sabato 30 aprile 2016

NETFLIX E LA FINE DELLA VITA SOCIALE

Qualche errore l’ho commesso anch’io, seppur sia su questa Terra da appena vent’anni. Avrei potuto fare scelte diverse, avrei potuto insistere, mi sarei dovuto comportare diversamente in alcuni frangenti. Ma l’errore più grande in assoluto è stato indubbiamente l’abbonamento a Netflix, stipulato appena un mese fa. Una mossa avventata che non aveva tenuto conto dell’effetto sanguisuga che il servizio comprende e al quale lo spettatore acconsente appena clicca su “accetto” nell’atto di iscrizione. La fine. Una volta mi piaceva il mondo là fuori, ora mi piace stare a casa a contare quanti Giappocinesi ninja ci sono a Hell’s Kichen (e quanti di essi si contano in realtà due volte, data la loro passione per Gesù). Una volta ridevo con gli amici al pub vicino, ora passo le mie giornata a controllare cosa fanno i ragazzi scapestrati del MacLaren’s. Una volta cercavo in tutti i modi di evitare la vista del sangue e mi sentivo mancare in occasione dei prelievi, ora mi esalto ogni volta che i pazienti di Foreman (che rimane sempre il migliore) trasformano magicamente il loro lettino nel Mar Rosso.


È inutile fingere che non sia nulla, la verità è che la vita di un ragazzo cambia quando comincia a frequentare siti come netflixlovers.it; cambia il modo di rapportarsi con gli altri, di vedere la realtà. Cambiano le abitudini, cambiano i tempi vitali. L’altro giorno ero in università e, al termine di una lezione, incuriosito da alcuni interrogativi lasciati in sospeso dalla professoressa, ho cercato di cliccare invano il tasto “Guarda prossimo episodio”. Ho premuto sul quaderno, Capite?!? Spero non mi abbia notato nessuno.
Ormai Netflix è diventato parte della routine. Sveglia la mattina, Netflix. Colazione, Netflix. Trono polifunzionale dell’uomo medio che non deve chiedere mai (a meno che non manchi qualcosa), Netflix. Pausa di mezz’ora tra due lezioni universitarie, Netflix (e anche cibo a dire il vero - le ore da due ore sono lunghe). Dormiveglia a letto, Netflix. Vedo rosso. Mi sembra di essere Aziz Ansari, ma bianco, e questa è una battuta razzista che lui stesso avrebbe denunciato nella sua serie. Mi sto perdendo.
E, come se non bastasse, ci sono anche i film, i documentari, i cartoni animati, gli anime (che poi sono anche un po’ cartoni animati), i Pokemon. I POKEMON? La mia vita sociale è davvero giunta al tramonto per le serie animate dei Pokemon? Tutto questo panorama ti impedisce di non trovare qualcosa in cui investire il tuo tempo a tempo perduto, qualcosa che faccia esclamare al tuo cervello assuefatto: “Ehi, questa serie in cui Ashton Kutcher fa il giocatore di football mandriano e non è mai credibile ma proprio mai è proprio quello che stavo cercando da sempre, fammi cominciare e finire la prima stagione nella stessa notte insonne!”. Maledetto Ashton Kutcher, ci sei sempre di mezzo tu.


Qualcosa però mi sfuggiva: come poteva questa piattaforma rivoluzionare avere lo stesso dannoso effetto su tutti i suoi abbonati? Dov’era il trucco per netflixizzare tutte queste masse? E poi mi sono dato una risposta: Netflix marcia sulla pigrizia dell’uomo moderno. Vuoi iniziare una serie ma non sai quale scegliere? Netflix sceglie per te attraverso la barra dei consigliati. Vuoi vedere l’ultimo episodio della tua serie preferita ma non hai un briciolo di voglia di accendere il portatile? Netflix arriva anche sul cellulare. Ti stanchi a ricordare il numero della puntata a cui sei arrivato? Netflix riproduce la tua serie dal secondo esatto in cui l’hai interrotta l’ultima volta. E poi cerchi di disintossicarti, cerchi di evitare la grande X per qualche giorno. Ti convinci che la primavera renda tutto più bello, che le persone là fuori siano anche interessanti, magari quando parlano poco; ma poi il dito capita sempre lì. Apri quella pagina e la piattaforma ti chiama per nome: “Mattia, continua a guardare…”. E a quel punto ci rinunci. Pigiama, copertina, tè caldo e si cerca di scoprire chi abbia ucciso il giovane e innocente Danny Latimer.

Ma così non va, credetemi. Non possiamo passare i migliori anni della nostra vita davanti ad una tavoletta a vivere la vita degli altri. La nostra storia aspetta solo noi per prendere forma e inebriarci con inaspettate soddisfazioni. Il vento soffia fuori di noi, dobbiamo solo spalancare le braccia e lasciarci cullare nel meraviglioso ballo della vita. Adesso però scusatemi, hanno annunciato lo spin-off di The Punisher e devo ancora recuperare la prima di Jessica Jones. Ci si vede in giro. Forse.

venerdì 29 aprile 2016

LUI È TORNATO - PERSONAL HITLER

Anno 2014. Il Fuhrer glaciale, conosciuto come Hitler, si risveglia. Queste sono le avventure delle nuove SS.

“Lui è Tornato” non è solo una commedia e non è neanche da intendere solamente dal punto di vista satirico, nonostante una rara vis comica. Questo film tedesco rappresenta uno spaccato della situazione attuale, mette in scena cosa accadrebbe se tutto l’odio spaventato della nostra bella Europa riprendesse le sembianze tangibili di un uomo con i baffetti squadrati.
L’opera comincia in maniera surreale e finisce allo stesso modo, ma nel mezzo si trova la realtà, un’istantanea violenta che lascia trasparire un complesso di negatività che tutti percepiscono sulla loro pelle giornalmente, ma di cui nessuno parla. Lo scrittore, autore del soggetto, Vermes è riuscito ad esprime un’opinione complessa e ultimamente accantonata riguardante il forsennato revisionismo storico che ci vede costantemente coinvolti come popolo europeo, atteggiamento ormai accettato apertamente. Attraverso la figura di Hitler, l’autore ha voluto creare un parallelo evidente tra la realtà degli anni ’30 e quella dei nostri giorni, andando a sottolineare le affinità che rendono possibile il successo del vecchio nuovo che avanza. Ciò che si trova scritto a caratteri cubitali in ogni libro di storia è che Hitler ha avuto la possibilità di fare ciò che è stato sfruttando abilmente la situazione politica ed economica della Germania dell’epoca. Allo stesso modo, il nuovo Hitler comincia a raccogliere consensi tra la popolazione divertita proprio facendo leva sulle difficoltà del popolo, proprio scendendo a patti con coloro che guardano al mondo dalla loro infima e limitata prospettiva. Promettendo singolarmente ed evitandosi scrupoli morali.


