Prendiamo gli anni ‘70 e ‘80,
gli anni in cui si può individuare forse l’epoca d’oro del cantautorato
italiano politicamente impegnato.
Guccini, De Andrè, per citare banalmente i più celebri. Ora, nel 2018 ciò che
rimane nel pubblico – oltre alla memoria – di quelle canzoni è ben poco. Più
che altro una tendenza latente, da parte della generazione dei nostri genitori
– ho 23 anni – a considerare buona la musica che porta con sé un significato in
qualche modo “alto” in contrapposizione alla musica “leggera”. Al punto che a
volte in alcuni si nota quasi un certo imbarazzo nell’ascoltare quelle che in
altri momenti avrebbero definito canzonette, e un ingarbugliarsi in improbabili
ragionamenti per mostrarne il senso profondo, come a volersi giustificare.
Insomma, c’è una certa tendenza nostrana a valutare la musica basandosi sull’”impegno”.
D’altra parte però quando
*inserire nome di una band o un artista* prende posizione su una vicenda
durante un suo concerto o in altra occasione si trova accerchiato dall’orda
virtuale degli italianissimi fatevigliaffarivostri-sti capitanati dal guru Rita
Pavone.
(Nota di mezzo: mentre scrivo
penso che ci sarebbero una miriade di diramazioni che questo discorso potrebbe
intraprendere, tutte interessanti. Il punk italiano, l’hip hop italiano, Salmo,
Iosonouncane; ma anche l’ingenuità da parte di alcuni, un certo
anti-intellettualismo da parte di altri, la sovra-interpretazione di alcune
opere e altre parole con prefissi interessanti. Ma di tutto questo non parlerò
oggi.)
La verità è che il nodo
gordiano dell’impegno politico nella musica non è mai stato sciolto. Il
risultato di questo groviglio di contraddizioni sono canzoni rivolte a nessuno,
che mettono d’accordo tutti e musicalmente oscene. Tipo Non mi avete fatto
niente, ecco. Ve la ricordate, ve? Ma non si può dare troppa colpa ai due
ragazzetti perché ripeto, mettere la politica in musica è complicato.
I più cinici direbbero che il
motivo per cui da noi è complicato è che siamo la terra del “chi si fa i cazzi
suoi campa cent’anni” e che moriremo tutti democristiani. E probabilmente
avrebbero ragione.
Questo da noi. E altrove?
A settembre è uscito il
secondo album degli IDLES, Joy as an Act of Resistance. Più spigoloso, più
sfaccettato, più aggressivo perfino, del suo predecessore Brutalism – uscito
appena un anno fa – è balzato dritto tra gli album recenti più interessanti.
“Idle” significa “insofferente”, “accidioso”, ma la band di Joe Talbot fa tutto
meno che stare con le mani in mano: nel disco si toccano freneticamente i temi
più vari, dalla mascolinità all’omofobia passando per la brexit e
l’immigrazione. Niente che non sia già stato sviscerato da altre band, vero, ma
c’è qualcosa di più.
Due cose in particolare
portano Joy as an Act of Resistance ad un livello più alto rispetto al resto
della musica di questo 2018: la prima è l’accordo tra le parti. Tutto l’album è
un manifesto, un invito alla coesione –
He's made of bones, he's made
of blood
He's made of flesh, he's made
of love
He's made of you, he's made
of me
Unity!
– e allo scontro –
I'll sing at fascists 'til my
head comes off
I am Dennis Skinner's molotov;
quando il testo è più
criptico e sembra nasconderlo la musica lo rende palese, che sia nel ritornello
di Danny Nedelko o nel crescendo finale di Colossus. Una compattezza stilistica
e di significato totale, che in pochi album si ritrova. La seconda cosa è il
prendere posizione. Né coesione totale, né scontro totale: gli IDLES tracciano
una linea. Che è qualcosa di impopolare a dire il vero, ai tempi dei presunti
superamenti vari di destra e sinistra e dei “Non sono d’accordo con quello che
dici, ma darei la vita perché tu lo possa dire”.
In definitiva Joy as an Act
of Resistance è squisitamente – in tutti i sensi – punk. È il punk che
rispolvera gli stivali e si aggiusta le spille. È il punk che cessa di essere
stereotipo, che acquista la dignità che hanno le cose quando rappresentano,
quindi uniscono. È il punk che può urlare, sputare idee nude e pulsanti come un
bambino appena uscito dall’utero.
La musica degli IDLES al
contempo domanda e risponde alla necessita di fare politica e lo fa ripartendo
dalla base, data per scontata fino a ieri.
E questo è altrove. Da noi?
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