Due premesse prima di addentrarci nel mondo che ha
regalato a Miyazaki e Takahata la loro storica mascotte: una di carattere
genealogico e una riferita all’accoglienza e allo sviluppo della critica nei
confronti di questo capolavoro nel corso di questi anni.
Per comprendere a fondo il carattere celato e il
messaggio di questo film è bene analizzare la situazione dello studio Ghibli in
quel periodo e gli eventi che accaddero in concomitanza con lo sviluppo de “Il
mio Vicino Totoro”. Hayao e Isao, i due fondatori dello studio d’animazione,
dopo i successi della distribuzione di “Nausicaa della Valle del Vento” e della
produzione di “Laputa, il Castello nel Cielo”, decisero di sposare due progetti
paralleli, di coadiuvarsi e di cominciare una sperimentazione personale che li
avrebbe portati a sviluppare le loro doti in due tendenze opposte, ma non
antitetiche. Per verificare questa duplice visione era necessario lavorare a
due progetti che potessero in qualche modo mostrare dei punti di contatto. Per
questo motivo mi risulta difficile parlare di Totoro senza chiamare in causa
“La Tomba delle Lucciole” (precedentemente “Una Tomba per le Lucciole" e uscito da noi soltanto pochi mesi fa). Credo
infatti la chiave di lettura dell’opera in esame si trovi principalmente nel
confronto tra i due lungometraggi: il punto di contatto principale tra i due
film, tralasciando le analogie come determinate caratteristiche del duo di
protagonisti, è la sofferenza vista da una prospettiva fanciullesca. Entrambi i
lavori infatti si focalizzano sulla descrizione delle reazioni dei protagonisti
nei confronti di un evento tragico che li ha coinvolti ed inevitabilmente, data
la loro giovane età, travolti. La differenza principale invece è evidente nel
tono e nella portata della tragedia: da una parte la malattia di un genitore e
dall’altra la resistenza inerme ai bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale.
Ciò porta ad una notevole distanza stilistica che alla lunga si imporrà come
consuetudine per i due fondatori. In ogni caso questa peculiarità riguardante
lo sviluppo di Totoro dimostra la serietà delle tematiche di fondo che reggono
l’intera impalcatura solida e fantasiosa e si ricollega alla seconda premessa,
ossia l’accoglienza ottenuta nel tempo. I critici hanno sempre definito questo
film un ripiego del regista verso un pubblico più giovane, una ripresa
edulcorata dei suoi precedenti lavori. Questa credenza credo sia d’attribuire
principalmente al personaggio di Totoro, simpatico orsacchiotto-procione che
trasporta le protagoniste, Satsuki e Mei in un mondo fatato. Spesso questa
figura, presa poi come immagine dell’intera compagnia, soprattutto a causa del
merchandising sostenuto in questi anni, eclissa la trama, la narrazione, i
personaggi secondari e quindi inevitabilmente anche le metafore che questa
pellicola cela ad uno sguardo meno esigente. Credo quindi che chi ancora
etichetta questa pellicola storica dell’animazione mondiale come favola per
bambini abbia visto frainteso una parte delle intenzioni del maestro Miyazaki.
Due bambine,
accompagnate dal loro padre sbadato ma amorevole, traslocano in aperta
campagna, nell’hinterland di Tokio, principalmente per avvicinarsi alla madre
malata e ricoverata in una clinica a poca distanza dalla loro nuova abitazione.
Subitamente però emerge un’altra motivazione legata in maniera più stretta alle
due piccole protagoniste, ovvero la ricerca di spazi vitali. Fin dal principio
infatti le due sembrano giovare della libertà concessa dalla nuova realtà di
vita, quasi a voler porre un paragone complesso in cui uno dei due termini è
omesso. Si tratta della città, luogo di provenienza della famiglia, che
probabilmente poteva rappresentare in precedenza una costrizione strutturale
notevole, soprattutto per la più piccola Mei; ed è proprio grazie ad una nuova
scoperta del mondo che la bambini raggiunge la magica conca di Totoro. Il tema
della natura torna quindi all’interno di un’opera di Miyazaki dopo “Nausicaa
della Valle del Vento” e “Laputa, il Castello nel Cielo”. L’autore torna a
significare questo ambiente e a contrapporlo, stavolta implicitamente,
all’asfissia di una sovrastruttura, un modello di vita.
Appena arrivate nella nuova casa, le due bambine
rimangono di stucco rispetto agli sfuggenti Nerini del Buio, che si riveleranno
poi essere Corrifuligine. La loro vera natura di esserini animati, portatori di
polvere che albergano nelle case disabitate, viene rivelata alle due
protagoniste dalla “Nonnina”, anziana governante della casa. In questo
frangente avviene uno scambio di battute a mio parere fondamentale per la
comprensione dell’intera opera: parafrasando, la nonnina ammette di non poter
più vedere i Corrifuliggine a causa della sua età. In questo modo veniamo a
sapere di una sorta di invisibile che si svela soltanto ai più innocenti, ai
bambini. Quest’interpretazione sarà fondamentale per la comprensione di un paio
di scene successive, come ad esempio quella in cui Satsuki si trova in cima ad
un albero secolare con Totoro in attesa del Gattobus e, scorgendo in lontananza
i brillanti occhi del tenero mezzo di locomozione, si accorge che i contadini
delle risaie non fanno una piega nei confronti dell’animale fantastico. A
questo punto però si pone un dubbio: l’impossibilità, evidenziata anche nella
figura del padre, di vedere questi esseri magici che sembrano rifarsi al mondo
dell’immaginazione è legata all’età o alla condizione dell’osservatore? Vedere
oltre è una questione anagrafica o di credenza? Rispetto all’idea comune della
nostra società, saremmo portati ad optare per la seconda ipotesi, ma credo che
la chiave per lo scioglimento di questo dubbio sia nel padre delle bambine, il
quale ci viene presentato come un vispo uomo sulla quarantina, genuino, solare,
speranzoso e, per certi versi, sognatore. Molti tratti caratteristici delle
figlie possono essere riscontrati nel padre, ma nonostante ciò egli non riesce
a raggiungere la tana di Totoro nel suo tentativo, pur facendo intendere di
aver avuto dei contatti con spiriti dei boschi in passato. Secondo questa
seconda interpretazione, probabilmente in controtendenza con l’opinione comune,
viene avvalorata la prima tesi proposta, quella dell’età anagrafica. Arrivati
ad una certa età quindi i bambini smettono di vedere gli spiriti, gli amici
immaginari, e, seppur continuando a mantenere una vena fanciullesca, una parte
di loro si conforma al mondo degli adulti e ciò li pone ad un grado di visione
della realtà inferiore. Il rovescio pessimista di questa malinconica medaglia è
che pur continuando a credere, pur covando in sé il seme dell’immaginazione
fanciullesca, qualcosa negli individui cambia radicalmente col passare del
tempo, probabilmente con una sorta di perdita dell’innocenza.