E se fosse davvero così? Se l’evoluzione che abbiamo vissuto in questo secolo fosse solo una facciata, la forma progredente di una sostanza regressiva? Nella finzione del film è questo che appare: una società arrabbiata dalla situazione che non trova vie attraverso cui comunicare quest’odio profondo verso il prossimo, il diverso e aspetta solo l’occasione per rifugiarsi nella figura del condottiero, dell’uomo retto che sovrasta le singolarità altrui per fare pulizia in un mondo sporcato dal multiculturalismo.
Se allo stesso modo descritto nel film, domani si presentasse all’opinione pubblica un uomo tutto d’un pezzo, uno stereotipato self-made man che promettesse il ritorno ad un mondo passato, chiuso, bigotto e profondamente violento, pensate che il popolino faccia tesoro della memoria storica per allontanare il personaggio sui generis o che lo accolga a braccia aperte come salvatore della patria, come baluardo di una tendenza che tutti noi nascondiamo al nostro interno? Esempi minori di questo movimento interiore, che troppo spesso sfociano in politica antiumana, sono purtroppo presenti e giornalmente ci troviamo ad affrontare le sporche bassezze di Salvini, il militarismo ostentato di Casa Pound, la xenofobia oltraggiosa dei Le Pen, l’ignoranza pericolosa di Trump; rimanendo soltanto nell’ambito occidentale. E come se non bastasse, il finale dell’opera colpisce con vigore lo sprovveduto spettatore, che fino a quel momento ha riso e scherzato con gli amici. La sequenza finale del film nel film riporta il pubblico alla realtà e dà una nuova interpretazione dell’odio comune che la parte rancorosa di noi cova in estremo segreto: le storie sulla presunta sopravvivenza del Fuhrer potrebbero essere vere, o almeno lo sono idealmente, perché quel peso dell’orrore delle gesta di Hitler continua ad esistere in ognuno di noi. Hitler vive in ognuno di noi, è parte integrante del nostro inconscio ed emerge sporadicamente a tagliare la realtà con una lama lurida del sangue di ogni innocente coinvolto nella follia omicida dei totalitarismi.
Ogni volta che crediamo alle parole isolanti di fantocci aizzatori, ogni volta che abbiamo paura degli altri, ogni volta che pensiamo che la chiusura sia la chiave per l’uscita dalla crisi che ci attanaglia la stiamo dando vinta al nostro Personal Hitler. Ogni volta che apriamo la bocca per odiare ciò che non conosciamo, ciò che crediamo di sapere basandoci sulle parole di altri, ogni volta che perdiamo l’occasione di accogliere il mondo in silenzio ci allontaniamo dal nostro personal Jesus.

Non alimentiamo il nostro Hitler con parole d’odio e facili violenze contro quest’incomprensibile realtà. Facciamo valere il valore storico del nostro passato e del nostro presente, ribelliamoci al revisionismo storico nazifascista, ribelliamoci ad una società violenta improntata sul sistema di gravità. Facciamo in modo di farci trovare pronti quando lui e lvi torneranno davvero.

martedì 26 aprile 2016

L’ESORCISTA È IL MIGLIOR HORROR DI SEMPRE?

Fino alla scorsa settimana non possedevo il DVD dell’Esorcista. Mancanza mia, mancanza enorme, lo ammetto. Ma poi, in occasione dei #cinemadays, mentre aspettavo che chiamassero i possessori del biglietto, manco fosse l’imbarco dell’Oceanic 815, mi sono recato in un negozio di elettronica all’interno dello stesso centro commerciale nel quale è situato anche quel cinema che fa ascoltare a tradimento le top hits di Alessandra Amoroso (per non dimenticare) e ho trovato la prima stagione di Royal Pains. E che c’entra con l’Esorcista? Ora ci arriviamo. La suddetta prima stagione era in super offerta alla ridicola cifra di due euro, come lasciarla sullo scaffale? Effettivamente avrei potuto lasciarla ivi, considerando il fatto di non averla ancora estratta dal cellophan, ma è proprio grazie a questo acquisto che ho potuto recuperare il DVD dell’Esorcista. Come? Ora ci arriviamo. Mentre mi recavo alla cassa per pagare con una monetina in mano, mi sono lasciato prendere dalla vergogna di andare alla cassa con una monetina in mano e mi sono convinto della necessità di accorpare Royal Pains ad una spesa più sostanziosa. Così, girando e rigirando sostanzialmente gli stessi titoli ho trovato Creepshow (di cui parlerò poi). Occhei, questa storia si sta dilungando troppo; accorciamola: vicino a Creepshow, che effettivamente cercavo per necessità, ho trovato anche l’Esorcista, in versione integrale. E quindi, avendolo visto solo un paio di volte in prestito, mi sono deciso a comprarlo ad occhi chiusi. E poi sono inciampato. E poi ho riaperto gli occhi.


Il dettaglio che mi ha colpito di più della copertina è stata la tagline in basso: “Il miglior film horror di tutti i tempi”. E per avere conferma di questa frase magniloquente, ho rivisto il film. Confermo la mia idea iniziale: mi dissocio. Personalmente non riesco a considerare l’esorcista il miglior film horror di tutti i tempi perché fondamentalmente non l’ho mai considerato un horror, e l’ultima visione non ha cambiato la mia posizione. A mio parere la grandezza di un capolavoro come l’Esorcista sta proprio nell’uso che fa dell’orrore, il quale viene relegato a sfondo di una vicenda, mezzo attraverso cui raccontare un’esperienza di fede. Alcuni elementi ci lasciano intendere la volontà dell’autore e del regista di focalizzare l’attenzione sulla narrazione della vicenda spirituale e personale del prete- psichiatra Carras, muovendo il genere stesso del film verso il thriller psicologico.
Innanzi tutto la caratterizzazione dei personaggi: quelle che sembrerebbero essere le protagonisti della vicenda, ovvero madre e figlia MacNeil, successivamente posseduta dal diavolo in persona, mostrano una caratterizzazione a tratti grezza e superficiale che non indaga quanto presumibilmente dovrebbe la questione della spiritualità della famiglia in relazione alla sciagura che le colpisce. Ciò che maggiormente emerge è il rapporto familiare, funzionale alla giustificazione di alcune reazione ben precise. A questo duo di personaggi, per certi versi bidimensionali, si contrappone la coppia di esorcisti, che ruba la scena nell’ultimo atto dell’opera. Carras e Merrin si ergono in ultima battuta come veri protagonisti dell’opera, vittime di una prova, fautori del cambiamento e soggetti di una maturazione che arriva a compimento solo nel tragico finale. La questione del ritrovamento della statuina-feticcio del demone sarebbe molto interessante da analizzare e l’enigmatica figura del prete-archeologo Merrin richiederebbe una profondo approfondimento, ma vorrei concentrarmi maggiormente sulla figura del greco Carras, quella a cui lo stesso regista Friedkin ha dedicato maggiore spazio.


