domenica 28 febbraio 2016

I 5 MOTIVI PER CUI THE HATEFUL EIGHT MERITA L’OSCAR

Ogni anno, di questo periodo, ci riscopriamo tutti critici cinematografici in concomitanza con la premiazioni dell’Academy Awords, per gli amici Oscar. Il problema in sé non sussisterebbe neanche; non è poi cosa così negativa un interessamento profondo e approfondito per la settima arte e la discussione aperta non è strumento da sottovalutare. Il problema è che siamo italiani, la distribuzione ci snobba propinandoci un mese di Zalone, ma noi non demordiamo e, ancora convinti dell’importanza delle nostre parole, ci gettiamo in previsioni azzardate avendo visto uno, o massimo due, film tra quelli in concorso. Ma questo è un altro discorso, e avendo già discusso qui con Antonio dell’importanza, della formula e del peso dei premi, non mi dilungo oltre.
Il punto su cui vorrei focalizzarmi maggiormente è l’esclusione forzata dell’ottavo film di Quentin Tarantino dalla lista dei papabili al premio più ambito. Una scelta dettata probabilmente da gusti tendenzialmente poco progressisti e da decisioni prese a tavolino per favorire un determinato mercato. Quentin, con “The Hateful Eight", si è confermato nuovamente “Il regista più influente della sua generazione” e ci ha regalato un’altra perla di lucentezza spendente da custodire ancora per molti decenni. Ecco quindi i cinque motivi per cui The Hateful Eight meritava il premio Oscar come miglior film:



1 - IL CONCEPT
In questi ultimi anni abbiamo imparato ad apprezzare maggiormente film di stampo teatrale, o tratti direttamente da pièce specifiche grazie anche ad un evoluzione in questo senso del cinema (ormai) di genere francese. Nessuno però finora aveva osato traslare tale formula, in via di perfezionamento, in un sottogenere innovativo come il thriller psicologico. Il risultato è una commistione di tendenze di carattere tarantiniano che riprende Agatha Christie e Carpenter e restituisce un quadro generale innovativo e sorprendente nella sua solidità narrativa e stilistica (merito anche delle trovate del maestro). L’idea di far coesistere insieme la violenza, lo splatter, la tensione emotiva, la storiografia americana e quegli odiosi otto sotto un tetto poteva risultare vincente solo tra le mani del migliore. Chapeau.

2 - LE INTERPRETAZIONI DEGLI ATTORI
Ne hanno già parlato in troppi della qualità delle interpretazioni di questo film, ma spendere ancora due parole credo sia necessario. Ciò che troppo spesso non viene considerata per dare un giudizio complessivo dei film di Tarantino è la qualità generale delle interpretazioni; da distinguere dalla somma di quelle specifiche. Troppo spesso i personaggi del regista vengono etichettati come sopra le righe e quindi considerati più semplici da interpretare per attori con un minimo di qualità. Ma tutto ciò è una minimizzazione dell’effettiva grandezza delle singole prove, che vengono appiattite e banalizzate al fine di essere poi criticate, al fine di sminuire il lavora meraviglioso di un abile plasmatore di fantasie. La qualità propria dell’interpretazione di un attore come l’ultimo Tim Roth, presa e trapiantata, con le giuste misure, in qualunque altro film in concorso quest’anno, risulterebbe senza dubbio svariate spanne superiore alle altre; ma, in The Hateful Eight, viene soppesata diversamente e si perde nel livello generale. Alla base di questa generalizzazione sta una mancanza nel dovuto apprezzamento delle interpretazioni del film, le quali non si perdono in sentimentalismi, non cedono al piacere comune e mantengono un’integrità unica dall’inizio alla fine. E poi c’è Samuel che, nella perfezione complessiva, perfeziona la perfezione e supera, almeno a parer mio, le sue migliori prove in accoppiata col pazzo Quentin. Una prova che sarebbe valsa in qualunque produzione del mondo svariati premi, ma che in questo caso passa quasi inosservata dalla critica. un po’ un’ingiustizia.

