mercoledì 30 dicembre 2015

TOP 10 FILM VISTI NEL 2015 - SECONDA PARTE

Evitando dilungamenti inutili, ecco a voi l'introduzione all'articolo che segue. Buona lettura e buon cinema a tutti.


5° POSIZIONE: Control (2007)
Film biografico sulla vita di Ian Curtis, cantante e leader dei Joy Division nella loro breve attività. La prima cosa che salta all’occhio è la scelta stilistica del bianco e nero, scelta quanto mai azzeccata che restituisce in maniera credibile sia gli anni ’70 che la complessa psicologia del protagonista. Il film copre l’intera carriera musicale dell’immenso cantante, dai dischi di Bowie nella cameretta alla tragica fine passando per il successo e le crisi di epilessia. Lo sceneggiatore, consapevole di non poter includere l’intera vita dell’artista in due ore di pellicola, decide di tagliare sul rapporto tra Curtis e gli altri membri del gruppo; ciò risulta anche funzionale nel delineamento del carattere schivo, fragile e solitario del protagonista.
Control è un film in cui non si parla molto, in cui ci sono molti silenzi alternati a brani degli stessi Joy Division; molti passaggi sono oscuri o comunque non avvengono direttamente davanti alla macchina da presa, quasi si volesse lasciare comunque una sorta di riservatezza alla figura di Ian. La sequenza finale nella sua semplice forza dirompente commuove e lascia un gusto molto amaro in bocca, si ha la sensazione che la grave perdita si sarebbe potuta evitare, ma non è stato così. Quando “Atmosphere” parte senza però coprire le grida strazianti della povera Deborah Curtis si ha un tuffo al cuore, un nodo in gola. Scena magnifica.

Da questo film emergono e si mescolano rabbia, dolore, sofferenza, depressione, angoscia e voglia di farla finita. Uno spaccato realistico della vita del giovane frontman poeta che, unito ad una fotografia spettacolare e ad una regia statica e riflessiva, contribuisce a dare vita ad un prodotto imperdibile per gli amanti del punk e della new wave. Se non conoscete i Joy Division, se invece li conoscete e li apprezzate, se amate la buona musica andata, se adorate il cinema, questo è il film che fa per voi.


4° POSIZIONE: Mad Max: Fury Road (2015)
Sostanzialmente penso che il film in questione non sia un capolavoro, ma probabilmente questo giudizio é influenzato dal fatto che il genere action non mi appartiene come altri. Penso però anche di aver visto uno dei migliori film d'azione di sempre. L'azione é la parte centrale del film, occupa circa il 70/80% della pellicola. La regia é dinamica e curata. La fotografia realistica ma al contempo eccessiva e spettacolare. Tutto sembra sopra le righe. L'ambientazione e i personaggi, dal primo all'ultimo, funzionano alla perfezione. L'innovazione del genere femminile al centro di una pellicola culturalmente maschilista alza il livello del prodotto. Finalmente una ventata di novità in un settore per certi versi stantio.
Questa pellicola però presenta dei problemi evidenti che impediscono di raggiungere la perfezione. Il film infatti convince molto più nella prima parte, quando i protagonisti non parlano. Quando invece si raggiunge la prima tregua dalla fuga si ha l'introduzione dei tipici dialoghi stereotipati e improbabili hollywoodiane. Non sono poi d'accordo con Antonio quando dice che il film non eccede mai. Secondo me alcune scene sono volutamente tamarre, ma troppo. A tratti alcune scelte stridono con la durezza e il realismo dell'ambientazione post apocalittica e della carenza di risorse. La trama poi risulta nel suo complesso troppo allungata: non ho apprezzato ad esempio l'introduzione delle donne-guerriere e l'intermezzo inutile con le moto. Alcune imperfezioni che però non intaccano i punti forti del film. Un grande film d'azione che ricorderemo per molti anni a venire e che prenderemo come metro di paragone per le future pellicole.


