lunedì 15 ottobre 2018

IDLES – RESISTERE NEL/AL 2018

Partiamo da una premessa: parlare di politica – o anche “solo” di attualità – con la musica è complicato.



Prendiamo gli anni ‘70 e ‘80, gli anni in cui si può individuare forse l’epoca d’oro del cantautorato italiano  politicamente impegnato. Guccini, De Andrè, per citare banalmente i più celebri. Ora, nel 2018 ciò che rimane nel pubblico – oltre alla memoria – di quelle canzoni è ben poco. Più che altro una tendenza latente, da parte della generazione dei nostri genitori – ho 23 anni – a considerare buona la musica che porta con sé un significato in qualche modo “alto” in contrapposizione alla musica “leggera”. Al punto che a volte in alcuni si nota quasi un certo imbarazzo nell’ascoltare quelle che in altri momenti avrebbero definito canzonette, e un ingarbugliarsi in improbabili ragionamenti per mostrarne il senso profondo, come a volersi giustificare. Insomma, c’è una certa tendenza nostrana a valutare la musica basandosi sull’”impegno”.
D’altra parte però quando *inserire nome di una band o un artista* prende posizione su una vicenda durante un suo concerto o in altra occasione si trova accerchiato dall’orda virtuale degli italianissimi fatevigliaffarivostri-sti capitanati dal guru Rita Pavone.
  


(Nota di mezzo: mentre scrivo penso che ci sarebbero una miriade di diramazioni che questo discorso potrebbe intraprendere, tutte interessanti. Il punk italiano, l’hip hop italiano, Salmo, Iosonouncane; ma anche l’ingenuità da parte di alcuni, un certo anti-intellettualismo da parte di altri, la sovra-interpretazione di alcune opere e altre parole con prefissi interessanti. Ma di tutto questo non parlerò oggi.)

La verità è che il nodo gordiano dell’impegno politico nella musica non è mai stato sciolto. Il risultato di questo groviglio di contraddizioni sono canzoni rivolte a nessuno, che mettono d’accordo tutti e musicalmente oscene. Tipo Non mi avete fatto niente, ecco. Ve la ricordate, ve? Ma non si può dare troppa colpa ai due ragazzetti perché ripeto, mettere la politica in musica è complicato.
I più cinici direbbero che il motivo per cui da noi è complicato è che siamo la terra del “chi si fa i cazzi suoi campa cent’anni” e che moriremo tutti democristiani. E probabilmente avrebbero ragione.
Questo da noi. E altrove?


A settembre è uscito il secondo album degli IDLES, Joy as an Act of Resistance. Più spigoloso, più sfaccettato, più aggressivo perfino, del suo predecessore Brutalism – uscito appena un anno fa – è balzato dritto tra gli album recenti più interessanti. “Idle” significa “insofferente”, “accidioso”, ma la band di Joe Talbot fa tutto meno che stare con le mani in mano: nel disco si toccano freneticamente i temi più vari, dalla mascolinità all’omofobia passando per la brexit e l’immigrazione. Niente che non sia già stato sviscerato da altre band, vero, ma c’è qualcosa di più.
Due cose in particolare portano Joy as an Act of Resistance ad un livello più alto rispetto al resto della musica di questo 2018: la prima è l’accordo tra le parti. Tutto l’album è un manifesto, un invito alla coesione –

He's made of bones, he's made of blood
He's made of flesh, he's made of love
He's made of you, he's made of me
Unity!

– e allo scontro –

I'll sing at fascists 'til my head comes off
I am Dennis Skinner's molotov;

quando il testo è più criptico e sembra nasconderlo la musica lo rende palese, che sia nel ritornello di Danny Nedelko o nel crescendo finale di Colossus. Una compattezza stilistica e di significato totale, che in pochi album si ritrova. La seconda cosa è il prendere posizione. Né coesione totale, né scontro totale: gli IDLES tracciano una linea. Che è qualcosa di impopolare a dire il vero, ai tempi dei presunti superamenti vari di destra e sinistra e dei “Non sono d’accordo con quello che dici, ma darei la vita perché tu lo possa dire”.
In definitiva Joy as an Act of Resistance è squisitamente – in tutti i sensi – punk. È il punk che rispolvera gli stivali e si aggiusta le spille. È il punk che cessa di essere stereotipo, che acquista la dignità che hanno le cose quando rappresentano, quindi uniscono. È il punk che può urlare, sputare idee nude e pulsanti come un bambino appena uscito dall’utero. 
La musica degli IDLES al contempo domanda e risponde alla necessita di fare politica e lo fa ripartendo dalla base, data per scontata fino a ieri.

E questo è altrove. Da noi?

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