Questa settimana il regista americano Jonathan Demme è
venuto a mancare dopo una lunga malattia. Etichettato come mestierante, dopo gli
esordi nella commedia, raggiunge l’apice della sua carriera tra il ’91 e il ’93,
dirigendo due capolavori assoluti del cinema contemporaneo: “Il silenzio degli
innocenti” e “Philadelphia”. Per questo breve omaggio vorrei concentrarmi sul secondo, quello probabilmente
più complesso, più sentito, più politico.
“Philadephia” è la storia di un processo, ma anche di un
paese. Andy Beckett - interpretato da un fragile Tom Hanks - è un avvocato di
successo nella Philadelphia dei primi anni ’90. Egli è gay e malato di AIDS, ma
questo non gli impedisce di portare a termine egregiamente i suoi compiti di
avvocato. Le cose cambiano quando una ferita evidente sul suo volto, segno
della malattia, spinge i suoi superiori a licenziarlo con un losco espediente.
Andy, reietto della società, avrà bisogno di un supporto legale per sostenere
la causa contro quello che era stato il suo stesso studio legale. Troverà il
sostegno necessario in Joe Miller, avvocato nero popolare, interpretato da Denzel
Washington.
“Philadelphia” vive grazie alla sua collocazione
spazio-temporale, ma il messaggio di fondo che si fregia di portare eleva la
pellicola a capolavoro senza tempo. Il film si apre con una sequenza di
immagini della città che scorrono sulle note di Bruce Springsteen. È una città
sporca, complessa e divisa, che vive nello sfarzo dei quartieri alti e della
miseria del ghetto. È una città che si chiude su se stessa e non ammette
eccezioni. Sono gli anni più tristi, del dissenso e del razzismo, del boom
economico di facciata e del degrado mondiale. La musica di Springsteen poi
esalta questo senso di solitudine degli individui soli nella massa. Si
percepisce il gelido vento di un inverno impietoso che mette da parte i
sentimenti. In questo quadro complesso, Andy Beckett è l’eccezione che sfugge
alla categorizzazione: l’uomo bianco, benestante avvocato di successo che si scontra
con l’emarginazione e l’abbandono degli ultimi. E la società degli avvocati,
dei festini al caviale non esita un secondo ad abbandonare il suo figlio, in
nome del bene comune, della rispettabilità.
Dall’altra parte Joe Miller, avvocato degli ultimi, colui
che ha visto naufragare la sua carriera nelle pratiche comuni degli ultimi. Più
famoso dei suoi colleghi altolocati per una pubblicità virale in tv, Joe vive
il suo ruolo lavorativo in maniera diversa: non frequenta posti di classe,
tiene molto alla famiglia e alla neonata figlia, passa il suo dopolavoro a bere
al bar del quartiere con i più miseri, talvolta con i suoi stessi clienti. Fin dal
principio si percepisce un senso di mancanza nel personaggio di Joe, che non
rispecchia nella pratica la sua stessa ambizione e soffre di una ghettizzazione
ideale che, collegata alla scena d’apertura, trova la sua ragion d’essere nel
colore della sua pelle. Nonostante questa caratterizzazione però Joe non è
affatto un eroe, e l’essere cresciuto all’interno di questa città malsana si
rifrange nella sua visione delle diversità. Il personaggio di Denzel Washington
è infatti inizialmente riluttante ad accettare la proposta di Andy, ma il senso
di difesa degli ultimi lo porterà a sfidare i suoi stessi pregiudizi per veder
trionfare la giustizia.
Nel film, il discordo che prende piede con L’AIDS si
allarga all’orientamento sessuale di Andy e alla chiusura di una società
bigotta in contrasto con l’apertura di un mondo in movimento. Lo stesso Joe
infatti esprime a più riprese il suo disgusto, il ribrezzo fisico che prova al
solo pensiero di due uomini in atteggiamenti intimi. Ma se a parole la sua
posizione non muta nel corso degli eventi, qualcosa in lui cambia dal punto di
vista personale. Sono due scene in particolare a rappresentare gli snodi dell’evoluzione
del personaggio di Joe Miller: quando rivede Andy ammettere la propria
omosessualità davanti alle telecamere e quando il suo cliente, ormai amico, tenta di trasmettergli il
senso d’isolamento a cui è stato relegato dalla società attraverso la lirica di
Maria Callas. Joe sta inoltre per l’intero genere umano, chiamato nei primi anni
’90 ad un cambiamento epocale, ad un’apertura definitiva verso le sfumature di
cui si compone il mondo. Entrando in contatto con Andy, egli scopre l’umanità
di un gruppo di persone apparentemente diverso, la normalità di una famiglia
che ha accettato senza riserve un modo d’essere e le difficoltà di confrontarsi
giornalmente con un sistema che azzera la personalità nel luogo comune della
regola.
Il processo di Andy è il luogo della diversità che vince
sulla paura che da sempre regola le interazioni impersonali. Le discriminazioni
sul posto di lavoro e le battute infantili nell’ambito privato. Perché ancora
oggi, con la forza del riconoscimento delle unioni civili, riusciamo a trovare
l’ilarità nella discriminazione in larga scala. Ancora oggi sappiamo scindere
benissimo il mondo tra chi vive nella maniera corretta e chi pecca nelle sue
scelte, ma non riusciamo a vedere il fondo di ogni vita, che è la base di un
essere umano comune, con le sue ombre, le sue fragilità. Non dovrebbe essere permessa la negazione della libertà e della dignità, valori ultimi che reggono l'umanità dell'essere.
Il processo di Andy è il processo evolutivo a cui era
chiamata quella buia popolazione di Philadelphia, a cui noi siamo chiamati
ancora oggi, nel moto a ritroso del nostro medioevo spirituale. Perché la
trasformazione sociale potrà dirsi compiuta quando l’ultimo uomo avrà letto e
compreso l’anima del prossimo, dell’ultimo. Quando egli avrà trovato se stesso nella sofferenza dell'altro.
E questo valore assoluto rimarrà, anche dopo la morte di
Jonathan Demme.
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