3° POSIZIONE: Whiplash (2015)
Il panorama odierno è saturo. Prodotti freschi e innovativi, sia nella forma che nella sostanza, spesso annegano nel tentativo di emergere dal mare della mediocrità e della banalità. Whiplash ce l’ha fatto, invece. Tale pellicola è riuscita a raggiungere il successo planetario stracciando ogni canovaccio antiquato e proponendo finalmente qualcosa di nuovo. La scrittura, in particolar modo, mi ha stupito per la capacità di saper intrattenere andando oltre gli stilemi classici e quindi oltre la forma mentis comune. Non abbiamo eroi, non abbiamo background, né morale, né finale strappa lacrime. Non abbiamo lo sviluppo dei personaggi secondari o sottotrame utili ad allungare un medio metraggio per trasporlo sul grande schermo. Abbiamo solo ed unicamente un ragazzo provato dalla sua ambizione giustificata ma ossessiva e un insegnante dispotico e controverso. Due personaggi soltanto attorno ai quali ruota l’intera vicenda. L’unico elemento che poteva farci associare Whiplash alla linea comune del cinema americano era la componente romantica che per pochi minuti tenta di prendersi la scena a dispetto della musica, ma così non è, e lo sviluppo della narrazione dimostra quanto in realtà tale elemento sia stato inserito solo in maniera funzionale al resto della trama portante; e la scena della chiamata a pochi minuti dalla conclusione della vicenda dimostra chiaramente la validità di tale mia affermazione.
Il protagonista in realtà non è né il ragazzo né J.K. Simmons, ma l’ambizione malata del primo che si sviluppa si pellicola attraverso la musica. Teller infatti, consapevole delle sue grandi doti, comincia a focalizzare la sua esistenza solo sulla carriera da batterista, fagocitando in essa ogni altro aspetto della sua vita. il suo obiettivo però non è solo la realizzazione umana che deriva dal successo, ma una vera e propria scalata all’olimpo dei suoi sogni per ottenere la notorietà e quindi il riconoscimento delle sue capacità da parte di persone a lui estranee. Esattamente in questo punto degenera la comune ambizione di ogni essere umano e si sfocia nella profonda problematica interiore che lo porta, anche attraverso la figura del cinici direttore del Daily Mail, a compiere gesti inconsulti e inconcepibile ad un occhio poco attento alle emozioni.
Tutto questo complesso si traduce in profonda tensione emotiva che il regista Damien Chazelle riesce a rendere perfettamente attraverso un’ansia spasmodica crescente che colpisce e coinvolge anche lo spettatore più granitico e insensibile.  L’agitazione del protagonista è palpabile e sfocia nella scena del concerto prima della crisi del protagonista.
Il rapporto tra i due protagonisti è assai solido e convincente, riuscendo anche a generare una sorta di detto - non detto che prende forma definita nel finale, quando non riusciamo a giungere ad un giudizio definitivo sul comportamento del maestro nei confronti del giovane allievo. Chi ha preso gli spartiti del primo batterista? Molte emozioni e molti eventi per la trama fondamentali vengono resi unicamente attraverso sguardi, evitando così abilmente i celebri spiegoni del cinema commerciale e di quello scadente italiano in particolare.
La musica rappresenta quindi la chiave di lettura, o meglio, il linguaggio scelto dal regista per la realizzazione del film, e ciò la rende fondamentale per poter comprendere appieno il senso dell’opera. I brani scelti risultano perfetti nel contesto e le scelte registiche per la realizzazione delle scene più concitate valorizzano ulteriormente la pellicola. Meravigliosa e mozzafiato la scena dell’interminabile assolo finale.
I due attori protagonisti meriterebbero di essere citati molto più spesso quando si parla di interpretazione memorabili; Teller, nonostante qualche piccola sfumatura fuori posto dovuta probabilmente alla giovane età, regala un giovane tormentato e psicotico, stratificato al punto giusto, ma quello che più ha stupito sia me che la critica specializzata è stato J.K. Simmons. Semplicemente magnifico. Un film che andrebbe visto anche solo per le scene in cui è presente questo mio nuovo idolo. Pellicola indipendente di assoluto e indiscusso valore che, dati alla mano, ha incassato briciole rispetto a quanto avrebbe meritato. Vi invito quindi a recuperarlo e a farne tesoro, perché Whiplash è cinema, e questo cinema è meraviglioso.




