So che è
abbastanza scontato parlare dei Crüe nel duemilaquindici, ma considerato il
mare di parole spese a caso su internet per quanto riguarda i quattro boyz di
L.A. credo sia meglio cercare di fare un po’ di chiarezza riguardo alla loro
storia. Il 2015 rappresenta infatti il capitolo conclusivo per il gruppo
(almeno teoricamente, poi si sa che il richiamo dei ca$h torna a farsi sentire
prima o dopo), che concluderà ufficialmente la propria avventura ultra trentennale il 31 dicembre con un concertone di capodanno nella città degli
angeli, che è sempre stata nel bene e nel male come un grembo materno per i Crüe.
La fine è vicina quindi? Beh a quanto pare sì; non che non fosse nell’aria,
diciamo la verità, il feeling tra i quattro è andando scemando già dai primi
anni novanta, dopo il doloroso split con Vince di cui parleremo prossimamente,
e la fine è stata rimandata forse fin troppo. Ma questi sono discorsi
francamente inutili in luce a quanto avvenuto alcuni mesi fa, quando il gruppo
ha firmato un contratto, poco prima di intraprendere l’ultimo tour ufficiale,
dove tutti i quattro componenti hanno siglano ufficialmente la parola FINE
sopra ogni loro futura apparenza dal vivo come gruppo. Dispiace molto, è vero,
ma era tutto sommato inevitabile; potranno tuttavia esserci futuri album o
singoli sotto l’insegna dei Crüe, ma sinceramente non sono molto fiducioso e
non ne vedrei nemmeno l’utilità.
Nikki, Tommy,
Mick e Vince hanno dato molto alla causa dell’hard rock made in U.S.A. e sono
riusciti, soprattutto con i loro primi cinque LP, a definire un proprio stile,
stile che ha influenzato un numero così elevato di band che pare impossibile
mettersi a contarlo, visto che continuano a nascere gruppi simil-Crüe
tutt’oggi! Quello che ho intenzione di fare ora è una veloce analisi in due
puntate della discografia dei bad boys losangelini. In questo articolo
analizzeremo l’ascesa del gruppo fino al gigantesco Dr. Feelgood (1989), mentre
tra due settimane osserveremo cosa accadde al gruppo negli anni successivi
arrivando fino ai Motley Crüe di oggi. Diamo un’occhiata assieme quindi in ordine cronologico ai primi cinque dischi
dei Mötley Crüe, partendo dal grezzissimo esordio datato 1981!
Too Fast For Love
(1981)
L’inizio di
tutto. Un calderone ignorante di influenze punk, glam rock e heavy metal,
esaltato da una produzione sporca, marcia e poco attenta, proprio ciò che ci si
aspetta da un esordio di quattro sbandati capelloni senza un soldo e che quei
pochi che guadagnavano li spendevano in spray per capelli e quaaludes. Too Fast
For Love è un album frizzante, fresco e divertente ancora oggi, dopo
trentaquattro anni dalla sua uscita, grazie a pezzi semplici ed aggressivi come
la titletrack, On With The Show ed ovviamente la celeberrima Live Wire (per cui
è stato realizzato un video indimenticabile). Da notare la copertina che fa il
verso a Sticky Fingers degli Stones, dove qua al posto del pacco di Mick Jagger
ci viene sbattuto in faccia quello di Vince Neil; ma pacchi a parte questo è
proprio un gran disco, uno dei migliori esordi di sempre.
Shout At The
Devil (1983)
La consacrazione.
Dopo due anni di puro delirio, in cui Nikki Sixx si dà all’esoterismo (senza
mai abbandonare il suo amore per la droga, ovviamente), o almeno crede di
farlo, i quattro cazzoni rilasciano Shout At The Devil, disco di una importanza
colossale per ogni rocker futuro, un’uscita imprescindibile per ogni amante
dell’hard rock e del glam metal. Un album che prende tutti gli aspetti migliori
del precedente e li innalza alle stelle, grazie soprattutto al songwriting sopraffino
di Nikki Sixx, capace di tirare fuori il meglio da ogni membro della band. SATD
è storia, un LP ruvido e sporco, cattivo e sanguinoso come le scenografie messe
in atto dal gruppo durante il tour; Looks That Kill, la titletrack, Ten Seconds
to Love (hanno scritto un pezzo sull’eiaculazione precoce, davvero) ed il
singolo magico Too Young To Fall in Love (presente anche in GTA Vice City) sono
le tracce che spiccano maggiormente, ma in fondo sono tutte belle. Discone.
