Ho maturato l’idea che l’uomo sia un essere limitato per
natura, e ciò lo porta inevitabilmente a catalogare sommariamente e
metodicamente il mondo che lo circonda per poterlo in parte capire e per poter
interagire con esso. Il problema nasce dall’evidente discrepanza tra le facoltà
umane e la natura, evidentemente superiore. In questo modo il soggetto può sì
interagire con il mondo circostante, ma lo farà sempre attraverso un filtro che
gli impedisce di cogliere la vera essenza della vita che scorre attorno a lui.
Per questo motivo, già da un po’ di tempo, ho deciso di limitare il più
possibile l’uso di etichette limitanti e di ragionare senza giudicare a priori
le situazioni in cui mi trovo, le persone con cui ho a che fare. Ammetto di
trovare delle difficoltà, ma la certezza della validità di quest’idea mi spinge
ogni giorno a perseverare in quest’epochè radicale degli usi e dei costumi
umani. Tutto questo per dire che, nonostante i miei sforzi atti ad eliminare
ogni sorta di categorizzazione nella mia mente, esiste in me una divisione che
ancora non riesco ad eliminare. Rimane radicata nonostante tutti i miei sforzi.
Ancora divido il mondo tra coloro che hanno visto i Digimon (rigorosamente la
prima serie) e coloro che non lo hanno fatto. Ci sarebbe anche un’ulteriore
sottocategoria della seconda, ovvero coloro che alla parola Digimon rispondono
con “Che?!? I Pokemon intendi?”; ma di questi non parleremo. Questi dovrebbero
solo finire a fare compagnia a Lucifero, non chiedo molto.
Se quella antecedente era stata indubbiamente la
generazione Dragon Ball, la mia è la generazione Digimon. Avevamo appena cinque
anni quando fu mandato in onda sulle reti Rai per la prima volta (quando ancora
la Rai tentava di accaparrarsi qualche esclusiva interessante), ma credo fu l’estate
successiva a rappresentare il vero apice della popolarità dei coloratissimo
mostri digitali, quando la serie venne riproposta alle 8:30 su Rai 2 in piena
estate, cioè quando i bimbini sono liberi da impegni scolastici e passano giornate intere davanti ad un televisore. La mia famiglia in realtà, come ogni
anno, quell'estate aveva affittato un ombrellone al lido Miramare, ed io ero sempre l'elemento ritardante per la truppa dovendo finire di vedere la puntata. Un attaccamento
morboso simile a quello che le casalinghe disperate provavano per Beautiful più
o meno negli stessi anni.
E quindi, perché questo momento nostalgia? Perché ripescare
dal fondo del cilindro la prima stagione di una serie ormai decaduta? Perché i
creatori hanno deciso di accantonare i mecha e le fusioni umani-mostri per
ridare al pubblico attempato una nuova gioia, una nuova stagione incentrata
sulle avventure dei primi digiprescelti, ma ambientata circa otto anni dopo la
drammatica conclusione di Digimon Adventure. Un paio di giorni fa è andato
finalmente in onda il primo film della nuova serie, Digimon Adventure Tri. "Film" perché poi hanno optato per creare una serie composta da sei film da proiettare
nelle sale nipponiche nell’arco di un paio d’anni. Scelta opinabile, ma tant’è; ne riparleremo.
Una volta appresa la notizia, dopo aver rotto il soffitto
con la testa, mi sono rituffato nella visione della prima storica stagione per
rinfrescarmi la memoria e sinceramente per verificare con mano le impressioni
che tale cartone animato (perché all’epoca erano ancora cartoni animati) mi
aveva lasciato. Prima di cominciare la visione, avevo paura di sbagliarmi,
avevo paura che le mie vecchie sensazioni venissero cancellate dal tempo e
rimpiazzate con adulta indifferenza, e invece no.