Carras ci viene presentato fin da subito come un uomo sofferente, schiacciato dalla sua occupazione avida di soddisfazioni, incastrato in una complessa e drammatica situazione familiare ed in preda ad una profonda crisi spirituale. Egli non crede più alla fede attorno alla quale, volente o nolente, ha costruito la sua stessa scarna vita. Attraverso il dubbio di fede egli mette in discussione anche e soprattutto il suo percorso di vita. Comincia così ad entrare in un denso vortice di tristezza e delusione che sembra non avere fine. La morte della madre sembra essere il colpo di grazia ad una vita vuota che appare ormai privata dei significati religiosi che un tempo poteva vantare dinanzi ad una comunità, anch'essa ormai troppo distante dal prete greco.
La morte della madre non ci viene rappresentata direttamente, non veniamo coinvolti in prima persona in questa complessa discesa negli inferi dell’umana natura, ma rimaniamo spettatori in un contesto disagiato che sospira sofferenza. In seguito alla perdita, Carras si isola maggiormente dalla comunità a cui appartiene e comincia a svestire i panni dell’uomo vuoto di fede. Una simbologia emblematica legata a questo cambiamento l’avevamo già ottenuta in occasione della visita in ospedale alla madre, quando una delle pazienti strappa il collarino all’uomo di chiesa, portandosi via anche la Chiesa che dimorava in lui. A questo punto Carras sembra assecondare la sciagura, diventa complice del male che lo colpisce e aiuta la sofferenza a scavare la sua stessa fossa. Comincia a sentirsi colpevole delle disgrazie e delle mancanze che lo hanno colpito. Sembra sempre più vicino ad abbandonarsi ad un gesto estremo quando, inaspettatamente, sembra intravedere un’ancora di redenzione proprio nella vicenda principale del film, la possessione della giovane Regan. Il suo coinvolgimento negli eventi non appare mai casuale: ricordiamo infatti che lo stesso prete era presente fin dalla prima apparizione della madre della bambina all’inizio del film, durante le riprese del film che l’attrice stava girando nella finzione della cupa Georgetown. Un intreccio di storie che quindi appare segnato fin dall’inizio. Come si colloca quindi l’episodio dell’esorcismo nel percorso personale di Carras? Per rispondere in maniera adeguata a questa domanda profondamente filosofica dovremmo perderci nella teodicea e nell’analisi meticolosa del rapporto storico e temporale tra Dio e suo figlio Satana, ma ciò occuperebbe uno spazio eccessivo. Diamo per assodata quindi l’esistenza di Dio asserendo come riprova l’esistenza tangibile del male, come visto nelle apparizioni sui muri e sul mobilio della casa delle protagoniste e come dimostrato poi nel finale. Potremmo interpretare le coincidenze che portano all’incrocio apparentemente fortuito delle storie dei protagonisti come un disegno voluto da Dio per significare un percorso di vita smarrito da Carras e contemporaneamente contrastare la presenza ingiustificata del male nel corpo di un’innocente dodicenne. Attraverso l’esorcismo della piccola Regan, Carras è invitato a redimersi, a spogliarsi dei pesi che il tempo e le scelte della vita hanno posto su di lui. Dio gli conferisce finalmente la possibilità di mostrare il suo valore e la profondità del suo credo di fronte al Signore. L’uomo si lascia infatti convincere dalla contingenza degli eventi, rimette gli abiti del sacerdote e si prepara al’ardua battaglia psicologica con il demonio in nome di Dio, riponendo in Lui la sua persona e tentando di fugare i suoi dubbi di fede e di vita attraverso la fede stessa. Ma il peccato è andato troppo oltre e la redenzione definitiva può arrivare solo attraverso la morte degli esorcisti. Il male può essere vinto solo dalla fede più pura, quella che non teme più la morte, e così avviene.


Il titolo del film non è “Possessione”, né “L’Esorcismo”, ma “L’Esorcista”, e la scelta delle parole in una pellicola così pregna di significati mistici la dice molto lunga sulle intenzioni dello sceneggiatore e del regista. Alla luce di quest’analisi sommaria, e volutamente priva di riferimenti alle scene più forti della seconda metà del film, mi risulta difficile catalogare questo classico senza tempo come un film horror, come un prodotto che ha come primo intento quello di terrorizzare lo spettatore. L’Esorcista non è forse il miglior horror di tutti i tempi, ma un thriller psicologico di questo calibro, così profondo e complesso nella lettura dei suoi significati celati, difficilmente riusciremo a vederlo ancora al cinema.

giovedì 21 aprile 2016

FIVE BY FIVE #14

Sì, sono ancora io. No, non ho sbagliato giorno. Sì lo so, è passata solo una settimana e non le solite due. Ma è stata una settimana ricca di avvenimenti: cè stato il primo weekend del Coachella e anche questanno non ci sono andato perché non cho soldi, stesso motivo per cui ieri ho passato una giornata completamente sobria nonostante fosse il 4/20. Tanto cè la musica, basta quella , no?


City Sun eater in The River of Light - Woods
Certe volte arrivo tardi. Oltre che alla fermata del pullman la mattina, intendo. Certe volte “scopro” o mi consigliano gruppi che poi scopro (senza virgolette stavolta) avere una discografia bella lunga o bella e basta. Ad esempio i Woods. Loro sono di Brooklyn ma suonano come se venissero da qualche posto sperduto nel deserto americano in mezzo alle rocce dalla forma strana e Beep Beep. Mentre fumano una canna avanzata da ieri, a giudicare dalle chitarre in levare e dai suoni psichedelici che spuntano qua e là.  È da pochissimo uscito il loro nuovo album City Sun Eater in The River of Light che sì ha un titolo abbastanza mistico-inquietante ma vi assicuro che rimarrete soddisfatti.
Da ascoltare: Morning light


SEPT. 5TH - dvsn
Altre volte arrivo prima. I dvsn ed il loro R&B misto ad elettronica li ho scovati su SoundCloud più di qualche mese fa, li ho messi tra i “preferiti” e poi me li sono un po scordati. La mia noiosa esistenza procedeva noiosamente finché il duo canadese è stato recensito (bene) da nientepopodimeno che Pitchfork e la loro pagina Facebook ha guadagnato qualcosa come 400 “mi piace” in pochi giorni. Ah, gli hipster, che creature affascinanti. Al di là delle curiose dinamiche dei social e dei risvoltini, SEPT. 5TH è un ottimo album, forse tra i migliori di questa prima parte del 2016 e ne consiglio caldamente lascolto. Di notte è meglio. Lo so, dovrei smettere di ascoltare la musica di notte e dormire invece.
Da ascoltare: Do It Well


