Una settimana fa sono andato al cinema per vedere Captain
America: Civil War. Ma questo lo sapete già se avete letto l’articolo di
qualche giorno fa in cui cerco di far emergere i problemi del film. Se non l’avete
ancora letto, leggetelo qui. Poi però tornate a leggere questo, che è altrettanto importante. Ero al cinema dunque, e pensavo: “Sì, carino è
carino, però manca qualcosa”. Effettivamente ho realizzato che, nonostante gli
enormi budget, nonostante una programmazione superlativa (quasi quasi da far
invidia alla DC - eh Zack?!), alla Marvel cinematografica sembra mancare ancora qualcosa
per poter raggiungere la controparte cartacea, e questa eterna tensione al
mondo nerd da cui tutto ha avuto inizio potrebbe non giovare alla lunga ai
prodotti per il cinema. Questo il mio pensiero durante la visione del film. Poi
c’ho ripensato: la Marvel del MCU non punta affatto a ricongiungersi con la
Marvel dei fumetti, anzi, ci tiene a far valere il distacco che le sta valendo
una schiera di nuovissimi fan con evidenti problemi ad approcciarsi ad una
lettura complicata formata da immagini e baloons (immagini grandi, specifichiamolo). I
fan del MCU non sono gli stessi dei fumetti, o almeno non solo, ed anche i più insospettabili, dopo lo scetticismo iniziale, si sono
avvicinati a questa miniera d’oro. Ciò è stato reso
possibile da un nuovo format più semplice, diretto, abbozzato e purtroppo
povero di sviluppo a lungo termine. Un modello di cinema che piò funzionare se
le aspettative sono basse sotto molti aspetti e se ci si accontenta di
entusiasmanti combattimenti ripetuti e prevedibili. E ai fan più puri della Marvel
non è rimasto altro che un cattivo fantoccio all’inizio del film o una scena
post-credits per gioire e far valere le proprie conoscenze pregresse. Conoscenze
che - ricordiamolo - nel migliore dei casi sono costate stipendi, vita sociale,
diverse diottrie e qualche volta un rene. Perché le variant cover possono
costare assai.
Se quindi la Marvel ha evidentemente scelto di costruire
un castello cinematografico stile Disney, prendendo in prestito le basi del
mondo fumettistico, che fine ha fatto il mondo cartaceo di Jack Kirby e Stan
Lee, di John Romita jr e Mark Millar, di George Perez e John Byrne? Che fine ha
fatto lo sviluppo ponderato dei personaggi? Che fine ha fatto quella dimensione
umana che emergeva dalle storie coinvolgenti degli anni che furono? La risposta
è una solamente: Daredevil.
Daredevil è una serie originale Netflix visibile
legalmente (you are a pirate!) solo sulla piattaforma americana. Essa narra
delle avventure del Diavolo di Hell’s Kichen, dalla sua formazione al suo
apprendistato da vigilante, per poi focalizzarsi, nel corso della seconda
stagione, sul vero e proprio operato da supereroe. Ciò che stupisce di
Daredevil, volendo forzatamente sorvolare sulla qualità tecnica eccelsa, sulle
interpretazioni perfette e sull’ambientazione migliore di sempre in una serie
action, è la gestione dei tempi, che a tratti ricorda il miglior Breaking Bad. Nella
serie Netflix nulla è forzato e ad ogni personaggio viene dedicato il giusto
spazio per lasciare allo spettatore la possibilità di collocarlo correttamente
nella ragnatela della narrazione. In questo modo lo sviluppo del protagonista
Matt Murdock, della celebre Nelson e Murdock, avviene in maniera graduale,
ponderata e finalmente credibile. Un modello distante anni luce dalle
raffazzonate trasposizioni sul grande schermo di Thor e Hulk, dall’imbarazzante ruolo dello Shield
e dagli ultimi supereroi comporsi come funghi (leggi Pantera Nera). Una gestione
delle alternanze tra vita diurna e vita notturna del protagonista così
intelligente da rispondere immediatamente alle necessità dello
spettatore: entrambe le linee narrative intrecciate mantengono il loro altissimo
livello d’interesse e la scena si sposta nello spazio e nel tempo proprio
quando la situazione sembra vertere verso la saturazione di informazioni
interessanti. Gli sceneggiatori e il regista hanno dimostrato la rara capacità
di lasciare briciole di suspance, di non detto in ogni scena, e ciò crea un
circolo di dipendenza che alleggerisce incredibilmente ogni episodio, della durata imponente di quasi un’ora.
Tornando ai personaggi, ognuno di loro ottiene uno
spazio sufficiente a maturare una caratterizzazione tridimensionale, superiore
perfino a quella dei protagonisti dei film del MCU. Ma la più grande
innovazione sotto questo punto di vista credo sia la sovrapposizione di storie,
strumento impensabile in ambito cinematografico, se non in rarissimi casi (Loki e il bastone maledetto). Le serie Netflix incentrate
sui supereroi possono infatti vantare un intreccio ben più complesso che si
compone di protagonisti, antagonisti, ambiguità, colpi di scena, ritorni e, come detto,
sovrapposizioni. Ci troviamo così ad ammirare in visibilio l’incontro tra
Wilson Fisk, villain un po’ umano un po’ palla di lardo della prima stagione, e
The Punisher. In questo modo la storyline smette di essere una linea, e
comincia ad assumere maggiormente i connotati di una macchia di sangue rosso
diavolo che si espande lentamente a partire da una sola ed insignificante
goccia, a partire dalla scena in cui il piccolo Matthew perde la vista in
seguito ad un incidente.
Questo nuovo modello di televisione ricalca palesemente la
struttura propria dei fumetti, che in ogni arco narrativo sviluppano differenti
tematiche e situazioni mantenendo pressoché intatti i personaggi principali e l’ambientazione.
Quindi, dov’è finita l’anima dei fumetti, che fino a poco tempo fa ricordavo
associata unicamente alle serie animate di Spiderman e di Batman? Nelle serie
TV moderne. La televisione è la nuova casa dei supereroi cartacei, che tornano in tutto
il loro splendore e lasciano intendere quella meraviglia che un tempo teneva
incollati gli occhi dei vecchi nerd alle pagine e forse oggi appassionerà un
pubblico differente. Un pubblico stanco delle esplosioni e delle battutine
infantili del cinema figlio di Die Hard e Bad Boys.
E poi su Daredevil ci sarebbe ancora molto da dire. Potremmo
parlare di Stick, di Elektra, di Foggie Nelson e di Karen Page, del confronto
sulla giustizia, di Kingpin, dei collegamenti con le altre serie Marvel e della
futura riunione. Potrei parlare per ore del Punitore, ma questo era un articolo
incentrato sulle scelte di casa Marvel, e quindi finisce qui. Tempo per
speculare su Daredevil ci sarà, in attesa della terza stagione o di The
Defenders, chi vivrà vedrà. Qualcosa come “Perché la prima stagione di
Daredevil surclassa di gran lunga la seconda” può andare? Magari con un titolo
più corto e accattivante, magari.
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