Confermo: la prima serie dei Digimon è e resterà un
classico per la mia generazione, e non mi capacito di come i creatori e i
responsabili del brand abbiano affossato una serie con potenzialità così palesi
attraverso scelte di marketing evidentemente molto sbagliate. Una tale miniera
d’oro e di sogni crollata perché si scavava tra le fondamenta erodendole anziché
cercare l’oro. I punti a favore dei Digimon sono moltissimi e tutti validi, ma
vorrei soffermarmi su tre in particolare: le tematiche mature, la trama
coinvolgente e i mostri digitali stessi. A differenza di molte altre serie
animate destinate ad un pubblico molto giovane, infatti, i Digimon proponevano
delle tematiche profonde e complesse come la nostalgia dei luoghi natii, l’amore,
l’amicizia, la morte e la resurrezione, l’abbandono, la solitudine e la paura, la crescita. Temi pesanti se pensati in relazione ai destinatari del prodotto, ma nonostante
ciò i bambini erano accompagnati per mano dalle immagini nella scoperta di
questi concetti. Tutto veniva presentato al momento giusto e nella maniera
corretta, senza appesantire eccessivamente il cartone, magari andando a
discapito dell’intrattenimento e del divertimento. Queste tematiche
interessanti avevano però bisogno di una struttura solida per poter arrivare in
maniera chiara e funzionale ai bambini. Ecco dunque la trama che ancora oggi
ricordiamo a memoria. I bambini prescelti e i loro Digimon riescono ad entrare
immediatamente in sintonia con il pubblico e ciò porta ad un’immedesimazione
che cresce sempre più con il prosieguo
della storia. I protagonisti vengono strappati dalle loro abitazione e trasportati
contro la loro volontà sulla celeberrima Isola di File. Qui dovranno fare i
conti con i mostri influenzati dai Black Gear e con loro stessi, con i loro
sentimenti. E poi Etemon, il deserto, le digievoluzioni, i digimedaglioni, il
mistero sulla loro predestinazione, i contatti con il mondo reale, la
sovrapposizione dei due mondi e i Digimon dimenticati. Il giovane telespettatore diviene un vero e
proprio digiprescelto grazie all’immedesimazione, tanto che io stesso pensai mi
sarebbero venuti a prendere quando, verso la metà della serie, i protagonisti
tornano nel mondo reale per fermare Myotismon e trovare l’ultimo componente del
loro gruppo. Altro che lettera di Hogwartz, io sto ancora aspettando Tai e Izzy in camera mia. Venite presto.
E poi ci sono loro: i Digimon. Agumon, Gabumon, Patamon,
Gatomon, Tentomon, Gomamon, Biyomon, Palmon e tutte le loro digievoluzioni. Meravigliosi,
coloratissimi e perfettamente accoppiati ai bambini prescelti. Protagonisti tanto
quanto la loro controparte umana. Erano loro a rendere l’intera serie
accattivante, divertente e movimentata. Ripetitiva nella struttura narrativa
(soprattutto nella prima metà dell’opera) senza mai perdere di vista lo
sviluppo della trama e dei personaggi. Semplicemente il connubio perfetto tra
serializzazione e merchandising legato ai giocattoli dei vari mostri. Anche se
devo confessare che come Angemon non ce n’è, mi spiace per tutti i sostenitori
di Metalgraymon e Omnimon.
Ma la vera ciliegina della prima serie dei Digimon è
forse il finale: fantastico, insuperabile. Nel 2001 piansi a dirotto quando l’autobus
prese il volo per lasciare definitivamente Digiworld separando dunque bambini e
mostri, ma devo dire che la mia reazione qualche giorno fa non è stata da meno.
Pensare che un’avventura così immensa e formativa debba finire è un gran
dispiacere. Mi dev’essere finito qualcosa nell’occhio. Sigh.
Questi e molti altri i motivi della genesi del mito. E ora
ci risiamo. Ora ritorniamo sull’isola di File a combattere e a crescere
ancora. Aspettatevi quindi altri due o tre articoli in cui parlerò della nuova
serie, del confronto con i Pokemon e di tante altre avventure legate al mondo
digitale che, stavolta per davvero (non come per Dragon Ball Super), ci mancava non
poco.
Mamma, dove hai messo il digivice?
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