Three Men And A Baby - Mike & The Melvins
Nella puntata scorsa si parlava di AURORA che senza nessun pudore e rispetto nei confronti di noi gente inutile ha pubblicato un album bello bello a 19 anni. Faccio ancora fatica a scriverlo. Questa volta parliamo di chi ci ha messo quasi tanti anni quanto quelli di Aurora, 17 per lesattezza, per pubblicare un album già registrato. Parliamo di Three Men And A Baby dei Mike & The Melvins, progetto nato, e a questo punto quasi maggiorenne, dalla collaborazione tra Mike Kunka e i Melvins nel lontanissimo 1999. Lalbum non è nemmeno questo gran capolavoro in realtà, è un lavoro alternative-metal mediamente interessante, ma ci hanno impiegato talmente tanto a farlo che dispiace non ascoltarlo.
Da ascoltare: Chicken n Dump


Barbara, Barbara We Face A Shining Future - Underworld
Non ci si pensa mai ma la musica elettronica ha la sua bella età. Non è più solo musica per ggiovani, insomma. E non sono nemmeno più solo i ggiovani a farla. Gli Underworld sono in giro dagli anni 80 ma a non hanno perso lo smalto e hanno confezionato un album che avrebbe molto da insegnare ai vecchi e ai nuovi. Ecco, forse loro potrebbero imparare a inventarsi titoli leggermente più brevi per i loro album perché Barbara, Barbara We Face A Shining Future è molto suggestivo ma ogni volta che lo dico sembra stia recitando qualche poesia.
Da ascoltare: I Exhale


Distance Inbetween - The Coral
Probabilmente non avete sentito parlare molto dei The Coral, se si esclude quella bella canzone che è Dreaming of You e che fu nella colonna sonora di Scrubs. In effetti non hanno prodotto nulla di così entusiasmante negli ultimi anni e anche per questo è stata una bella sorpresa ascoltare il loro nuovo lavoro in studio. Distance Inbetween sa di rock old school, cupo e un po lattiginoso, come quando si accendono gli abbaglianti e cè la nebbia ed è tutto bianco. Non so se ho reso lidea.
Da ascoltare: Million Eyes

Marsha Bronson

lunedì 18 aprile 2016

ASTENSIONISMO E MILITARISMO AI TEMPI DEL REFERENDUM

Un referendum al veleno che ha fatto trepidare il quorum ad alcuni (pochi), lasciando indifferenti altri (troppi). E qui è necessario aprire una digressione importante: l’importanza del voto. Nel sistema democratico che abbiamo scelto, o che comunque ci siamo trovati ad affrontare, emerge spesso la mancanza di coinvolgimento pubblico nella “Cosa Nostra”, che sta diventando troppo spesso privata. I giovani si scontrano con un sistema difficile da contrastare e da penetrare, mentre i più adulti paiono ormai rassegnati che le cose vadano come stiano andando. E quando dico più adulti intendo quei giovincelli sulla quarantina con IPhone e risvoltino, i figli del capitalismo anni ‘90 che hanno un orticello rigogliosissimo. Ecco dunque spiegato il successo di quel movimento che sembra riaccendere la speranza in un futuro diverso, ma che ancor più velocemente la spegne. Ma ci torniamo dopo. Il punto è l’assunzione di responsabilità e l’annullamento del campo. L’ultimo baluardo della democrazia diretta, in un paese governato secondo un piano mai approvato, è il referendum abrogativo. Che sinceramente sembra poca cosa, e infatti è poca cosa, e proprio perché trattasi dell’ultima poca cosa democratica rimasta in una democrazia traballante, è bene non nascondersi dietro l’ombra della diffidenza e dell’indifferenza, che poi insieme coprono meno di un mignolo. Se questi Turisti della Democrazia cominciassero ad accogliere invece il peso della responsabilità di chiamarsi “cittadini” e riprendessero la posizione che gli spetta di dovere avremmo meno assenteisti e più campo. Così che, se un giorno questo fosse tutto campo, anziché tutta campagna, quelli che un tempo si fregiavano della loro discesa, verrebbero schiacciati dall’interesse degli ex disinteressati e non ci sarebbero più Self-made man salvatori della patria e di se stessi, e di se stessi.
L’indifferenza, la rinuncia al voto sono il più grande smacco per un sistema fondato sui cittadini, e non sui signori che siedono in poltrona. Perché se oggi siamo un piccolo paesino in recessione continua è anche grazie a coloro che “Tanto non cambia niente”. Perché abbiamo provato che girandoci di spalle non cambia niente. Proviamo invece ad affrontare la realtà dei fatti, a riprendere in mano il nostro paesino naufragato coi naufraghi, il nostro presente e di conseguenza il nostro futuro. Basta poco. Basta cominciare ad essere parte della macchina chiamata Stato.


Digressione importante chiusa. Perché tutto questo astensionismo per un referendum? Senza voler andare a scavare nella storia contemporanea del nostro paese, senza voler tirare in ballo numeri, Almiranti e Berlinguers, vorrei soffermarmi su due atteggiamenti differenti, ma altrettanto deleteri per la politica italiana: Renzi (o Napolitano) e Grillo.
Renzi, in qualità di Primo Ministro italico, ha bollato qualche giorno fa il referendum del 17 aprile come una bufala, invitando gli elettori all’astensione per favorire il partito del NO in vista del quorum. Ha insomma rimandato ancora il confronto, ha indicato ancora la via della rinuncia. E ci troviamo nuovamente a voltare le spalle alla cosa pubblica. Anche l’ex Presidente della Repubblica aveva espresso idee simili in un’intervista precedente. Questo atteggiamento condiviso è oltraggioso, inaccettabile. Quando due figure così importanti per la politica e il funzionamento della macchina statale guidano il carro del non voto, abbiamo fallito come paese, come congregazione di menti. Qualcosa ha fallito e siamo naufragati come complesso di vuoti in cui non arde più la gioia di creare qualcosa di stabile e vitale insieme, uomini soli. Le trivelle hanno trivellato anche noi, lasciandoci esanimi in balia di quello che vorrebbe essere chiamato stato e che ci spinge a non reagire, ad accontentarci di andare a fondo lentamente.
Per motivi simili vanno condannate le parole pronunciate da Grillo in quest’intervista al portale Fanpage.it. Riassumendo il discorso del comico, che torna a fare il comico dopo aver costruito un movimento, che poi in realtà è un partito (ma non ditelo ad alta voce), egli invita gli elettori ad andare alle urne per il referendum non perché interessati alla questione, non perché sensibili all’ambiente o convinti che un mondo diverso sia possibile a partire da queste piccole, insignificanti vittorie, ma perché lo dice lui, Grillo. Egli esorta a non soffermarsi tanto sulle questioni, quanto sui volti che cercano di convincere l’elettorato. Se da una parte il suo atteggiamento non andrebbe messo sullo stesso piano dell’astensionismo del cosiddetto “Premier” (virgolette sia per il termine improprio che per la figura), non è possibile accettare che nel 2016, dopo 155 anni dall’unità, in Italia si debba ancora andare a votare sulla fiducia. È la fiducia nelle facce perbene che ha annullato lo spirito critico, è la massificazione che ha cancellato l’identità politica e lasciato spazio al grande Centro in cui ogni giorno sembra una Guerra del Vietnam infinita e poi si taglia sempre lì, si nega sempre lì. E muore la dignità. Questo invito, che si avvicina di più ad un ordine da parte del generale Grillo, richiama quel periodo lontano in cui i diversamente pensanti del movimento venivano estradati e messi alla gogna mediatica e non. Andare a votare senza informarsi è tramutarsi completamente nell’ingranaggio che da anni cerchiamo di estirpare, è diventare quello che erano gli elettori di Berlusconi, che raccontava barzellette, e di Bossi, che raccontava barzellette. Ma in realtà non abbiamo mai smesso di trasformarci in meccanismo della macchina che non va dove dovrebbe e Berlusconi è ancora a piede libero e al posto di Bossi c’è Salvini. Quando si usa impropriamente il termine “evoluzione” (virgolette perché l’ultima evoluzione che ricordi è quella dal sapiens al sapiens al quadrato).