2° POSIZIONE: I Soliti Sospetti (1994)
È la costruzione a fare il capolavoro. Questo film si compone per la maggior parte di costruzione ed illusione volte ad amplificare il valore di un finale già di per sé sconvolgente e allo stesso tempo meraviglioso. Cinema allo stato puro. D’altra parte ci pensano le enormi interpretazioni dei protagonisti della vicenda narrata (raccontata) ad elevare il livello della produzione e a  tenere testa alla componente più rilevante, quella già discussa della trama appunto. Spacey, superlativo e indimenticabile, spicca sul cast intero e rimane indelebile nell’immaginario comune di ogni amante del buon cinema. La scena finale vale centinaia di altri film idolatrati dalla critica o dal pubblico, ma che mai raggiungeranno la potenza di quelle poche,concitate inquadrature. Di quella citazione che non sto a ricordare, altrimenti  rischierei di rovinare un’esperienza unica a coloro che (purtroppo per loro) ancora devono vederlo. Chi è Kaiser Soze?


1° POSIZIONE: Inside Llewin Davis (2014)
Utilizzo il titolo originale perché la traduzione “A proposito di Davis”, che cerca di strizzare l’occhio alle commedie goliardiche anni ’90, mi è sembrata fuori luogo ed evitabile. Inside Llewin Davis è invece l’album solista che il protagonista tenta invano di proporre ad agenti ed impresari durante l’intera durata del film.
L’ultimo capolavoro dei Coen (in attesa del prossimo “Ave,Cesare!”) è, a mio parere, un film perfetto, privo di sbavature. Uno dei migliori prodotti del 2014, nonostante non abbia ottenuto grandi riconoscimente a livello di critica.
La trama è pressoché assente: la macchina da presa si limita a seguire in maniera compassionevole, ma mai pietosa, una settimana della vita di Llewin Davis. Né un inizio, né una fine. Solo vita. Perché la vita non ha trama, la vita scorre e l’uomo si trova spesso ad essere trascinato dagli eventi senza riuscire a lasciare la sua impronta su questa Terra. Llewin è uno sfortunato musicista folk che, all’inizio degli anni ’60, dopo la morte del partner, cerca di sbancare il lunario e rimanere vivo a dispetto di un mondo a cui lui è inadatto per natura, probabilmente. Gli eventi lo investono e lui riesce sempre e comunque a prendere la decisione sbagliata, non tanto perché sia sbagliata in senso assoluto, ma forse più perché è proprio lui a prenderla. Non possedendo un alloggio, è inoltre costretto a scroccare un posto sul divano di amici, conoscenti, sconosciuti. Tanti gli voltano le spalle e pochi rimangono vicini a lui. Inoltre un figlio in arrivo rischia di uccidere definitivamente il sogno di vivere di musica.
La svolta potrebbe arrivare da un viaggio che Llewin compie verso Chicago alla ricerca di fortune migliori. L’ultima spiaggia. A voi il piacere di scoprirne l’esito.
In tutto questo contesto malinconico e in parte struggente, i Coen riescono a far ridere e sorridere lo spettatore con la loro solita comicità nera e graffiante che prende di mira tutti senza fare nomi. Riusciamo ad affezionarci al protagonista perché tra i due opposti, la vita disgraziata e sfortunata e la comicità sopra le righe, arriva al pubblico in maniera molto naturale, realistica.
Il comparto tecnico come al solito si conferma sopra la media riuscendo a rendere perfettamente le atmosfere gelide della New York degli anni ’60 e a trasmettere le emozioni che il protagonista prova anche attraverso le immagini. La colonna sonora inoltre confeziona il capolavoro innalzando a dismisura il livello del prodotto.
Il messaggio dei fratelli Lumiere è quello di non giudicare mai il clochard che troviamo per strada, l’artista di strada, colui che soffre, che tenta, ma che non riesce a trovare mai la chiave per aprire la porta giusta. Chi sbaglia, chi pecca e chi perde oggi e anche domani, perché molto spesso l’insuccesso, la fatica, la povertà e l’infelicità sono condizioni dettate dalla fortuna, più che dalle doti o dalle scelte. A volte compatire senza provare pietà è la scelta migliore. Semplice poesia.


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