Le due bambine scoprono quindi l’esistenza di questo
essere silenzioso e dormiglione che vive in un anfratto nascosto dell’albero
più imponente del bosco, o almeno in questo luogo lo si può ammirare
sonnecchiare supino. Insieme a lui due piccoli simili. Ma chi è in realtà
Totoro? Esiste davvero o è la rappresentazione personale delle due protagoniste? Ciò
che possiamo dire con certezza di questo essere è il suo stretto legame con la
natura e con gli elementi. In particolar modo egli sembra collegato all’aria e
all’acqua. Dalla scena onirica in cui Totoro sveglia le due sorelle e le porta
sulla cime dell’albero più maestoso per ammirare la grandezza della natura
possiamo identificare nello specifico lo spirito con il vento, in quanto il suo
passaggio in volo produce un effetto simile ad una brezza estiva sul prato umido. Ma egli
ha anche il potere di determinare la crescita delle piante attraverso una sorta
di danza della pioggia rivolta al terreno, eseguita insieme ai suoi simili. Alla
luce di questi caratteri si potrebbe identificare Totoro con lo spirito, la
personificazione della natura che prende forma per avere un contatto diretto
con i piccoli umani che probabilmente non colgono la spiritualità intrinseca ma
invisibile che permea gli ambienti verdi. Alla luce di ciò anche la precedente
questione legata alla visione di questi spiriti potrebbe eventualmente assumere
un significato differente. Totoro quindi fa le veci, talvolta apparentemente in
maniera poco cosciente, di quello che pare essere uno spirito più imponente e
dotato di potenzialità maggiori. Dal discorso che il padre rivolge alle figlie
dopo che la più piccola ha incrociato quasi casualmente lo spirito del bosco,
sembra che esso sia proprio della piante centrale dell’intera zona alberata, e
di conseguenza potremmo dedurre che ad ogni bosco corrisponda uno spirito
simile a Totoro, magari differente per alcuni tratti somatici ma appartenente
alla stessa specie.
In ogni caso ritorna, dopo essere stato preponderante
nella narrazione e nel messaggio del primo lungometraggio dello studio Ghibli,
il tema della natura come entità mistica e misteriosa che contribuisce al
benessere e al sostegno dell’uomo in difficoltà: come in Laputa la natura,
rappresentata dalla pietra che sorreggeva l’isola, mostrava agli uomini una via
alternativa alla distruzione e all’indifferenza, così in Totoro lo spirito del
bosco dimostra sornione di comprendere appieno le difficoltà esistenziali di
una famiglia sfasciata dalla malattia e interviene a risollevare gli animi, a
mostrare le grazie della terra e ad aiutare materialmente le due protagoniste,
come quando alla fine le affida al Gattobus per raggiungere in fretta l’ospedale
in cui è ricoverata la madre per consegnarle un’amorevole pannocchia.
L’evoluzione del pensiero di Miyazaki si sviluppa verso
un pubblico più infantile dimostrando un nuovo livello immaginativo del
rapporto tra l’essere umano a la natura, rapporto che necessita della sopravvivenza e della
salvaguardia delle zone boschive per poter consolidarsi e durare a lungo. La natura
partecipa al dolore, com’era per il celebre Urlo di Munch, ma stavolta dimostra
anche di poter essere custode di verità e nuova ragione, nuovo stile
di vita in perfetto connubio con l’ambiente circostante.
Avrei voluto dilungarmi oltre nell’analisi delle metafore
e dei temi portanti di quest’altro, ennesimo capolavoro Ghibli, ma, non avendo
intenzione di spezzare quest’articolo a metà per evitare cali di ritmo, decido
di sorvolare su alcuni punti. Avrei potuto parlare ancora dell’interpretazione
del Gattobus, che si ricollega al tema del vento (Ghibli), avrei potuto
approfondire il ruolo di Satsuki in sostituione della madre assente o il finale ma non ho voluto rovinare la sorpresa a coloro che non
hanno ancora avuto il piacere di vedere questo film. In ogni caso, parlando in
senso generale dell’opera, dubito che un pubblico di bambini possa cogliere le
sfumature che abbiamo cercato di approfondire oggi, e ciò evidenzia quanto in
realtà i due livelli di lettura consoni dello studio di animazione giapponese siano
presenti anche qui. Sta a voi scegliere se guardarlo con la mente e capire con
il cuore.
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