Probabilmente non era importante andare a votare per raggiungere il quorum e far vincere il partito del SI, di quelli che vorrebbero tamponare il violento accanimento dell’uomo su una Natura succube. Probabilmente era più importante andare a votare per dimostrare di voler ancora essere parte di qualcosa, di tenere al paese che ci ha dato i natali o che ci ospita, talvolta di cattivo grado, talvolta di cattivissimo. Ma così non è Stato, abbiamo ancora abbassato la testa. E allora forse ci meritiamo una classe amministrativa incompetente e inconcludente, un revisionismo storico forsennato volto ad innalzare la sva figura, un paese in declino, un futuro appannato, la disoccupazione giovanile al 38%, il Mezzogiorno desolato, l’odio razziale, la mala sanità, la mafia, la terra dei fuochi, le mazzette in Lombardia e questa natura morta che ci resta. We get the world we deserve. Ancora True Detective 2, che era una serie bellissima, e non l’avete capita, e anche questo paese era bellissimo, e non l’abbiamo capito.

venerdì 15 aprile 2016

FIVE BY FIVE #13

Dopo qualche episodio speciale, per così dire, rieccoci tornati al format solito: cinque album, nuovi, interessanti, diversi e altrettante canzoni per quei pigri che non hanno voglia di ascoltarsi un album intero. E non sanno cosa si perdono. Voi asoltatele, io cerco di capire se Kanye West ha finito o no The Life of Pablo, così riuscirò a parlarne forse, prima o poi. Chissà.


Certi album hai bisogno di ascoltarli al momento giusto e nel posto giusto per interiorizzarli. Per quel che riguarda il III album del trio berlinese il momento giusto è stato una mattina verso le cinque e mezza e il posto giusto è stato Milano, nello specifico quel segmento della capital benvestida che va da Porta Venezia al Duomo. Ovviamente a piedi, tra furgoncini che portano il latte ai bar, clochard addormentati e psicopatici che fanno jogging in una calma e un silenzio surreali riempiti soltanto dai beat che dalle cuffiette andavano a pigiare sui miei timpani. Vi auguro di non dover essere ancora svegli e in giro ad un’ora del genere, quindi III ascoltatelo un po’ come e dove e quando vi pare, ma ascoltatelo.



Contestualizziamo: nel 2011 iniziava la primavera araba, non c’era la guerra in Siria, da Fukushima uscivano cose poco simpatiche, qualcuno si dimetteva, io ero in terza liceo. O in seconda credo, non sono bravo con le date. Insieme a tutto ciò usciva Hurry Up, We’re Dreaming degli M83, che in realtà è uno solo. In cinque anni ne cambiano tante di cose e anche il nostro Anthony Gonzalez è cambiato parecchio. Se vi aspettavate qualcosa in stile Hurry Up ecc. da Junk rimarrete delusi. Non ha infatti nulla, ma proprio nulla a che fare con nessuno dei precedenti lavori dell’un tempo duo francese. Se invece vi piacciono i cambiamenti, quelli un po’ folli, quelli che fanno partorire un pezzo come Do It, Try It, allora troverete pane per i vostri denti.



Sempre parlando di ritorni e lunghe pause, sono tornati TLSP, fermi ormai dal lontanissimo 2007(!). La grande, sostanziale differenza rispetto al ritorno degli M83 è che loro non sono cambiati affatto. Sì ok, Turner ha i capelli lunghi e Kane non ha più quella faccia da ragazzino, ma lo stile è rimasto il loro. Everything You’ve Come to Expect si pone in perfetta continuità con The Age of Understatement, a partire dal titolo lungo. Forse è proprio questa l’unica pecca, se proprio dobbiamo trovarla, in un album per altri versi ottimo: poca voglia di mettersi in gioco da parte degli ex bimbi Turner e Kane. Ma in fondo queste collaborazioni sono fatte per divertirsi, e il divertimento non manca di certo, né per loro che suonano, né per noi che ascoltiamo.



Il primo momento in cui rifletti sulla tua inutilità è quello in cui guardi le olimpiadi e vedi vincere per la prima volta un atleta della tua età o peggio. Il secondo momento, quello in cui prendi definitivamente coscienza del fatto che non lascierai traccia in questo mondo è quello in cui ascolti un bell’album di un artista con qualche anno in meno di te. AURORA è norvegese ed è del ’96 (già, non ha nemmeno vent’anni), ha esordito quest’anno con un album notevolissimo se si considera la sua giovane età. Le atmosfere sono decisamente scandinave ma non per questo fredde, riescono anzi a coinvolgere chi ascolta con un pop per niente banale. Detto questo scappo, vado a registrare un album, altrimenti mi sento vecchio.



ANNUNCIO: a Dicembre questo disco sarà nella mia personale classifica dei miei album preferiti del 2016 e per di più, azzardo, nella top ten. Potrei anche fermarmi qua. Mi sa che lo faccio davvero. Ascoltatelo. È bellissimo.

