stanco e sconfitto, lontano dal padre di
famiglia e diverso dal malvivente col cappello dei faosi schizzi. Il Walt
finale sembra aver finalmente trovato una sua dimensione, la quale ammette sì
una volontaria complicità nelle attività losche perpetrate nel periodo
precedente, ma ancora non si dà pace per la morte di Hank, per il collasso
della sua famiglia, elemento fondamentale a cui Walt non ha mai voluto
rinunciare, nonostante la sua posizione glielo avrebbe consentito ampiamente in
più occasioni. L’ultimo Walt non appare come un’evoluzione finale del mostro
che era diventato, e neanche il ritorno all’uomo onesto e timoroso della prima
stagione, ma sembra essere piuttosto il frutto di una sintesi di autocoscienza,
l’unione equilibrata di più anime che avevano abitato quel corpo in precedenza,
sempre sovrastandosi periodicamente.
La scena cruciale è quella della morte di Walt,
realizzata in maniera ineccepibile, mostrando uno specchio della sua stessa
anima nel riflesso di un macchinario per produrre blue meth, uno di quei macchinari
che lui e Jesse avevano ottenuto solo abbandonando il camper per assumere una
posizione relativamente importante nello scacchiere di Gus Fring. Quei
macchinari attraverso cui era passata la fortuna e la sciagura dei
protagonisti, invischiati in qualcosa di più grande, chiamati ad essere la
parte peggiore di loro per sopravvivere in un sottomondo disumano. La scena in
cui Walt si specchia nella sua creatura mostra un uomo definitivo, consapevole
della propria parte oscura e consapevole della resistenza della sua umanità.
Accettazione e riconoscimento di sé nello specchio che la vita gli pone davanti
negli ultimi attimi della sua complessa esperienza. L’ultimo Walt sembra essere
insieme il frustrato professore di chimica e lo stratega della malavita, il padre
amorevole che tiene in mano la figlia appena nata e il mandante del’assassinio
di Fring, il malato di cancro oppresso dalla vita e il criminale che ha
lasciato morire la ragazza di Jesse per i suoi comodi. Tutto questo in una sola
sbiadita figura riflessa. Walt capisce infine di non essere stato oggetto di
una trasformazione passiva, ma di essere maturato, di aver mostrato quel lato
oscuro che aveva e che nascondeva da sempre nella repressione che ognuno di noi
attua su se stesso. La maturazione è apparsa mutamento solo in assenza di
consapevolezza della cosa. Maturare è accumulare, costruire sopra, non
insabbiare e rinnegare il passato.
L’ultimo Walter White, padrone della criminalità e
creatore della metanfetamina blu, è soltanto un uomo che ha messo in gioco la
sua realtà e il suo essere per diventare la parte di sé che già era e sentiva
nelle viscere. Baby Blue è l’emblema della sua maturazione, ma anche un
richiamo alle sue radici, all’amata famiglia e all’uomo perbene, frustrato e
sconfitto che non ha mai davvero smesso di essere.
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