Theatre Of Pain
(1985)
Dopo altri due
anni di attesa ecco finalmente il terzo LP dei ragazzi, Theatre of Pain. Il modo perfetto per riassumerne il
contenuto, soprattutto paragonandolo al suo grandioso predecessore, è con un
gigantesco MEH. La produzione è diventata all’improvviso cristallina, il che
non è necessariamente un difetto ma Cristo, qui se n’è andata tutta la
cattiveria dei precedenti LP, in favore di un sound radio-oriented e levigato
in una maniera quasi imbarazzante per i cicciosissimi fan americani. Ok,
Theatre of Pain non è un brutto disco,
alcuni pezzi sono carini ed i due celeberrimi singoli, Smokin’ in The Boys Room
e Home Sweet Home, resero il gruppo un fenomeno mondiale (in particolare il
video di Home Sweet Home venne richesto dai fan talmente tante volte da essere
mandato praticamente in loop per settimane su MTV); il problema fondamentale
sta nel fatto che questo disco non incide come i precedenti, proprio perché è
un disco di transizione, il passaggio da un suono sporco ed heavy ad uno più
definito ed hard rock. Il gruppo in sé inoltre non se la passava di certo bene,
tra i soliti problemi di droga di Sixx e di Lee, l’alcolismo senza freni di
Mars e l’irresponsabilità di Vince che lo aveva portato, solo un anno prima, a
causare la morte di Razzle, il batterista degli Hanoi Rocks, in un incidente
stradale, sancendo di fatto la fine del
gruppo finlandese. Nonostante tutto Theatre of Pain fu un enorme
successo commerciale, il tour mondiale registrò record di incassi e fruttò ai
Crüe vari dischi d’oro e di platino; ma era ancora niente in confronto a ciò
che stava per arrivare...
Girls, Girls,
Girls (1987)
Un album della
madonna, un successo senza precedenti, un concentrato di sesso, droga e rock’n
roll nella sua forma più eccessiva. Proprio mentre il livello di eroina nel
sangue di Niki Sixx sta raggiungendo livelli astronomici ecco piombare sugli
scaffali dei negozi Girls, Girls,Girls, il disco glam metal per eccellenza, con
un titolo geniale ispirato dal nome di uno strip club di L.A. ed una copertina
fantastica, con i nostri che fanno gli sboroni
sulle loro tamarre Harley Davidson. I quattro solidificano il loro sound
e lo rendono massiccio, pomposo, da stadio, con cori da cantare a squarciagola
e riff di chitarra freschi e soprattutto più diversificati rispetto al passato.
In Girls, Girls, Girls troviamo infatti un sacco di influenze che trascendono
il solo ambiente hard rock e attingono a generi quali il gospel ed il blues,
mantenendo sempre ad alti standard il lato pesante del tutto. Wild Side, la
prima traccia, è ancora oggi un inno hard rock
con un coro trascinante a dir poco ed un videoclip brillante (il drumkit
rotante di Tommy Lee è storia), mentre la titletrack possiede uno dei riff di
chitarra più famosi di sempre. E poi si susseguono una dietro l’altra canzoni
meravigliose, Five Years Dead, Dancing on Glass, Smuthin’ For Nuthin’ e la
ballata apparentemente dolcissima You’re All I Need che racconta in realtà una
stora d’amore dal punto di vista di un serial killer. Girls, Girls, Girls
trasuda anni ottanta da ogni poro, è edonismo messo in musica, e proprio gli
eccessi del gruppo portarono Nikki ad una overdose letale che gli sarebbe costata
la vita, se non fosse stato per una decisiva scarica d’adrenalina al cuore (in
puro stile Mia Wallace) a salvargli la vita. Dopo questa esperienza i Crüe
decisero di non poter andare avanti così, ed entrarono tutti in riabilitazione,
dalla quale uscirono puliti e rinsaviti (circa). Ma ciò sarebbe bastato per
ripetersi ancora una volta ?
Dr. Feelgood
(1989)
Non credo che
questo disco abbia bisogno di molte presentazioni. Semplicemente, è il miglior LP
che i Mötley Crüe abbiano mai realizzato. Un successo senza pari, che garantì
ai quattro una fama planetaria. Un capolavoro da dieci e lode, un album
talmente bello che se non avesse un titolo potrebbe essere scambiato per un
Best Of. Ogni pezzo è memorabile, ogni canzone è stata realizzata e prodotta in
maniera impeccabile; in Dr.Feelgood c’è tutto, adrenalina (Kickstart My Heart),
sentimento (Without You), droga (Dr. Feelgood), sesso (Rattlesnake Shake) e via
così. Slice Of Your Pie dà i brividi, con un chorus geniale, Same Ol’ Situation
è irruenta, frizzante e come sempre con un ritornello indimenticabile (ed un
video fantastico tra l’altro), mentre She Goes Down è pura glammaggine, tanto
da iniziare con il suono di una zip che si abbassa. E non abbiamo ancora citato
le due ballad che concludono questo capolavoro: Don’t Go Away Mad (Just Go
Away) e Time For Change. Che dire, la prima è talmente bella che si spiaccica
in testa in mezzo minuto, con un ritmo crescente orchestrato alla perfezione
dal quartetto; la seconda è più diretta, con un coro che vede la presenza di
nomi altisonanti quali Sebastian Bach e Steven Tyler al microfono, dove i
Motley Crüe forse inconsapevolmente
presagiscono ciò che da lì a pochi anni sarebbe avvenuto, ovvero un
cambiamento che forse Nikki Sixx sentiva ormai come necessario. Ma questa è
un’altra storia.
Io vi ringrazio
tantissimo per la lettura, vi mando un abbraccio forte forte e ci vediamo tra
due settimane con la seconda parte di questo speciale sui Crüe!
Cristiano Chignola
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