Marsha Bronson

martedì 12 aprile 2016

KIKI, CONSEGNE DI MATURITÀ

Riprendiamo il nostro percorso d’analisi dei simboli, delle metafore e dei messaggi dei lavori del maestro Miyazaki con "Kiki, Consegne a Domiciclio”, uscito nelle sale nipponiche nel 1989 e riproposto in Italia soltanto nel 2013.
Nell’universo di Kiki, del tutto simile al nostro, esistono le streghe, ma non sono le vecchie megere dei racconti grotteschi che ci tenevano svegli da bambini, bensì ragazze dotate di poteri magici che, seguendo la tradizione delle loro antenate, contribuiscono al benessere della comunità prendendosi in affidamento una specifica città. Kiki è una di loro e la regola vuole che le streghe, raggiunta l’età di tredici anni, vadano via di casa per trovare fortuna, maturare e diventare consapevoli delle proprie possibilità.


Questo lungometraggio, a differenza dei precedenti due analizzati, non cerca di creare una mitologia mistica attorno alla quale costruire una storia fondata sulle antiche leggende del paese del Sol Levante, ma si limita alla presenza delle streghe per quanto riguarda la componente fantasiosa dell’opera. Il resto della costruzione scenica appare molto vicino alla nostra concezione di normalità. Questa scelta stilistica di Miyazaki riduce le possibilità di un’analisi incentrata prettamente sull’interpretazione delle metafore magiche e caratteristiche, ma ciò non toglie al film un secondo livello interpretativo notevole e interessante da trattare.
Fin dal principio, nonostante l’atmosfera pacata che si respira nella propria abitazione, la protagonista sembra intenzionata a partire per diventare se stessa. Nonostante la volontà dei genitori di trattenerla, seppur ancora per poco, Kiki dimostra una smania incontrollata di prendere sottobraccio Jiji e di andare a ricercare la sua città. È emblematico che il mezzo attraverso cui la piccola straghetta può spiccare il volo e allontanarsi dal nido familiare sia proprio la scopa della madre, che, dalle linee di dialogo che seguono la sequenza relativa all’oggetto, sembrerebbe essere appartenuta anche ad altre streghe prima di Kokiri. In questo modo, seppur covando in sé i più profondi moti di ribellione all’ordine, non è possibile spiccare il volo della maturità senza le basi della famiglia, gli antenati, le tradizioni e tutto ciò che è stato e che ha formato la protagonista. Ovunque vada nel mondo, porterà sempre con sé un pezzo della madre che ormai le appartiene, che è parte di lei. E per quanto tenti e tenterà invano, non è possibile rompere questo rossastro orizzonte, anche se gli si voltano le spalle.
Altro elemento che la protagonista porta con sé è la radio. In questo caso l’interpretazione della cosa appare più torbida e per comprendere al meglio la metafora bisogna analizzare la situazione in cui la protagonista sta per finire: una ragazzina di tredici anni si appresta a trasferirsi in una nuova, enorme città, ad andare a vivere da sola per realizzarsi come persona e come strega. Questa condizione prossima non può che allontanare Kiki dal mondo che fino a quel momento l’ha circondata di attenzioni, ha soddisfatto i suoi bisogni e l’ha fatta sentire a casa. Perdere questa dimensione significa perdere casa, perdere le parole di conforto delle persone vicine per cercarne di nuove e più personali. In questo processo è inevitabile il rischio di smarrire un contatto con la realtà in una chiusura naturale nell’animo che si fredda. Attraverso la radio, la protagonista porta con sé la voce del mondo e la possibilità di prendere in prestito sempre una parola di conforto che vola nell’aria, di acciuffarla volando proprio sulla scopa della madre.


L’opera, una volta superata la fase preparatoria della partenza della giovane, si presenta come un’opera di formazione incentrata sulle difficoltà che emergono naturalmente in un percorso di formazione e soprattutto di emancipazione. Non è un caso infatti che Miyazaki abbia optato per una figura femminile in questo suo lavoro, tornando a seguire una tendenza che si era rotta con Nausicaa diversi anni prima. L’obiettivo di Kiki è quello di dimostrare a sé stessa e agli altri di essere in grado di trovare una sua dimensione e personale all’interno della quale cominciare a svilupparsi e a creare la sua storia. Quello a cui va in contro, nella ricerca della libertà di espressione vitale, è la perdita dell’equilibrio consolidatosi in anni di vita in famiglia. Ora Kiki deve riuscire a conciliare nuovi impegni, nuovi spazi. Deve riuscire a sbocciare nonostante i massi che la vita le pone sul fragile capo. Un esempio di questa mancanza di equilibrio è la situazione in cui la protagonista si trova in occasione della consegna dell’anziana nonnina, personaggio ormai ricorrente nelle opere di Miyazaki. In questo frangente la streghetta deve ritirare un pacco da una signora per poi consegnarlo alla nipote della stessa; allo stesso tempo però, dopo le prime difficoltà relazionali, Kiki ha ricevuto un invito per una festa da parte del giovane e scapestrato Tombo. La necessità di sostenersi economicamente, la responsabilità di dover badare a se stessa e la moralità della correttezza avranno il sopravvento sul desiderio e sulla necessità spirituale. In questo modo la ricerca di spazi di libertà rischia di limitare l’effettiva libertà della ragazza, conducendola ad una vita di responsabilità e asfissianti scadenze che rischia di accartocciarla sempre più su se stessa. Questo momento di difficoltà si manifesta anche e soprattutto nella circostanza della perdita dei poteri, evento traumatico sia per il fatto di smarrire la caratteristica necessaria all’adempimento della propria funzione, sia perché ciò la allontana dal gatto parlante Jiji, ultimo amico sincero rimastole.
In questa situazione tragica per la protagonista si inserisce un dialogo fondamentale per le comprensione della natura della crisi magica di Kiki. Parafrasando: dopo essere tornata a fare visita all’anziana signora della torta, la protagonista viene interrogata riguardo la sua natura e il suo scopa nel mondo. La sua risposta tira in ballo l’elemento sanguigno, e questa teoria viene confermata dalla curiosa interlocutrice. Secondo la pesante e opprimente versione di Kiki, ognuno sarebbe destinato a svolgere un determinato ruolo nel mondo a prescindere dalla propria volontà perché condizionato dal sangue dei propri avi. In quest’ottica il futuro della protagonista sarebbe già scritto e ciò renderebbe l’emancipazione una vana forma vuota, un giro di vita nella melma della predestinazione. Si riversa così sui figli il peso delle scelte dei genitori. Ciò giustificherebbe in qualche modo l’alienazione giunta in concomitanza con l’evoluzione della condizione umana negli ultimi secoli.
Quella di Kiki sembra una situazione buia senza vie d’uscita. Le uniche parole di conforto che riescono a raggiungerla sono quelle della giovane pittrice che la invita a perseguire per la sua strada, slegandosi dai vincoli che la rinchiudono, alla ricerca di se stessa e dell’interiorità che viene espressa al meglio dal quadro futurista che scorre come il vento. Il vento sarà fondamentale per la redenzione e il ritorno alla sua soggettività; un vento che si personificherà nella figura del giovane Tombo. Questo vento leggero, che si insegue e raggiunge infine la protagonista dopo vari episodi nel corso dell’opera, risveglia la coscienza e la speranza della giovane Kiki, ricordandole di essere altro dai propri genitori, mostrandole la sua strada. È proprio mediante quest’elemento naturale che avviene la svolta finale che permette alla protagonista di riacquistare i poteri e salvare la situazione. La natura si presenta ancora come mediatrice e rivelatrice dopo le situazioni analizzate nei due precedenti lungometraggi.