3 - LA COLONNA SONORA DI ENNIO MORRICONE
Lo so, lo so. Questo punto era molto scontato, ma stiamo parlando di uno dei tratti distintivi di questo capolavoro, al punto da sembrare, in alcune sequenze, il nono degli odiosi otto nell’emporio della sciagurata Minnie. Alcuni brani sono un concentrato di tensione pura e senza questi difficilmente il film sarebbe riuscito a trasmettere le stesse eccessive sensazioni di ansia, oppressione e timore. Il ritorno prepotente di un gigante della musica e del cinema. Il riconoscimento della statuetta credo gli verrà poi comunque concesso, ma la soddisfazione di un autore di questo calibro passa anche dal riconoscimento della qualità del prodotto da lui musicato, considerato anche il peso di queste note.  Non aspettiamo che sia passato a miglior vita per idolatrarlo, come abbiamo fatto con qualcun altro altro altro.

4 - IL RITMO
Questo punto si collega direttamente con la scelta del concept iniziale e assume un significato soprattutto in relazione ai precedenti lavori del regista. Il ritmo denota ancora l’evoluzione della creatura cinematografica di Quentin che, proprio quando sembra aver trovato una stabilità duratura, stupisce e rimescola le carte in tavola. Uno dei film che più apprezzo del regista statunitense è appunto Jackie Brown, bistrattato inizialmente dal pubblico e in parte dalla critica per la sua lentezza. Negli ultimi anni, invece, Quentin ci aveva abituato a ritmi folli o quasi con produzioni molto più movimentate e coinvolgenti quali Iglourious Basterds e Django Unchained. Ma il cinema non è solo questo. È anche riflessione, è anche dialogo. Ed ecco che il sommo torna a cambiare registro proponendo un ritmo che, sulla falsa riga della pièce teatrale, e ripercorrendo una sorta di divisione in capitoli che assomigliano spesso ad atti, si propone come la trasposizione di una lenta marea, composta di alti e di bassi, che mantiene incollato lo spettatore alla poltrona e gli mostra nuove vette di intrattenimento ricercato e non adatto a tutti.

5 - IL SOSTRATO
E per ultimo il punto più significativo e indubitabile che conferma la grandezza di una sottovalutata pellicola in 70mm. Per sostrato intendo l’accurata costruzione storica di fondo che sostiene, giustifica e rende credibile le storie dei vari personaggi. Nello specifico il sostrato di The Hateful Eight si focalizza sulla guerra civile americana. In questo caso però Tarantino non ha voluto tinteggiare uno sfondo realistico sul quale muovere i suoi personaggi, e non ha voluto neanche accentrare l’attenzione di eventi esterni sulle vicende del film; ed è proprio in questa mediata scelta mirata che ha saputo innovare se stesso e un modello ormai stantio nel cinema contemporaneo. Le singole storie degli odiosi otto sono intrecciate strettamente con il tessuto al quale appartengono gli uomini che hanno decretato la fine della guerra civile e i personaggi principali, chi direttamente, chi indirettamente, vedono le loro azioni profondamente condizionate dagli eventi passati vissuti sia in prima persona che da spettatori. Al contempo però questo quadro generale,decisamente realistico e politicizzato, viene messo in relazione con il piano degli eventi narrati direttamente dal regista, ossia quello presente all’interno dell’emporio di Minnie. In questo luogo angusto infatti la guerra civile è un eco che muove i protagonisti, ma non gioca il ruolo da protagonista della vicenda, restituendo così una narrazione secondaria sviluppatasi e conclusasi nella periferia della storia che conta. Un bilanciamento di livelli narrativi che stupisce e denota un livello di scrittura non raggiunto da altre produzioni in concorso.




Con questi cinque schematici punti non vorrei avervi fatto credere che questo film sia perfetto. In realtà infatti molte dinamiche tra i protagonisti e diverse scelte sarebbero potute essere diverse e magari avrebbero accontentato maggiormente il pubblico medio, i fan di Quentin e la critica. Ma il maestro è un po’ come le scale: a lui “piace cambiare”. E allora è nell’imperfezione che possiamo tornare a sperare che Tarantino si superi ancora, che possa regalarci, nei fantomatici due film che gli restano da girare, l’apice del suo Cinema. E l’imperfezione di questo febbraio è senza dubbio un’imperfezione da Nobel, o quantomeno da Oscar.

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