Normalmente
l’idea che si ha del punk è quella della cosiddetta ondata del ’77: ragazzi a
torso nudo, magri e scarni come la musica che suonano, borchie, mohawk, fiumi
di eroina ecc. Immagine in parte reiterata dai gruppi punk revival a cavallo
tra secondo e terzo millennio. Di per sé non è un’idea sbagliata, ma è
decisamente superficiale, nel significato letterale del termine: riguarda solo
la superficie, ciò che ha abbandonato il sottobosco della giungla sonora, il
mainstream, insomma (mainstream che, non mi fraintendete, non ha necessariamente
una connotazione negativa, i Nirvana
erano mainstream).
Il fatto è
che all’interno di un genere come il punk, nato nei bassifondi, tra i figli di
operai con poche alternative e tanta rabbia, chi ha l’ardire di allontanarsi
dal cuore del movimento e raggiungere luoghi dove scorrono i soldi ma meno il
sangue, difficilmente sopravvive a lungo. I Sex
Pistols sono implosi, i Clash sono riusciti a riacciuffare lo
spirito originario per i capelli suonando in giro per i pub di mezza Gran
Bretagna sul finire della loro carriera, senza Curtis i Joy Division hanno
cambiato nome e genere e per finire, in tempi più recenti, i Green Day si sono ammosciati. Fate attenzione non sto dicendo che sia
stato un loro demerito (ok, per quanto riguarda i Green Day sì), anzi, di
questi gruppi ho apprezzato le evoluzioni, probabilmente anche perché le ho
conosciute col senno di poi. Quello che sto dicendo è che i cambiamenti di cui
sopra sono conseguenze naturali, fisiologiche. Il fulcro creativo/distruttivo
del punk sta alla base del punk stesso, in quel sottobosco musicale, nel
terreno sudicio e per questo fertile della società.
In effetti
fin dall’inizio il termine “punk”, letteralmente “teppistello”, aveva un
significato diverso. Innanzitutto nasce ben prima del genere vero e proprio,
nel ’71, citato per la prima volta da Dave Marsh sulla storica rivista Creem, ma soprattutto ha un’accezione
ben più ampia di quella che si tende ad attribuirgli, riferendosi a
un’attitudine nei confronti della musica, del Rock ‘N’ Roll, a uno stile
grezzo, a volte rabbioso, rumoroso e proiettato verso di se, indifferente e
forse un po’ cinico verso il mondo. Perché è questo che è il punk, un modo di
(es)porsi, un sentimento, e sia esso di rabbia, di noia, di sconfitta,
rassegnazione o paura, viene vomitato in faccia al mondo o a chiunque stia ad
ascoltare non per comunicarlo o perché sia la cosa giusta da fare
(contrariamente all’apparenza siamo lontani dalla politica), ma perché si può fare. Un urlo viscerale, primigenio,
e non intendo quello di Gillespie ma quello di Cobain, incompreso e
incomprensibile, a prescindere da quanti documentari gli dedichino, al punto da
farsi esplodere il cranio. Un grido angoscioso il cui eco si propaga
ciclicamente, assumendo, sì, varie sfumature a seconda delle orecchie attente,
ma senza mai cambiare davvero. Il punk non cresce, brucia per poi rinascere
dalle ceneri con la stessa rabbia e lo stesso destino di autodistruzione. Fa
per il gusto di disfare. È proprio questa indole da eterno sconfitto, quindi
certamente vivo, che ha permesso al punk di perdurare forgiando una quantità di
pesciolini d’oro dalle infinite forme e colori. Oggi ve ne propongo cinque come
sempre, nuovi, classici, conosciuti e meno. Buon ascolto!
Guerilla
Toss – Flood Dosed (2015)
I Guerilla Toss sono un gruppo punk nel
senso più puro del termine. I suoi componenti sono ex studenti d’arte e la band
è nata proprio con lo scopo di ironizzare e magari sovvertire la struttura e i
metodi dell’istituzione scolastica. La loro musica è eterogenea e caotica,
inteso positivamente, ascoltatevi il singolo Polly’s Crystal per rendervene
conto. Schitarrate post-punk si mescolano a testi un po’ parlati, un po’
urlati, basso e batteria funkeggiante e sintetizzatori dalle esplorazioni
cosmiche. Non sono un ascolto facile, può lasciare perplessi i puristi e non
convincere chi non bazzica i questi “ambienti sonori”, ma sono un gruppo da
tenere d’occhio e soprattutto d’orecchio.