Nel finale avviene però un altro evento imprevisto: negli ultimi attimi, tra la folla in tripudio per il salvataggio di Tombo, Kiki ritrova Jiji, il quale però continua a non parlare il linguaggio umano, nonostante la streghetta abbia recuperato i poteri. Come dobbiamo interpretare questo elemento in contraddizione con le aspettative di un lieto fine? A mio avviso il gatto rappresenta, con la sua seconda presenza muta, l’elemento di discontinuità che serviva a rimarcare la maturazione libera e definitiva della protagonista. Attraverso questo cambiamento significativo possiamo intendere, senza parole, che Kiki sia tornata ad essere la stessa di prima, ma cambiando, slegandosi dai vincoli ed aprendosi ad una realtà che prima le sembrava preclusa dall’ombra gravosa delle aspettative della tradizione. Kiki è finalmente giunta ad essere se stessa attraverso un lungo e tortuoso processo nel quale tutti i personaggi hanno svolto un ruolo, seppur minimo. È la vita che, affrontata nella maniera corretta, lasciandosi trasportare dal vento del movimento interiore, ha portato la libera protagonista nella sua oasi, ha regalato lei lo spazio della libertà.

lunedì 11 aprile 2016

E NON HAI VISTO ANCORA NIENTE

Avrei voluto chiamare quest’articolo “Le cose di Giovanotti”, ma per questioni di marketing immagino sia più facile localizzarlo con il titolo che vedete quassù. Ma facciamo un passo indietro.
Come tutti i giovincelli della mia generazione, anch’io sono cresciuto con Jovanotti, e quando cresci con un autore non puoi fare a meno di amarlo. È quando smetti di cambiare che la vita appassisce. E per certi versi così è stato anche per quanto riguarda il mio rapporto con Lorenfo. Adorato negli anni ’90, apprezzato nei primi 2000 e osannato con “Ora”, che tuttora reputo il suo album migliore. Andai anche a vederlo quel tour: tre ore di vitalità. Poi sono cresciuto e ho smesso di cambiare poi tanto. Mi sono adagiato e ho cominciato ad apprezzare sempre meno i cambiamenti di un’artista che non ha mai perso la voglia di muoversi. È così: quando la persona si stabilizza, i gusti lo fanno di conseguenza, e, di conseguenza, chi non si è stabilizzato con noi smette di rientrare perennemente nel nostro immaginario, e magari torna di tanto in tanto per fare qualche capatina, in memoria dei vecchi tempi. In riferimento a ciò, qualche giorno fa mi è capitato di ascoltare in radio, dirigendomi celere all’università, l’ultimo singolo di Jovanotti “E non hai visto ancora niente”. La canzone m’è parsa abbastanza vuota, “Sullo stesso BPM”, valida unicamente per l’”Eppure, eppure, eppure” che segue un ritmo elettronico sincopato abbastanza coinvolgente. Ma nulla più. Ciò che invece mi è rimasto in mente sul momento è stata l’accozzaglia di cose che vengono citate nel classico testo ad elenco delle canzoni di Jovanotti meno impegnate. Cioè tutte tranne un paio. Vabbè facciamo una. E mi sono detto: “Chissà che video ne è uscito fuori da quest’insalata mista che qualcuno vorrebbe chiamare poesia”. E poi ho visto il video.


Ecco le “cose” di Jovanotti, o meglio quelle cose bizzarre e grottesche che compaiono randomicamente e senza addurre motivazioni plausibili nel video di “E non hai visto ancora niente”:

- quel tizio credo di averlo visto in The Cleveland Show…
- e fa le mosse;
- il papà di Clark Kent si denuda;
- Jovanotti cita palesemente la seconda stagione di True Detective. We get the world we deserve. Buongustaio;
- ma che l’ha girato Zack Snyder sto video?
- Michelle Obama, tacchi e unghie curate, alza circa il mio peso. Me la ricordavo diversa;
- Nicki Minaj gioca con un nastrino…
- Ah no, è Laverne di Scrubs. Rirediviva e felice;
- i prossimi concorrenti di “Ciao Darwin!”, tatuaggi contro piercing, giocano con la corda, e con una bambina. Aiutatela;
- Jovanotti guida Ramon di Cars;
- Jovanotti si strappa manco fosse Allegri;
- Kim Kardashian tenta un rallentato twerking su un mezzo improprio. Denunciata;
- qua ognuno balla come gli pare;
- “No mercy” mi ricorda il Wrestling violento di quando ci credevamo. Nutro speranze…
- speranze defunte; i nani fanno sumo. O Curling. Sono confuso;
- il papà di Clark Kent è in realtà Martha, la mamma di Superman. E di Batman;
- e qua cose. Dire, fare, baciare, illuminarsi d’immenso;
- Nadine di Twin Peaks ha recuperato l’occhio. Ed è anche invecchiata pochio in ventisei anni. VENTISEI! (Lynch torna!);
- Biancaneve nera. Ho fatto un ossimoro;
- Mucha Lucha wins;
- una signorina col trucco sbagliato tenta di stabilire il record di lunghezza della gomma da masticare;
- Jovanotti alla ultimo dei Mohicani lascia intendere che questo sarà il suo ultimo album. O almeno il suo ultimo video confuso?
- niente, era Oscar Giannino.

E poi ci sarebbe il testo, ma non voglio esagerare. Carina la citazione a Blade Runner, ma cosa ci fa Babbo Natale ubriaco di rum in un villaggio tropicale? E cosa sono gli alberi da concerto?

E se questo è ancora niente, comincio a temere il resto.

martedì 5 aprile 2016

TOP 10 SERIE ANIMATE CARTOON NETWORK - SECONDA PARTE

E rieccoci a distanza di più di un mese per concludere il momento nostalgico dedicato alle serie animate originali Cartoon Network. Se avete perduto sciaguratamente la prima parte potete ritrovarla puntando con il vostro mouse a rotella del ‘98 e cliccando con il tasto sinistro, insudiciato dai batteri del tempo, su QUI. E perché più di un mese per pubblicare mezza classifica (fatta anche maluccio a dire il vero)? beh perché gli impegni, l’università, le abbuffate di Pasqua. Faccio cose, vedo persone. E poi comunque in questo lasso di tempo ha avuto inizio una serie che avevo in mente da molto: l’analisi puntigliosa e attenta delle metafore presenti nei film di Hayao Miyazaki. E se vi siete persi anche questi, oltre a dovervi vergognare un po’, potete leggere l’ultimo uscito “Il Mio Amico Totoro” QUI.
Dopo il momento della reclame direi che potremmo anche appropinquarci alle prime posizioni.



5° POSIZIONE: Ed, Edd ed Eddy
Andavi a scuola elementare controvoglia, passavi ore di disegnamento di cornicette che alla fine riuscivano anche a farti dimenticare il tuo nome, mangiavi un tristissimo panino pane e marmellata (che tua mamma si scordava sempre di togliere le croste amarognole) e poi tornavi a casa. E cosa poteva tirarti su meglio di tre scavezza collo pronti al decollo (no, aspe… SPOILERISSIMO)? Non si può certo dire che “Ed, Edd ed Eddy” fosse un bel cartone animato per antonomasia. Effettivamente era realizzato in maniera alquanto grezza e probabilmente, anche a livello di contenuti, lo stesso canale poteva offrire un intrattenimento migliore, ma erano incredibilmente divertenti. Una comicità bassa, ma anche nonsense, che riusciva a coprire più fasce d’età, dai quattro ai quattordic’anni. Cioè credo quattordic’anni. Io almeno ricordo di averlo visto fino a quell’età.
In ogni caso, in mezzo alle facce imbruttite e deformate dei vari bambini che componevano la gang del quartiere, alcune sono rimaste indelebili, come Tavoletta, i protagonisti con le caramelle un tantino eccessive in bocca, il folkloristico Rolf, le sorelle Panzer, Jimmy, e tanti altri. Un tripudio di personaggi storici, caratteristi unici. Un quadro sfocato che all’epoca sembrava la nostra idea di apice del divertimento, e forse lo è ancora, ma abbiamo dimenticato come si fa.



4° POSIZIONE: Mucca e Pollo
Lo stesso inconfondibile stile grafico sporco e infantilmente volgare della posizione precedente, ma stavolta con un nonsense che supera di gran lunga le altre componenti della serie. Tutto il resto passa spesso in secondo piano per lasciare spazio ai deliri coinvolgenti di una mucca e un pollo parlanti, figli di due esseri umani che guidano l’automobile con i piedi, perché se decidi di non inquadrarli mai dal ginocchio in su e sei una persona coerente non può che andare a finire così.
Grande punto a favore di Mucca e Pollo sono gli elementi ricorrenti che vanno a costituire un vero e proprio mondo a parte, in cui la sospensione dell’incredulità è inizialmente indotta non senza qualche difficoltà, ma successivamente diventa parte integrante della comicità differente della serie.
E come parlare di Mucca e Pollo senza tirare in ballo il Rosso? Un personaggio odioso, arrogante, malvagio e menefreghista che sprizza epicità da tutti i pori. Un vero e proprio emblema di un periodo, di uno stile e una comicità non ricercata, ma alternativa che fu e poi non fu più. E non c’è Tennison che tenga; il Rosso rimane il Rosso di Cartoon Network.



3° POSIZIONE: Le Tenebrose Avventure di Billy e Mandy
Da qui in poi potreste anche ribaltare completamente le prime tre posizioni che mi andrebbe bene comunque. Billy e Mandy (costola di Hector Polpetta - che mi ha rubato preziose ore d’infanzia con i suoi innocui giochini sul sito di Cartoon Network) è tendenzialmente indefinibile come cartone animato. Riesce a fondere contemporaneamente comicità gretta (Billy), black humor basilare (Mandy), gotico, avventura, fantastico e altri generi che forse ancora non esistono (come quei testi che Lo Stato Sociale posta ogni sera per dare la buonanotte agli statini). Un mix insomma che soddisfa tutti senza però abbassare il livello d’intrattenimento a livello Casa di Topolino.
Ciò che mi ha sempre stupito di questo cartone sono indubbiamente le storie che sorreggono perfettamente una comicità non sempre autoreferenziale: intrecci di vita, morte, misticismo, alchimia e dei greci. Una serie indubbiamente irriverente e divertente che intrattiene senza stancare mai, da zero a novantanove anni.



2° POSIZIONE: Il Laboratorio di Dexter
Questo era il cartone della domenica mattina su Italia 1, quelle domeniche mattina che si poteva restare a letto a dormire, ma alle 8, dopo un giretto nel lettone di mamma e papà si finiva davanti alla televisione. Rigorosamente sul sei. E si partiva con il volume basso per non disturbare la famigliola felice, ma ogni 10 minuti si aumentava di 5, in modo da arrivare a 112 spaccatimpani prima della messa.
“Il Laboratorio di Dexter” era la materializzazione degli innocenti e fantasiosi viaggi mentali dei bambini degli anni ’90. E se si potesse fare? E se fosse possibile premere un bottone per scatenare tutto ciò? Dexter, dal suo laboratorio sotterraneo, rendeva possibile la fantasia e premeva quel bottone rosso che avevamo solo immaginato. Puntate epiche, personaggi carismatici e invenzioni sempre più innovative. Una serie senza la quale probabilmente non avremmo la disneyana Phineas e Pherb, e molti altri cartoni affini. E poi quella sigla. Quella Sigla! Ma non fatemi dilungare oltre che per parlare di sigle di tempo ce ne sarà (spoiler).



1° POSIZIONE: Leone il Cane Fifone
E qui andiamo totalmente oltre le più rose aspettative in presenza di un cartone animato. “Leone il Cane Fifone” rompe gli argini non delineati del filone corrente e risale il fiume per ricongiungersi al cinema da cui tutta l’animazione ha avuto origine. Leone è parodia, è comicità irriverente, è citazionismo sfrenato e divertimento spassionato.
Ricalcando la struttura di X-Files del mostro della settimana, Leone riprende molte storie mitologiche o storiche del cinema mondiale e le traspone in uno show per bambini a metà tra l’horror e il grottesco, senza paura di eccedere e di impressionare, ma rimanendo fedele ai proprio cardini comici inimitabili.
Una serie che tuttora cerco e riguardo con enorme piacere e passione, nonostante il progressivo calo qualitativo dovuto al tempo. Ma cosa chiedere di più? il traino dalle favole Disney al mondo dell’orrore attraverso un cane rosa, due anziani coniugi e una casetta sperduta nella città di Altrove. E, ad essere sinceri, qualche puntata ancora mi inquieta.



E ci siamo. Un’altra classifica è faticosamente giunta al termine. Spero di aver risvegliato in voi momenti più che ricordi, attimi d’infanzia, riti fanciulleschi e spensieratezza libera. Spero che anche voi ricordiate con piacere le vostre serie. Se non dovessimo vederci prima, ci rivediamo quindi alla prossima classifica (vedi spoiler).