Viet Cong –
Viet Cong (2015)
Perla
inspiegabilmente ignorata dai più e accolta tiepidamente da pochi, il debutto
dei canadesi Viet Cong è uno di quei dischi che andrebbero ascoltati
e riascoltati all’infinito. Le radici sono chiare: la precedente esperienza dei
Women con i loro arpeggi dissonanti e
nebbiosi, il suono pulito dei Wire.
Il clima che si respira è quello del post-punk, non più così rabbioso ma più
consapevole, disilluso, cinico, forse nichilista, costretto ad un progresso insensato. I testi sono un gioiello di
frasi ed espressioni criptiche ma estremamente evocativi. Dopo numerosi ascolti
l’album lascia infatti vuoti di senso e pieni di immagini e suoni e la
sensazione è che bastino quelle immagini e quei suoni per stare bene.
Streetlight Manifesto – Everything Goes
Numb (2003)
Non tutto il
punk è però così cupo e grigio. Soprattutto quando si va a pescare
nell’ambiente tutto patricolare dello ska-punk, le atmosfere sono ben diverse.
Gli Streetlight Manifesto si
distanziano a loro volta dal classico ska-punk: abbandonano quasi del tutto le
chitarre in levare, il ritmo è sempre molto sostenuto, rimangono e si fanno
sentire anche parecchio i fiati, regalando a tutto il loro album d’esordio una
coerenza gioiosa caratteristica. È un genere questo diametralmente opposto,
concettualmente, dal post-punk dei suddetti Viet
Cong, a dimostrazione di come partendo da uno stesso punto si possa
giungere a destinazioni differenti con idee e intenti differenti. Dipende molto
dall’indole di ognuno credo, ma anche la voglia di trovarsi in un posto migliore, in un tempo migliore, può essere
il giusto modo di affacciarsi al mondo.
Refused – The Shape of Punk To Come (1998)
Su
quest’album è stato detto tutto ormai: le infinite influenze, dallo straight
edge alla techno passando per il jazz, la batteria orgasmica di Sandström, le
fantastiche linee di basso di Björklund, la dinamica irripetibile (e irripetuta
ahimè); c’è tutto, perfettamente bilanciato e tenuto insieme da tanta, tanta
rabbia. TSOPTC è uno di quegli album “nodo”, è un punto di arrivo per
innumerevoli correnti e un punto di partenza per altrettante. Il merito più
grande di questo grande album è però più profondo. È la ridefinizione di un
non-genere come il punk, è la ricerca di un New Noise, di un rinnovamento in aperto
conflitto con il punk-revival che spopolava in quegli anni. L’obiettivo, se ne
esiste uno, era quello di dare una nuova forma al punk, mantenendone lo sprito.
Ci sono riusciti? No, e proprio per questo, sì.
G.L.O.S.S. –
DEMO (2015)
Per
concludere questa carrellata, non potevo non citare l’ultima significativa
incarnazione di questo genere. G.L.O.S.S.
sta per Girls Living Otside Society’s Shit che di per sé è già eloquente.
Sadie, Jake, Julaya e Corey sono quattro transessuali cresciute
nell’underground di Boston da cui hanno assorbito tutta la rabbia che esplode
poi nella loro musica. DEMO è il loro
debutto, pubblicato a Gennaio 2015 ma che ci ha messo un annetto buono a farsi
notare al di fuori della nicchia del queer-punk. Sono appena otto minuti di
musica che però rimarranno per ben maggiore tempo incastrati nel vostro bel
cranio. È impossibile infatti rimanere indifferenti di fronte alla forza
suonata e urlata da queste ragazze:
They told us we were girls / How we talk,
dress, look and cry
They told us we were girls / So we claimed
our female lives
Now they tell us we aren’t girls / Our
femininity doesn’t fit
We’re fucking future girls / Living
outside society’s shit
Se c’è
qualcuno a cui può essere dato il triste titolo di sconfitto in questi anni,
quel qualcuno sono queste ragazze e ciò che rappresentano.
Se c’è
qualcuno che può essere chiamato punk in questi anni, quel qualcuno sono queste
ragazze e ciò che fanno.
Marsha
Bronson
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